RENZI PRESENTA IL SUO GOVERNO
(28 Novembre 2016)
ROMA. Il Governo Renzi, tra l’altro, fin dall’inizio del suo mandato aveva l’intenzione di attuare le riforme
istituzionali che poi sono confluite nella legge costituzionale su cui siamo chiamati a pronunciarci domenica 4
dicembre.
Allora fu applaudito e gli fu data la fiducia da tutti i senatori ed i deputati della maggioranza.
Nessuno di coloro che poi hanno preso le distanze dal Governo si alzò a dire che quelle riforme avrebbero limitato
la democrazia, prodotto una deriva autoritaria, concentrato troppi poteri nelle mani di uno solo.
Allo scopo di rinfrescare la memoria, riproduco qui il testo del discorso programmatico, pronunciato in Senato il
25 febbraio 2014.
Tra l’altro, quell’intervento fu pronunciato a braccio e la trascrizione che ne abbiamo è quella contenuta nel
resoconto stenografico disponibile sul sito del Senato.
Anche allora qualcuno dei molti criticoni ad oltranza, quelli che hanno sempre qualcosa da dire, da puntualizzare,
da punzecchiare, sollevò il sopracciglio perché il giovane Premier, appena insediato, non si presentò con un testo
scritto.
Avvertenza Per chi leggerà: non ho tolto le interruzioni che nel corso dell’intervento sono state fatte da diversi
senatori né le segnalazioni d’applauso riportate dal verbalizzatore.
Ho fatto questo per rendere meno arido il testo
***
Signor Presidente del Senato, gentili senatrici, onorevoli senatori, ci avviciniamo a voi in punta di piedi, con il
rispetto profondo, non formale, che si deve a quest’Aula, che si deve alla storia di un Paese che trova in alcuni
dei suoi luoghi non soltanto un simbolo – cioè qualcosa che tiene insieme – ma anche un elemento di unità profondo.
Ci avviciniamo con lo stupore di chi si rende conto della magnificenza e della grandezza non solo di un luogo
fisico, ma anche del valore che questo rappresenta nel cuore di una lunga storia, come quella italiana.
Ci avviciniamo, dunque, a voi con lo stupore di chi si rende conto di essere davanti a un pezzo di una storia che
viene da una tradizione unica. Ma, contemporaneamente, sappiamo perfettamente che viviamo un tempo di grande
difficoltà, di struggenti responsabilità e, di fronte all’ampiezza di questa sfida, abbiamo la necessità di
recuperare il coraggio, il gusto e, per qualche aspetto, anche il piacere di provare a fare dei sogni più grandi
rispetto a quelli che abbiamo svolto sino ad oggi e contemporaneamente accompagnarli da una concretezza puntuale,
precisa.
Riflettevo stamattina sul fatto che io non ho l’età per sedere nel Senato della Repubblica. Non vorrei iniziare con
una citazione colta e straordinaria della pur bravissima Gigliola Cinquetti, ma è così: non ho l’età. E fa pensare
che oggi davanti a voi, senatrici e senatori, siamo qui non per inseguire un record anagrafico, non per allungare
di una riga il nostro curriculum vitae, non per toglierci qualche soddisfazione personale: siamo qui – ve lo
dobbiamo – per parlarvi un linguaggio di franchezza, vorrei dire al limite della brutalità, nel rispetto della
storia cui ho fatto riferimento.
Siamo a chiedervi la fiducia, e oggi chiedere la fiducia è un gesto controcorrente, e non tanto nel dibattito
politico (doveroso, istituzionale, costituzionalmente previsto). Chiedere la fiducia significa oggi provare ad
andare controcorrente: si fatica a dare fiducia nel rapporto quotidiano con le persone, con i colleghi di lavoro;
le persone che stanno fuori da quest’Aula sanno che chiedere la fiducia oggi è sempre più difficile. Non va di moda
la richiesta della fiducia. Chiediamo fiducia a questo Senato. Ci impegniamo a meritare la fiducia come Governo,
perché pensiamo che l’Italia abbia la necessità urgente e indifferibile di recuperare la fiducia come condizione
per uscire dalla situazione di crisi in cui ci troviamo.
Il nostro è un Paese arrugginito, un Paese impantanato, incatenato da una burocrazia asfissiante, da regole, norme
e codicilli che paradossalmente non eliminano l’illegalità: senza dover risalire alle gride manzoniane, l’idea che
le norme che si sono succedute nel corso degli anni non abbiano prodotto il risultato auspicato è sotto gli occhi
di tutti. Eppure, oggi chiedere la fiducia significa proporre una visione audace, unitaria e per qualche aspetto
anche – spero – innovativa, che parte dal linguaggio della franchezza con la quale comunico fin dall’inizio che
vorrei essere l’ultimo Presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a quest’Aula. Sono consapevole della portata
di questa espressione, e anche del rischio di farla di fronte a senatrici e senatori che certo non meritano per
qualità personale il ruolo di ultimi senatori a dare la fiducia a un Governo, ma è così. Non lo sta chiedendo un
Governo: lo sta chiedendo un Paese, lo sta chiedendo l’Italia.
Noi oggi non immaginiamo di essere gli ultimi a chiedervi la fiducia perché abbiamo un pregiudizio su di voi, ma
perché abbiamo un giudizio organico sull’Italia per il quale o siamo nelle condizioni… (Commenti del senatore
Calderoli). Apprezzo che questa dichiarazione abbia suscitato l’entusiasmo del senatore Calderoli, ma alla
perentorietà di questa affermazione corrisponde la consapevolezza che quello che stiamo vivendo è un momento in cui
o si ha il coraggio di operare delle scelte radicali e decisive, oppure non perderemo soltanto la relazione tra di
noi, ma anche il rapporto con chi da casa continua a pensare che la politica sia una cosa seria, che la politica
sia ciò che di più grande ha un Paese, che la politica sia il valore per il quale vale la pena confrontarsi,
discutere, litigare, ma anche per il quale alla fine valga la pena vivere un’esperienza di rispetto degli altri;
quella straordinaria esperienza per la quale siamo, a differenza di qualche leader, orgogliosi di essere
democratici, siamo orgogliosi di apprezzare le regole del gioco della democrazia.
Certo, più voi sarete capaci di stimolarci, più voi sarete capaci di incalzarci, più voi sarete capaci di
raccontarci nel dettaglio come noi possiamo cambiare, più incisiva sarà l’azione di questo Governo.
