LA REPUBBLICA CATALANA DURA SOLO 57 SECONDI
(12 Ottobre 2017)
BARCELLONA. La Repubblica Catalana che avrebbe dovuto sorgere dopo il referendum del 1° Ottobre scorso è durata
solo 57 secondi: alle 19,41 dell’8 Ottobre, al termine d’un lungo discorso, il Presidente della Regione Carles
Puigdemont ha solennemente dichiarato l’indipendenza del territorio dalla Spagna, ma meno d’un minuto dopo ne ha
invocato il congelamento.
così, il grido d’esultanza delle migliaia di nazionalisti che all’interno ed all’esterno dell’aula parlamentare di
Barcellona stava per esplodere è stato stroncato sul nascere e, col passare delle ore, è emersa una profonda
delusione di chi voleva il divorzio subito, senza se e senza ma.
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Un passo indietro. Nell’ultimo mese la rivendicazione separatista catalana ha avuto un’accelerazione notevole: dopo
gli attentati del 17 agosto scorso a Barcellona e Cambrils, che, per un momento avevano unito le forze di sicurezza
spagnole nella caccia ai terroristi, la coalizione al governo a Barcellona ha cominciato ad alzare la voce:
• Il 31 agosto la conferenza dei capigruppo della camera catalana convoca l’assemblea per approvare la legge sul
referendum;
• il 6 e 7 Settembre, a tambur battente, il Legislativo approva i documenti che rendono possibile lo scrutinio: il
presidente Puigdemont e i suoi Consiglieri (ministri regionali) emanano il decreto di convocazione dei comizi
elettorali per l’1 d’ottobre;
• l’11 Settembre, festa della diada de Catalunya, due milioni di persone si riversano per le vie di Barcellona sia
per ricordare la caduta della città nel 1714, come avviene tutti gli anni, sia per dar il via alla
campagna elettorale;
• il 1° Ottobre si procede alla votazione.
Tra tutte queste date si collocano anche gl’interventi dei tribunali e del governo centrale: il tribunale
costituzionale invalida la legge sul referendum separatista, dichiara illegittima la seduta del parlamento
regionale; il Tribunale superiore di Giustizia dispone il sequestro delle urne e delle schede, ordina che in nessun
locale pubblico vengano aperti i seggi, minaccia di sanzioni i funzionari pubblici che non impediranno lo
scrutinio, convoca i sindaci che hanno concesso delle sale comunali o delle scuole perché vengano allestite le
sezioni elettorali.
La Moncloa dispone il controllo dell’amministrazione finanziaria della Catalogna affinché nemmeno un centesimo
venga speso per far svolgere il plebiscito.
Barcellona, però, aveva già messo in atto un piano B: in giugno erano state acquistate in cina delle urne ed erano
state fatte stampare delle schede.
Le une e le altre sono state occultate e son venute alla luce solo il 1° ottobre.
Vani son stati i sequestri di schede e di registri elettorali,mentre nella notte precedente la domenica elettorale
migliaia di persone, uomini, donne, giovani, anziani hanno occupato le scuole e i luoghi pubblici per consentire lo
svolgimento della consultazione.
Lo slogan scandito era «Vulem vutá, vutarem!»
L’1 Ottobre, in sostanza, si è votato, ma senza quelle garanzie di segretezza e di imparzialità che il voto
richiede: si sono segnalati casi di elettori che han messo nell’urna più di una scheda, piccoli comuni che hanno
avuto più votanti dei residenti, ciò perché il governo aveva consentito a ciascuno di scegliersi il luogo dove
esprimersi.
I detrattori della consultazione perciò han avuto buon gioco nel contestare l’autenticità del voto, sottolineando
anche che in alcuni casi si è permesso di votare a minorenni e non sempre è stata garantita la segretezza di una
cabina.
Al termine, secondo i dati ufficiali, 2,3 milioni di catalani si son recati alle urne, su un corpo elettorale di
oltre 5 milioni ed han detto sì all’indipendenza il 90%, no il 7,7%, il resto astenuti.
Purtroppo, soprattutto nelle prime ore della domenica, si sono verificati duri scontri tra la Policía nacional e la
Guardia Civil, inviate dai tribunali ad impedire lo svolgimento delle operazioni elettorali ed attivisti
dell’indipendentismo: risultato, decine di feriti ed immagini scioccanti di violenti scontri tra agenti e comuni
cittadini, col coinvolgimento perfino di bambini ed anziani.
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Le conseguenze. Prima di tutto, Madrid non ha riconosciuto alcun valore al plebiscito ed ha cominciato a ventilare
la possibilità di sciogliere il Parlamento catalano e sospendere per un certo periodo l’autonomia della regione.
Ma i veri momenti di svolta della questione sono stati:
• l’intervento diretto nella questione del re: don Felipe VI, con un duro messaggio istituzionale diffuso da radio
e TV ha accusato i separatisti d’aver infranto la legge e la costituzione;
• diversi imprenditori hanno minacciato di spostare la sede delle loro imprese fuori dalla regione;
• domenica 8 ottobre, oltre un milione di persone ha manifestato per le vie di Barcellona contro la secessione ;
• la conferenza episcopale ha rivolto un richiamo all’unità della Spagna, mentre Cadena Cope la sua emittente
radiotelevisiva di riferimento, che ha molto seguito, è chiaramente schierata contro il sovranismo;
• L’Unione europea, pur rivolgendo appelli al dialogo tra le parti in causa, appoggia Madrid e ne difende
l’integrità territoriale.
Bruxelles ha lasciato intendere, senz’ombra di dubbio,che se la Catalogna divenisse uno stato indipendente si
collocherebbe fuori dall’UE e privata di quegl’ingenti finanziamenti di cui oggi gode.