Tuttavia, non possiamo non partire da un giudizio reale su ciò che sta fuori da queste Aule. Se in questi anni
avessimo prestato ai mercati rionali lo stesso ascolto che abbiamo prestato ai mercati finanziari, ci saremmo
accorti che la prima richiesta è la richiesta di semplicità, di pace, di chiarezza; è la richiesta di una tregua
della politica rispetto ai cittadini. L’impressione che invece abbiamo dato è quella di un’angoscia nel rapporto
tra politici e cittadini, per i quali l’idea che oggi è forte nel Paese è che l’Italia abbia già finito tutto il
futuro che aveva, che l’Italia abbia esaurito le sue carte e che sia un Paese finito, più che un Paese infinito.
Bene, noi abbiamo accelerato e deciso di cambiare l’impostazione del Governo nelle forze politiche che lo
sostengono perché pensiamo che fuori di qui ci sia un’Italia viva, brillante e curiosa; un’Italia che,
nell’aspettarci fuori da questi Palazzi, si vuole bene e che ci tiene a presentarsi bene. Un’Italia che non ci
segue per un motivo: perché è avanti a noi. È avanti a noi: siamo noi a doverla rincorrere e a doverla recuperare.
È l’Italia che forse si sta stancando di aspettarci, e vi propongo, e vi proponiamo come Governo, di fare di tutto
per raggiungerla attraverso un pacchetto di riforme che consideri il semestre europeo come la principale
opportunità, che affronti prima del semestre europeo le scelte legate alle politiche sul lavoro, sul fisco, sulla
pubblica amministrazione, sulla giustizia, che metta al centro il valore della scuola, ma che parta naturalmente
dalle riforme costituzionali, istituzionali ed elettorali, sulle quali si è registrato un accordo che va oltre la
maggioranza che sostiene questo Governo, e per il quale noi non possiamo che dire che gli accordi li rispetteremo
nei tempi e nelle modalità prestabilite.
Pensiamo però che si debba partire da un presupposto. Il presupposto è che eravamo ad un bivio: o si andava alle
elezioni, più o meno…
VOCE DAL GRUPPO M5S. Bravo!
RENZI, presidente del Consiglio dei ministri. Noi non abbiamo paura di andare alle elezioni. (Commenti dal Gruppo
M5S). Siamo abituati, come partito… (Applausi ironici dal Gruppo M5S). Dico ai senatori del Movimento 5 Stelle,
che imparo ad apprezzare in quest’Aula, che sono il segretario di un partito politico che non ha mai paura di
candidarsi alle elezioni: anche dove i sondaggi dicono il contrario, come in Sardegna (Applausi dal Gruppo
PD),anche dove c’è difficoltà, noi non abbiamo paura di andare alle elezioni, e in questo primo anno di vita
parlamentare, in cui abbiamo ricevuto da voi presunte lezioni di democrazia, vi segnalo, gentili senatrici ed
egregi senatori, che nelle quattro elezioni regionali che si sono svolte – quelle della Sardegna, della Basilicata
e delle Province di Trento e Bolzano – il Partito Democratico si è sempre presentato e ha sempre vinto. Non posso
dire la stessa cosa per voi. (Applausi dal Gruppo PD).
Non abbiamo paura di andare alle elezioni. Noi abbiamo nel nostro DNA la volontà e il desiderio di confrontarci, ma
il passaggio elettorale che ci avrebbe atteso in queste ore era un passaggio elettorale nel quale, stante la legge
elettorale uscita dalla sentenza della Corte costituzionale, si sarebbe riprodotto uno schema che è quello che
avrebbe portato ad un sostanziale Governo di larghe intese.
Non vi è chi non veda che non sarebbe stato possibile per alcuno ottenere la maggioranza necessaria a governare nei
due rami del Parlamento senza una modifica delle regole del gioco, e noi abbiamo proposto, dal primo giorno, che le
regole del gioco fossero scritte da tutti, anche da chi prima ha alzato la voce. Pensiamo infatti, pensavamo e
penseremo che sia un valore condiviso che dopo vent’anni in cui, prima la sinistra, poi la destra, prima il
centrosinistra e poi il centrodestra, quando si è trattato di scrivere le regole costituzionali hanno proceduto a
maggioranza – il centrosinistra nel 2001, il centrodestra nel 2006 – con la legge elettorale connessa, che scrivere
le regole del gioco insieme sia il valore fondamentale e costitutivo del rispetto delle istituzioni.
Proveremo a farlo, ma in una legislatura alla quale abbiamo allungato l’orizzonte politico (certo, non quello
costituzionale e istituzionale, che è fissato, come è naturale, nel 2018). Arrivare però al 2018 ha un senso
soltanto se avvertiamo l’urgenza da cui sono partito nel mio intervento, che è l’urgenza di un cambiamento radicale
per cui, mentre i tempi della politica sembrano dilatati, le persone che la mattina accompagnano i figli a scuola
non possono permettersi rinvii. Mentre la politica – lasciatevelo dire da un sindaco – da Roma sembra una politica
nella quale la dilazione è costante; una politica nella quale si può anche rinviare al giorno dopo, si può
allungare senza fine il tempo della decisione, si può rimandare l’urgenza dei provvedimenti; mentre fuori da qui
questo sembra naturale, quando poi si va nella vita di tutti i giorni, quando si va a parlare con le persone che
faticano anche semplicemente a conciliare i propri orari, anche semplicemente a conciliare la propria quotidianità
di vita, il senso dell’urgenza, del tempo che non può passare invano, diventa un elemento centrale.
Ecco perché noi proponiamo a questo Senato di uscire dal genere letterario che i talk show hanno sostanzialmente
sdoganato, un genere letterario per il quale non vi è trasmissione che non parta da un giudizio impietoso sulla
situazione italiana con poi un servizio di una troupe all’estero che racconta come all’estero invece le cose vanno
perfettamente bene e tutto sia straordinariamente bello e felice. Ormai è diventato un topos letterario; ormai noi
abbiamo come punto di riferimento il fatto che nelle trasmissioni televisive, nei talk show, fuori da qui, fuori
dall’Italia, tutto va bene e da noi tutto va male: non è così. Usciamo dal coro della lamentazione; proviamo a
immaginare un percorso concreto in cui la differenza tra sogno e obiettivo – ha detto qualcuno – è una data.
Diamoci delle scadenze e proviamo ad allungare il lavoro di questi anni dando concretamente dei passaggi puntuali.
Questo consente di arrivare al 1° luglio avendo fatto – qualcuno dice – i compiti a casa; questo consente di
arrivare, cioè, all’appuntamento con il semestre europeo dando un valore non meramente formale a
quell’appuntamento, ma dandogli un valore sostanziale.
Non tedierò la vostra pazienza con un’analisi, che pure sarebbe doverosa (ma non mancheranno altre occasioni),
sulla situazione di profondo sconvolgimento istituzionale internazionale.
MARTON (M5S). Bravo!
RENZI, presidente del Consiglio dei ministri. Su come il mondo fuori dall’Italia stia cambiando e come
paradossalmente questo mondo riduca lo spazio dell’Europa, riduca il margine di potere che l’Europa ha. Non vi
tedierò su questo, ma penso di avere il dovere di dire al Senato della Repubblica che se vogliamo immaginare che il
semestre europeo sia una cosa seria noi dobbiamo raccontare, spiegare, pensare che tipo di Europa immaginiamo nella
cornice internazionale che sta mutando. Non possiamo immaginare che il semestre europeo sia semplicemente
l’occasione per fare le nomine per le nuove istituzioni. (Commenti dal Gruppo M5S). Abbiamo bisogno di raccontare
che cosa significhi l’Europa nel mondo che cambia.
DIVINA (LN-Aut). Ce lo vuole raccontare?
RENZI, presidente del Consiglio dei ministri. Questo è il punto centrale del semestre europeo, e non saremo
credibili se non riusciremo ad arrivare al semestre europeo avendo sistemato ciò che dobbiamo sistemare noi.
Capisco che in quest’Aula, come alla Camera, come nell’opinione pubblica, ci sia la facile tendenza a considerare
l’Europa la madre dei nostri problemi. Vorrei dire non soltanto che per me e per il Governo che ho l’onore di
presiedere non è così, ma che nella tradizione europea-europeista sta la parte migliore dell’Italia (Applausi dai
Gruppi PD e PI), che nella tradizione europea-europeista, nei valori di libertà e democrazia sta la certezza che
l’Italia ha un futuro e non soltanto un passato. E quando penso a quell’uomo che in un’isoletta immaginava gli
Stati Uniti d’Europa mentre infuriava il conflitto (Applausi dai Gruppi PD e PI), quando penso a quell’uomo che, in
un momento di difficoltà per il nostro Continente e di confronto fratricida, riusciva a intuire, a immaginare, in
qualche modo a profetizzare in modo laico una visione degli Stati Uniti d’Europa, mi sento orgoglioso di essere
appartenente alla storia italiana.
Il punto è che mettere a posto le cose di casa nostra non deriva da un obbligo europeo: non è la signora Merkel o
il governatore Draghi a chiedere di essere seri con il nostro debito pubblico: è il rispetto che dobbiamo ai nostri
figli, alle generazioni che verranno (Applausi dai Gruppi PD, PI e NCD), è il rispetto che dobbiamo alle persone
che verranno dopo di noi che ci impone di guardare ai conti pubblici in modo diverso da come è stato fatto da chi
ha scialacquato nel corso degli ultimi decenni.
Questo è il punto centrale, e se noi siamo in condizione di arrivare al 1° luglio avendo affrontato i temi
costituzionali, istituzionali, elettorali, di lavoro, di fisco, di pubblico impiego, di giustizia e impostato un
diverso atteggiamento verso la scuola, propongo a questo Senato e alla Camera dei deputati di essere in grado di
vivere il semestre europeo come l’occasione in cui guidare le istituzioni dell’Europa per sei mesi, ma studiando
una proposta affinché nei prossimi vent’anni potremo guidare l’Europa politicamente, in un percorso che riguarda i
nostri figli e che è uno dei punti centrali della credibilità delle istituzioni.
Se questo è vero, ho il dovere di entrare nel merito delle modalità con cui questo atteggiamento deve diventare
realtà. Ho anche il dovere di dirvi che la subalternità culturale con la quale, troppo spesso, si è considerata
l’Europa come la nostra matrigna è una subalternità culturale della quale possiamo liberarci solo noi. Non possiamo
immaginare che qualcun altro risolva i nostri problemi. Noi viviamo in un momento in cui, di fronte a una
«generazione Erasmus», che tra l’altro è rappresentata al Governo, che ha conosciuto il sogno degli Stati Uniti
d’Europa come concretezza, che ha conosciuto l’euro come unica moneta o quasi, noi avvertiamo il bisogno di
indicare una prospettiva di futuro, non di vivere di rimpianti e di ricostruzioni fasulle del passato.
Propongo a questo Senato di essere la legislatura della svolta. Avrei preferito che questo passaggio fosse stato
preceduto da un chiaro mandato elettorale.
MARTON (M5S). Bravo!
RENZI, presidente del Consiglio dei ministri. Sappiamo come sono andate le elezioni. Oggi proponiamo di essere
nelle condizioni di valutare una scelta politica. Non vi sorprenderà il fatto che in questo Governo sono
rappresentati i segretari dei maggiori partiti, perché questo è un Governo politico e noi pensiamo che la parola
«politica» non sia una parolaccia. (Applausi dal Gruppo PD). Noi pensiamo di poter andare nelle piazze a dire che
la politica che noi abbiamo in testa è reale, vera e precisa. Noi pensiamo che non ci sia politica alcuna che non
parta dalla centralità della scuola. (Commenti dal Gruppo M5S).
Mi piacerebbe che chi ha la presunzione di avere la verità in tasca avesse la possibilità di confrontarsi con le
insegnanti delle scuole e le famiglie nella loro vita di tutti i giorni, perché l’idea che da questa parte ci sia
la casta e dall’altra ci siano i cittadini si è un po’ rovesciata. Lo dico a una parte di questo Parlamento.
(Commenti dal Gruppo M5S). Chi di noi tutti i giorni ha incontrato cittadini, insegnanti, educatori e mamme sa
perfettamente che c’è una bellissima e straordinaria richiesta che è duplice. Da un lato si chiede di restituire
valore sociale all’insegnante, e questo non ha bisogno di alcuna riforma, ma di un cambio di forma mentis.
MUSSINI (M5S). Ha bisogno di soldi!
RENZI, presidente del Consiglio dei ministri. Non ha bisogno di denaro, riforme, commissioni di studio: c’è bisogno
del rispetto che si deve a chi quotidianamente va nelle nostre classi e assume su di sé il compito struggente e
devastante di essere collaboratore della creazione di una libertà: collaboratore della famiglia e delle agenzie
educative. È straordinario il compito di un insegnante. Ci avete mai parlato con gli insegnanti e ascoltato quello
che dicono oggi? (Commenti dal Gruppo M5S).