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L’articolo 155. Ora sul capo del Presidente della Generalitat de Catalunya e del Parlament pende la spada di
Damocle dell’Articolo 155 della Costituzione del 1978.
Esso dice:
«1. Se una Comunità Autonoma non adempie agli obblighi che la Costituzione, o altre leggi, le impongono o agisce
attentando gravemente all’interesse generale della Spagna, il Governo, ne chiede conto al Presidente della comunità
autonoma: in caso di mancata risposta, con l’approvazione della maggioranza assoluta del Senato, potrà adottare
tutte le misure necessarie per obbligare quella comunità autonoma a compiere forzosamente
tutti gli obblighi [in precedenza] non assolti al fine di garantire l’interesse generale della Spagna.
2. col fine di eseguire i provvedimenti previsti nel comma precedente, il Governo potrà impartire istruzioni a
tutte le autorità [presenti sul territorio] delle Comunità autonome.»
[la traduzione del testo dall’originale spagnolo è nostra].
Quest’articolo è sufficientemente generico per lasciare al governo centrale largo margine d’azione: infatti, Madrid
non ha ancora dichiarato che l’applicherà, ma potrà avvalersene se entro lunedì 16 ottobre il Presidente della
Generalitat dichiarerà per iscritto che lo scorso 8 ottobre ha effettivamente proclamato la repubblica catalana,
violando in questo modo la costituzione e le leggi dello Stato.
Il Presidente del Governo spagnolo Mariano Rajoy, 62 anni, che guida un esecutivo di minoranza del partido Popular,
(PP) chiaramente si augura che Puigdemont faccia marcia indietro perché teme di non aver abbastanza forza per
arrivare fino a disporre lo scioglimento del Parlamento autonomo e convocare nuove elezioni regionali anticipate,
avocando a sé il controllo d’una regione assai riottosa.
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I precedenti. Da quando la Spagna esiste (1469)) le relazioni tra l’area di lingua catalana e quella di lingua
castigliana non sono mai state facili e i conflitti tra le diverse parti del Paese sono riaffiorati ogni qualvolta
lo Stato ha attraversato fasi di crisi.
E’ accaduto durante la guerra di successione spagnola, combattutasi tra il 1700 ed il 1715, nel XIX secolo nei
diversi momenti insurrezionali o, infine, negli anni Trenta del Novecento, nei giorni convulsi dell’effimera
Repubblica.
Anzi, tra i motivi che indussero Franco e i suoi a suscitare il movimento del 18 luglio 1936, a cui poi tenne
dietro la famosa guerra civile tra nazionalisti e repubblicani, vi fu il timore che la Spagna fosse sul punto di
frantumarsi per le incessanti rivendicazioni indipendentiste dei catalani.
Eppure barcellona aveva ottenuto dal Parlamento l’approvazione dello statuto che riconosceva ampia autonomia alla
regione.
Franco, poi, divenuto Capo di Stato e della Falange cancellò ogni parvenza di autogoverno locale, impose il
castigliano come lingua unica del Paese e proibì l’uso pubblico e privato di Basco, catalano e galiziano.
Questa politica, che potremmo chiamare di “castiglianizzazione forzata” stroncò per decenni gli aneliti
indipedentisti che però si ripresentarono puntualmente una volta tramontata la dittatura ed avviato il processo di
transizione alla democrazia.
La Spagna del dopo Franco tentò di governare le spinte centrifughe delle diverse regioni accordando loro ampia
autonomia, ma vi furono momenti nei quali si temette che il Paese potesse andare in frantumi. Per questo sia il
PSOE, sia il PP, soprattutto quando non ottenevano la maggioranza assoluta in Parlamento, coinvolsero i molti
partiti regionali, in primo luogo il Partito Nazionalista Basco (PNV) e la coalizione catalana Convergéncia e Uniò
(CIU) in complicati accordi di governo che implicavano ingenti trasferimenti di fondi dal centro alla periferia,
proprio per tacitare i risentimenti e scongiurare l’emergere di pulsioni separatiste.
La grave crisi economica che ha colpito il Paese nel 2008 ha fatto riemergere i conflitti rimasti sotto la cenere,
soprattutto a Barcellona: qui la CIU è andata in pezzi e si è formata, soprattutto con le elezioni regionali del
2015, la coalizione Junts pel sí (insieme per il sì) che comprende Convergéncia Democratica ed Esquerra
Repúblicana. Tale cartello è appoggiato dalla CUP (Candidatura de Unidad Popular), una formazione di estrema
sinistra, radicalmente sovranista.
Questi tre partiti hanno 73 seggi su 135 nella Camera autonoma e, quindi, sono al governo.
La CUP che sembra avere la golden share della maggioranza ora minaccia di ritirare il suo appoggio se entro trenta
giorni non si proclamerà l’indipendenza, altri, anche nel fronte secessionista cominciano a temere pesanti
contraccolpi sociali, politici ed economici difficili da gestire.
La vicenda sicuramente avrà nuovi sviluppi che seguiremo perché crediamo che la vicenda catalana sia emblematica
delle difficoltà in cui si dibatte oggi l’europa: dalla sua eventuale soluzione può emergere un modello di
appianamento dei conflitti tra regioni che rivendicano la propria indipendenza e gli Stati nazionali che non
vogliono andare in pezzi.
In questo momento, in modo più o meno latente, sono attivi movimenti separatisti in Corsica, Fiandre, Slesia e
Scozia, ma altri ne potrebbero sorgere.
Anche in Italia c’è chi soffia sulle aspirazioni ultrafederaliste di alcune regioni: da come si concluderà la
vicenda catalana si potrà capire se nei prossimi anni avremo altri tentativi di separazione o meno.
PIER LUIGI GIACOMONI