PRESIDENTE. Ci sarà modo di esprimere il proprio dissenso durante la discussione. Lasciate parlare.
RENZI, presidente del Consiglio dei ministri. Spero che il Presidente del Senato mi consenta di formulare questo
invito ai senatori del mio partito: ricordiamoci sempre che svolgiamo una funzione sociale, tesa a recuperare le
difficoltà che stanno incontrando in questo momento i senatori e le senatrici del Gruppo del Movimento 5 Stelle nei
confronti della propria base e dell’opinione pubblica che li sostiene. (Applausi dal Gruppo PD e dei senatori Susta
e Merloni). Non è facile stare in un partito in cui c’è un capo che dice: «Io non sono democratico». Quindi,
vogliamogli bene anche se loro non ne vogliono a noi. (Applausi dal Gruppo PD. Commenti dal Gruppo M5S). Io non ho
fretta. Vado avanti.
LEZZI (M5S). Paura, Renzi? Ha paura? (Applausi dal Gruppo M5S).
PRESIDENTE. Per favore, senatori.
RENZI, presidente del Consiglio dei ministri. Parlavo degli insegnanti. (Commenti della senatrice Lezzi). Qual è la
priorità che questo Paese ha nei confronti degli insegnanti? Sicuramente lo sa il Ministro dell’istruzione e
dell’università: coinvolgere dal basso in ogni processo di riforma gli operatori della scuola. Non c’è dubbio. Ma
c’è una priorità a monte: recuperare quella fiducia, quella credibilità, recuperare quella dimensione per cui se
qui si fanno le cose, allora nelle scuole si può tornare a credere che l’educazione sia davvero il motore dello
sviluppo. Ci sono fior di studi di economisti che dimostrano come un territorio che investe in capitale umano, in
educazione, in istruzione pubblica è un territorio più forte rispetto agli altri.
Da Presidente del Consiglio io entrerò nelle scuole, una volta ottenuta – se così sarà – la fiducia dal Senato e
dalla Camera. Mercoledì mattina, come faccio tutte le settimane, mi recherò in una scuola (la prima sarà un
istituto di Treviso, perché ho scelto di partire dal Nord-Est, mentre la settimana prossima andrò in una scuola del
Sud), e lo farò perché penso che sia fondamentale che il Governo non stia soltanto a Roma, e quindi mi recherò
nelle scuole, come facevo da sindaco, per dare un segnale simbolico, se volete persino banale, per dimostrare che
da lì riparte un Paese. Dalla capacità di educare, di tirare via, di tirare fuori (nel senso latino del termine)
nasce la credibilità di un Paese, ma per farlo c’è bisogno della capacità di garantire una concretezza
amministrativa.
Con quale credibilità possiamo dire questo se continuiamo a tenere gli investimenti nell’edilizia scolastica
bloccati da un Patto di stabilità interno che almeno su questa parte va cambiato subito? Come si può pensare che il
Comune, la Provincia abbiano competenza sull’edilizia scolastica senza però avere la possibilità di spendere soldi
che sono lì bloccati perché esistono norme che si preoccupano della stabilità burocratica ma non si rendono conto
della stabilità delle aule in cui vanno a studiare i nostri figli? (Applausi dai Gruppi PD, Aut (SVP, UV, PATT,
UPT)-PSI-MAIE, PI e SCpI). Come è possibile che non ci sia chiarezza su questo aspetto?
Domani scriverò una lettera ai miei colleghi sindaci, oltre 8.000, per chiedere a tutti loro e ai Presidenti delle
Province sopravvissuti (Commenti dal Gruppo LN-Aut) di fare il punto della situazione sull’edilizia scolastica,
seguendo un bellissimo ragionamento del senatore Renzo Piano. Non so chi di voi ha avuto modo di conoscere le
parole, a mio giudizio straordinarie, che Renzo Piano ha pronunciato pochi giorni fa in un’intervista. Piano ha
invitato a rammendare i nostri territori, a rammendare le periferie. Credo sia un’espressione molto bella, che dà
il senso di ciò di cui abbiamo bisogno. Noi abbiamo bisogno di intervenire nell’edilizia scolastica dal 15 giugno
al 15 settembre, con un programma straordinario – dell’ordine di qualche miliardo di euro, e non di qualche decina
di milioni – da attuare sui singoli territori, partendo dalle richieste dei sindaci e intervenendo in modo concreto
e puntuale. Ma come? Di fronte alla crisi economica parti dalle scuole? Sì: di fronte alla crisi economica non puoi
non partire dalle scuole. Di fronte alla crisi economica partire dalle scuole significa partire, innanzitutto, da
una tregua educativa con le famiglie e da un intervento nell’edilizia e nella infrastrutturazione scolastica su
cui, nelle prossime settimane, vedrete concreti risultati.
È chiaro che il tema della scuola è parziale rispetto al grande tema dell’educazione. Si inizia con gli asili nido.
Gli Obiettivi di Lisbona vedono oggi un Paese drammaticamente diviso in due, tra una parte dell’Italia che ha già
raggiunto quegli obiettivi (con alcune città che stanno sopra il 40 per cento) e una parte dell’Italia che veleggia
su percentuali drammatiche. Alcune non arrivano neanche a doppia cifra: mi riferisco al numero dei bambini che
frequentano gli asili nido.
Non è un tema da addetti ai lavori. È il tema vero nella vita di tutti i giorni. (Applausi dal Gruppo PD). È il
tema che si collega non necessariamente, ma parzialmente, al fatto che abbiamo la condizione di disoccupazione
femminile più alta d’Europa. Ed è inaccettabile in una cornice come quella in cui stiamo vivendo. (Applausi dai
Gruppi PD, SCpI, PI e Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE)). È un tema che si collega al fatto che un bambino che non
frequenta l’asilo nido ha un’occasione in meno rispetto a un suo coetaneo di un altro Paese.
Però, non vorrei che questo facesse venir meno un giudizio sulle priorità che riguardano la condizione economica.
Metto a verbale che la scuola è il punto di partenza, e intervengo sulle quattro riforme che vi proponiamo, che vi
proporremo nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, e la cui urgenza è l’elemento che detta la scansione
temporale dei prossimi mesi e dei prossimi anni, e anche il cambio che noi abbiamo fatto all’interno del Governo.
Cambio che non può in alcun modo oscurare i risultati che ha ottenuto il Governo precedente. E fatemi rivolgere un
pensiero particolare al Presidente del Consiglio uscente, l’onorevole Enrico Letta. (Applausi dai Gruppi PD, PI,
SCpI, NCD e Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE).
Viviamo una situazione in cui… (Commenti dal Gruppo M5S). Dicevano che al Senato non vi divertivate: invece, vi
vedo sereni. Vi garantisco che vi divertirete sempre di più!
Dal 2008 al 2013, mentre qualcuno si divertiva, il PIL di questo Paese ha perso 9 punti percentuali. La
disoccupazione giovanile è passata dal 21,3 al 41,6 per cento.
VOCI DAL GRUPPO M5S. Lo sappiamo!
RENZI, presidente del Consiglio dei ministri. La disoccupazione è passata dal 6,7 per cento al 12,6 per cento, in
base all’ultimo dato. Non sono i numeri di una crisi: sono i numeri di un tracollo… (Commenti dal Gruppo M5S).
VOCI DAL GRUPPO PD. Presidente, ora basta!
PRESIDENTE. Non ammetto commenti ora. Ci sarà tempo, durante la discussione e le dichiarazioni di voto.
RENZI, presidente del Consiglio dei ministri. Non si tratta di rispondere semplicemente con dei numeri a numeri. La
crisi ha il volto di donne e di uomini, e non di slide.
Chi ha avuto modo di conoscere le dinamiche delle crisi aziendali, chi ha stretto la mano al cassintegrato, chi è
entrato, perché faceva il sindaco, in una fabbrica o chi ha visto, da deputato o da senatore, e ha ricevuto
delegazioni di lavoratrici e di lavoratori sa perfettamente che la crisi non è un numerino.
Però questo numero è impietoso. Però questo numero è devastante. Però questo numero impone un cambio radicale delle
politiche economiche.
Il cambio radicale delle politiche economiche passa innanzitutto da alcuni provvedimenti concreti che, con il
ministro Padoan, abbiamo discusso e che approfondiremo nel corso delle prossime settimane.
Il primo elemento su cui prendiamo un impegno è lo sblocco totale – non parziale: ripeto, totale – dei debiti della
pubblica amministrazione attraverso un diverso utilizzo della Cassa depositi e prestiti. (Applausi dai Gruppi PD e
Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE).
Il secondo elemento che mettiamo immediatamente all’ordine del giorno è la costituzione e il sostegno di fondi di
garanzia, anche attraverso un utilizzo, ancora, della Cassa depositi e prestiti, ma non soltanto, per risolvere
l’unica reale, importante e fondamentale questione che abbiamo sul tappeto, che è quella delle piccole e medie
imprese che non riescono ad accedere al credito. (Applausi dal Gruppo PD).
Il terzo punto che poniamo immediatamente alla vostra attenzione – lo faremo nelle prossime settimane – è una
riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale, attraverso misure serie e irreversibili, legate alla revisione della
spesa, ma non soltanto, che porterà nel corso dei primi mesi del primo semestre del 2014 a vedere dei risultati
immediati e concreti.
Su questi tre impegni siamo nelle condizioni non di offrire parole, ma interventi precisi e puntuali. Basta? No!
Non basta (sono il primo a dirlo), e non perché la parte delle regole e della normativa non sia una parte
importante. Nessun decreto crea, attraverso le regole, posti di lavoro: al massimo può accadere che faccia
allontanare dei posti di lavoro (ma questa è un’altra storia).
Noi partiremo, entro il mese di marzo, con la discussione parlamentare del cosiddetto Piano per il lavoro, che,
modificando uno strumento universale a sostegno di chi perde il posto di lavoro, interverrà attraverso nuove regole
normative, anche profondamente innovative. Infatti, se non riusciamo a creare nuove assunzioni, il problema delle
garanzie dei nuovi assunti neanche si pone.
Immaginiamo però di intervenire in modo strutturale nella capacità di attrarre investimenti in questo Paese,
investimenti che negli ultimi anni, purtroppo, in virtù della crisi, sono profondamente diminuiti, arrivando ai 12
miliardi dello scorso anno.
C’è un dibattito surreale intorno a questo tema. Sembra che l’interesse nazionale impedisca l’attrazione degli
investimenti. Sembra che, quando un soggetto vuole investire in Italia, questo debba essere cacciato al grido di
«guai allo straniero!». Un Paese vivo, ricco, aperto e curioso non ha paura di attrarre investimenti: li va a
cercare e fa di tutto per agevolare l’investimento da parte di soggetti che vengono dall’esterno. Da sindaco potrei
parlarvi della madre di tutte le privatizzazioni: la privatizzazione del Nuovo Pignone, che negli anni Novanta ha
visto un incredibile aumento delle performance da parte del suo acquirente (gli americani di GE) e che oggi vede
moltiplicati per 7 i posti di lavoro.
L’interesse nazionale non è il lancio di agenzia del deputato o senatore in cerca di visibilità: l’interesse
nazionale è il posto di lavoro che si crea, è una famiglia che riesce a uscire dalla situazione di disoccupazione.
L’interesse nazionale che ha questo Paese è quello di migliorare la sua attuale posizione nella classifica
internazionale: siamo al penultimo posto nella classifica OCSE – correggetemi se sbaglio – per la capacità di
attrazione, mentre siamo al 126° posto nel «Doing business index» della World Bank. Questo ci porta ad essere
percepiti all’esterno solo come un Paese meraviglioso in cui andare in vacanza. Ma c’è un Paese potenzialmente più
attrattivo del nostro? C’è un Paese che può coniugare la qualità del vivere bene con la capacità di tenere in piedi
la genialità, l’intuizione, l’innovazione da parte delle lavoratrici e dei lavoratori?
Vi sembra possibile che, mentre nel mondo le startup e le grandi aziende innovative, dagli Stati Uniti a Israele,
vivono, crescono (in alcuni casi anche muoiono, perché questo è il destino delle startup), in una dimensione
straordinariamente innovativa, noi siamo invece fermi ad un principio per il quale, tra conferenze dei servizi,
soprintendenze e freni burocratici, prima di riuscire a portare a casa un risultato concreto, come quello
dell’apertura di un capannone, viviamo dei tempi che sono biblici?
Ma non sentite quanto stride, nella concretezza di tutti i giorni, l’urgenza da cui siamo partiti a fronte invece
delle difficoltà che la macchina pubblica mette nei paletti a chi vuole venire a investire? Occorre un Paese
semplice e coraggioso sul lavoro, un Paese che non abbia paura – lo sottolineo – ad affrontare in modo diverso il
rapporto con la pubblica amministrazione.
Mi permetterete di dire – e so che potrà sembrare persino provocatorio – che vi sono settori dello Stato che vivono
le peripezie della politica con apparente rispetto, ma con un sostanziale retropensiero: i Governi passano, i
dirigenti restano. Talvolta mi è venuto di pensare che sarebbe meglio il contrario, ma in realtà non è così,
sarebbe una forma eccessiva. Credo però che sia civile un Paese che afferma la contestualità tra l’espressione
popolare del Governo del Paese e la struttura dirigente della macchina pubblica. (Applausi dai Gruppi PD, NCD, PI e
SCpI e del senatore Fazzone). In altri termini, credo sia arrivato il momento di dire con forza che una politica
forte è quella che affida dei tempi certi anche al ruolo dei dirigenti e che non può esistere, fermi e salvi i
diritti acquisiti, la possibilità di un dirigente che rimane a tempo indeterminato e che fa il bello e il cattivo
tempo.
Noi non siamo per sottrarre responsabilità ai dirigenti: siamo per dargliele tutte; noi vorremmo che la parola
accountability trovasse una traduzione in italiano, perché vi sono le responsabilità erariali, quelle penali e
quelle civili, però non ce n’è una da mancato raggiungimento degli obiettivi, se non a livello teorico: questa,
però, è una sfida di buonsenso, che nell’arco di quattro anni può essere vinta e affrontata se partiamo subito e se
abbiamo anche il coraggio – lasciatemelo dire – di far emergere in modo netto, chiaro ed evidente che ogni
centesimo speso dalla pubblica amministrazione debba essere visibile on line da parte di tutti. (Applausi dal
Gruppo PD e dei senatori Di Biagio e Ichino). Questo significa non semplicemente il Freedom of Information Act, ma
una rivoluzione nel rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione tale per cui il cittadino può verificare
giorno dopo giorno ogni gesto che fa il proprio rappresentante.
Non è soltanto questo, ovviamente, il processo di riforma della pubblica amministrazione che presenteremo prima
delle elezioni. Sempre prima delle elezioni vogliamo anche a tutti i costi intervenire sul fisco, attraverso
l’utilizzo della delega fiscale che il Parlamento ha affidato, che riteniamo debba caratterizzarsi per alcune
caratteristiche chiaramente visibili da parte dei cittadini. Riuscire ad inviare a tutti i dipendenti pubblici e ai
pensionati direttamente a casa, magari attraverso uno strumento di tecnologia semplice – visto che il Papa ha detto
che Internet è un dono di Dio, possiamo smettere di considerarlo come il nostro ostacolo o come un problema – la
dichiarazione dei redditi precompilata: è una proposta concreta e puntuale che nel corso delle consultazioni
abbiamo ricevuto e recepito, che può immediatamente mostrare come cambia il rapporto tra cittadino e pubblica
amministrazione.
Se il fisco smette di essere il nemico e di essere ostile, se smette di essere un fisco che fa paura e diventa uno
spauracchio, ma fa una sorta di consulenza al cittadino – salvo poi quando accade che qualcuno davvero commette
reati o comunque è passibile di sanzioni amministrative, perché allora la repressione deve essere durissima – esso
assumerà connotati diversi, tali da far uscire i cittadini dal pregiudizio per il quale sembra sempre che chi è
famoso e potente comunque la sfanga, mentre chi ha a che fare con una cartella esattoriale – un milione di errori
formali: tanti ve ne sono – vive il rapporto con la pubblica amministrazione come un’angoscia.
E questo non può che condurci naturalmente verso il quarto e ultimo punto che voglio affrontare: quello relativo
alla giustizia.
Abbiamo vissuto vent’anni di scontro ideologico su questo tema. Può piacere o meno. Non credo che alcuno, dopo
vent’anni, convincerà l’altra parte della bontà delle proprie opinioni. Dopo vent’anni, credo che le posizioni
siano calcificate, siano intangibili, che nessuno possa convincere l’altro che si è compiuto un errore, o che si è
fatto bene.
Credo sia arrivato il momento di mettere, nel mese di giugno (sarà compito del Ministro competente), all’attenzione
di questo Parlamento un pacchetto organico di revisione della giustizia che non lasci fuori niente.
Parto dalla giustizia amministrativa. Siamo un Paese in cui – lasciatevelo dire da chi costantemente ci batte la
testa – lavorano più, negli appalti pubblici, gli avvocati che i muratori.(Applausi dai Gruppi PD e Aut (SVP, UV,
PATT, UPT)-PSI-MAIE e dei senatori Carraro, Dalla Zuanna e Di Biagio). Negli appalti pubblici non c’è alternativa
al ricorso sul controricorso con la sospensiva. Siamo al punto che i tribunali amministrativi regionali possono
discettare di tutto. Siamo al punto che un provvedimento di un sindaco (in alcuni casi, anche del Parlamento) è
comunque costantemente rimesso in discussione in una corsa ad ostacoli impressionante. Ma come possiamo dare
certezza del diritto se noi per primi abbiamo un sistema (sono partito da quello amministrativo) che crea
inquietudine non già soltanto agli investitori stranieri, ma agli stessi operatori del diritto, a partire dai
giudici amministrativi, che in più circostanze hanno sottolineato la necessità di riforme strutturali?
La giustizia civile. Oggi noi viviamo un tempo nel quale la lunghezza del processo civile, le difficoltà di questo
sono tali per cui non soltanto se ne vanno gli investimenti (ed è un problema), ma se ne va anche la possibilità di
credere realmente che il Paese sia redimibile, che il Paese sia recuperabile.
C’è questa stanca rassegnazione per cui si parte dal presupposto che tanto quando si entra in un’aula di tribunale
non si sa come se ne esce. Questo vale anche per la giustizia penale, con ciò che comporta. Non c’è ombra di dubbio
che a fronte della straordinaria qualità di tantissime donne e uomini che lavorano nel campo della giustizia (a
partire dai giudici, per passare agli avvocati, agli operatori della giustizia e di polizia giudiziaria), esiste
una preoccupazione costante nell’opinione pubblica (a prescindere dalle discussioni che sono state oggetto per 20
anni di dibattito politico) sul fatto che la giustizia in Italia corre il rischio di arrivare troppo tardi e anche
– permettetemi – di colpire in modo diverso.
Faccio un esempio, il più banale, ma volutamente banale, agli occhi dell’opinione pubblica, e volutamente
drammatico nel cuore di un amministratore che fa politica.
Non so se chi di voi si è occupato di amministrazione pubblica nelle realtà territoriali sa qual è il momento più
duro per un sindaco. Per me era quando l’SMS del comandante della Polizia municipale mi informava che c’era stato
un incidente stradale. Quando si verifica un incidente stradale e muore un ragazzo di 17 anni il sindaco non ha
semplicemente un compito amministrativo. Il sindaco si trova faccia a faccia con il dolore di una famiglia che vede
totalmente sconvolta la propria vita. Mi è accaduto, lo sanno le senatrici e i senatori fiorentini, ed è accaduto a
tanti di voi.
Dalla storia di una di queste famiglie, da un percorso che abbiamo fatto insieme è emerso con chiarezza che a chi
ubriaco e drogato si mette alla guida di un motorino causando il decesso di un ragazzo di 17 anni (il ragazzo in
questione si chiamava Lorenzo) alla fine in tribunale, per i motivi più vari, viene comminata una sanzione
inferiore, o sostanzialmente analoga, a quella comminata per un furto di serie B. Vi rendete conto cosa possa
diventare incontrare nel giorno del diciottesimo compleanno di Lorenzo i suoi amici che festeggiano il suo
compleanno senza di lui ricordandolo? Vi rendete conto di cosa possa significare andare a dire che io rappresento
le istituzioni? E vi rendete conto che sguardo vi gettano addosso quelle ragazze e quei ragazzi, accusando la
politica di non essere capace di dare delle regole chiare, delle regole che non valgono semplicemente un dibattito
politico, ma che valgono la vita di un ragazzo come loro? Questa è la vita reale che vorremmo informasse di più la
discussione sulla giustizia: non, semplicemente, i nostri derby ideologici, ma la necessità di fare della giustizia
un asset reale per lo sviluppo del Paese.
Se arrivano queste iniziative e questi provvedimenti, io credo che noi saremo nelle condizioni di affrontare con
maggiore decisione il passaggio del semestre europeo, ovviamente inserendole nel contesto della riforma
costituzionale ed elettorale.
Sono partito dalla provocazione, che provocazione non è: il superamento del Senato. Oggi il procedimento
legislativo è farraginoso: lo sapete meglio voi di me. Oggi il numero dei parlamentari è eccessivo rispetto ai
Paesi europei e al benchmark internazionale di riferimento: lo sapete meglio voi di me. Oggi c’è la possibilità di
superare l’attuale conformazione del Senato, mantenendo fermi il no al voto di fiducia e il no al voto di bilancio
e la possibilità di svolgere la funzione senatoriale non come incarico figlio di un’elezione diretta e con
un’indennità ma, come nel modello tedesco, attraverso l’assunzione di responsabilità dai territori, impreziosito
eventualmente – ci sono proposte in questo senso – da ulteriori figure espressioni del mondo culturale, accademico
e universitario. Questo tipo di proposta è il primo passo per recuperare la nostra credibilità nei confronti dei
cittadini.
Il punto immediatamente successivo è superare il Titolo V della Costituzione per come l’abbiamo conosciuto fino ad
oggi. Il Titolo V oggi ha la necessità di rivedere le competenze esclusive dello Stato e delle Regioni e di
introdurre la possibilità per le Regioni di legiferare in ogni materia che non sia specificamente assegnata, ma
contemporaneamente di introdurre una clausola di intervento della legge statale anche in materie che siano
esclusivamente assegnate alla competenza regionale quando questo sia richiesto da esigenze di unità economica e
giuridica dell’ordinamento.
Noi prendiamo atto che, in questi anni, il ricorso alla Corte costituzionale, non dico che abbia ingolfato la
Corte, perché sarebbe scarsamente rispettoso delle istituzioni, ma ha comunque provocato un eccesso di tensione tra
le Regioni e lo Stato. Se noi oggi diciamo che non possiamo tornare a un centralismo della burocrazia statale, come
ci siamo detti anche in occasione di questo intervento, è anche altrettanto vero che abbiamo bisogno di chiedere
alle donne e agli uomini che guidano le Regioni e che ne fanno parte di prendere atto che è cambiato il clima nei
confronti delle Regioni. È cambiato il clima sicuramente per ciò che è accaduto nel corso di questi anni in ordine
ai rimborsi elettorali, ma è accaduto anche che, troppo spesso, la sovrapposizione di competenze dei Comuni, delle
Province, delle Regioni e dello Stato centrale con la linea europea a dare in qualche misura un ulteriore elemento
di complicazione ha reso sostanzialmente ingovernabile il sistema istituzionale. Noi proponiamo che, fin dal mese
di marzo, la riforma del Senato parta dal Senato e che la riforma del Titolo V parta dalla Camera.
Quanto all’accordo sulla legge elettorale – il cosiddetto Italicum -comprendiamo l’esigenza di valorizzare il fatto
che una legge elettorale che consenta il ballottaggio sia ovviamente impostata sulla presenza di una sola Camera.
Contemporaneamente, sappiamo perfettamente che l’Italicum è pronto per essere discusso alla Camera. E noi, da
questo punto di vista, consideriamo l’Italicum non soltanto una priorità, ma una prima parziale risposta
all’esigenza di evitare che la politica perda ulteriormente la faccia. Mi spiego: con quale credibilità possiamo
dire che è urgente intervenire sulla legge elettorale e poi perdere l’occasione del contingentamento che abbiamo
trovato? Certo, noi affermiamo che politicamente esiste un nesso netto tra l’accordo sulla legge elettorale, la
riforma del Senato e la riforma del Titolo V: sono tre parti della stessa faccia.
Però vorrei dire due cose su questo. Mi rivolgo ai Gruppi delle opposizioni, e in particolar modo alle opposizioni
che hanno accettato di stare nel dibattito sulle riforme costituzionali e che non fanno parte però della
maggioranza di Governo. Noi abbiamo un tema aperto, e ne abbiamo parlato durante le consultazioni con il senatore
Romani, che è quello del superamento delle Province. Il disegno di legge Delrio è oggi nelle condizioni di poter
impedire che il 25 maggio si voti per le Province.
C’è un’opposizione dura anche in quest’Aula, immagino; c’è stata alla Camera, dove si è saldata un’opposizione, per
certi aspetti persino una forma di ostruzionismo, tra Forza Italia e il Movimento 5 Stelle. Noi invitiamo a
riflettere su una possibile soluzione semplice, evidente, alla portata di tutti noi. Nel rispetto delle diverse
posizioni chiudiamo il disegno di legge Delrio e impediamo di votare il 25 maggio per le Province, ma nella
discussione sul Titolo V riapriamo fra di noi la discussione su cosa debbano essere le Province. Mi pare un punto
di equilibrio, e dimostra che noi siamo consapevoli che sul tema delle Province non possiamo perdere il passaggio
che è aperto davanti a noi. Volete davvero rivotare il 25 maggio per 46 istituzioni provinciali? Chi si assume la
responsabilità di dire che questo non è un costo e, soprattutto, non è una perdita di opportunità? Vogliamo tornare
all’ennesimo TAR che interviene giudicando illegittima l’una o l’altra misura? Esiste lo spazio per chiudere questo
passaggio in modo rapido.
Il secondo punto sulle riforme è il seguente. Noi vogliamo sfidare il Parlamento, non consideriamo il Parlamento un
inutile orpello. Noi siamo pronti a recuperare, nell’ambito di una cornice condivisa, tutti i miglioramenti
possibili. Noi non abbiamo l’idea di venire a dettare la linea e di aspettare che rapidamente venga eseguita nelle
Aule parlamentari. Ma stiamo scherzando? Però, vi chiediamo di farvi carico, insieme a noi, del fatto che i tempi
non sono più una variabile indipendente; e che se non iniziamo dalle riforme istituzionali e costituzionali per poi
intervenire col pacchetto di riforme che vi ho esposto nel corso dell’intervento, noi perdiamo la possibilità di
essere considerati credibili, non tanto dai nostri partner europei, ma anche e soprattutto dai nostri concittadini.
Vado alla conclusione. Esistono numerosi provvedimenti, di cui abbiamo discusso in fase di consultazione, che non
sono rientrati nell’ambito di questa relazione programmatica, per scelta. Mi piacerebbe raccontarvi quanto
intendiamo investire sulla cultura come elemento identitario. So che c’è una parte tra voi, egregi senatori,
gentili senatrici, che ritiene che la parola «identità» sia in qualche misura il baluardo contro la parola
«integrazione». Non è così. Io credo che l’identità sia la base per l’integrazione. Il contrario di integrazione
non è identità: è disintegrazione.
Un Paese che non si integra non ha futuro. Ecco perché, a fronte di un dibattito culturale che ha visto i diritti
divenire oggetto di scontro (al punto che ciascuno di noi ha portato la propria bandierina in tutte le campagne
elettorali sul tema dei diritti, a destra come a sinistra, ma poi non si è mai fatto niente), noi immaginiamo, con
questo Governo e con il vostro aiuto, di trovare dei punti di sintesi reali, che permettano a quella bambina che ha
dodici anni, che frequenta la quinta elementare… (Commenti dal Gruppo M5S. Richiami del Presidente).
BIGNAMI (M5S). La seconda media, semmai.
RENZI, presidente del Consiglio dei ministri. … e che è nata nella stessa città in cui è nata la sua compagna di
banco, di avere la possibilità, dopo un ciclo scolastico, di essere considerata italiana, esattamente com’è la sua
compagna di banco. (Applausi dai Gruppi PD, Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE, SCpI e PI).
Ciascuno di noi ha una propria valutazione; se qualcuno di noi pensa che sarebbe giusto che quella bambina fosse
considerata italiana al momento della nascita ma altri tra di noi pensano che occorra almeno un ciclo scolastico,
lo sforzo oggi non è affermare le proprie ragioni contro gli altri, ma trovare il punto di sintesi possibile, così
come sui diritti civili. Oggi una mia amica mi ha scritto: «Se devi approvare una forma di unioni civili che non
sia quella che vogliamo noi, allora non approvarla». No, non è così: sui diritti si fa lo sforzo di ascoltarsi, di
trovare un punto di sintesi. Questo è un cambio di metodo profondo. (Applausi dai Gruppi PD, Aut (SVP, UV, PATT,
UPT)-PSI-MAIE, SCpI e PI).
Sui diritti si fa lo sforzo di trovare un compromesso anche quando questo compromesso non ci soddisfa del tutto. Ci
ascolteremo reciprocamente, ma la credibilità su questo tema sarà il punto di caduta di un’intesa possibile, che
già è stata costruita nel corso di questi giorni. Lo vedremo. Sostenere, però, che l’identità è il contrario
dell’integrazione significa fare a pugni con la realtà, significa prendere a botte il niente.
Vorrei che ci mostrassimo reciprocamente le facce dei nostri ragazzi quando vanno in uno degli eventi che
organizzano gli enti territoriali o a visitare un museo di notte, quando si rendono conto, cioè, che la cultura è
qualcosa con cui si mangia, ossia qualcosa di cui si nutre l’anima. Quando dico che si mangia con la cultura dico
che, allora, bisogna anche avere il coraggio di aprirsi agli investimenti privati nella cultura. (Applausi dai
Gruppi PD, FI-PdL XVII, NCD e Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE). Infatti, se si dice che è sbagliata la frase «con
la cultura non si mangia», bisogna anche avere il coraggio di dire che la cultura deve aprirsi al coinvolgimento
degli investimenti privati e creare posti di lavoro.
Vorrei, però, mostrare a me stesso e a voi le facce e i volti di chi, in questi anni, ha avuto modo, ad esempio, di
vedere un museo di notte, ha avuto modo di farsi interrogare da un’opera d’arte, ha avuto modo di provare ad
ascoltare la bellezza della musica, non soltanto nelle scuole – dove va portata, o riportata, in modo diverso – ma
anche nella quotidianità.
In una qualsiasi realtà del mondo che non sia l’Italia, essere italiani è un dono. In una qualsiasi realtà del
mondo che non siano i nostri Palazzi dei poteri, essere italiani è un elemento di bellezza che non so quanto salvi
il mondo, ma sicuramente salva l’export delle nostre aziende. In un qualsiasi luogo che non sia l’angusta
autoreferenzialità del nostro dibattito, i valori della cultura fanno di noi una superpotenza mondiale.
Se noi non siamo nelle condizioni di comprendere che il mondo piatto nel quale viviamo è un mondo che
paradossalmente ci offre delle opportunità senza fine, che possono unire i distretti tecnologici con i beni
culturali, che possono unire la capacità di investire sulle nuove generazioni con l’esperienza, la saggezza e la
bellezza dei più grandi, se noi non siamo in grado, su questo tema, di essere concretamente operativi, perdiamo un
pezzo del nostro patrimonio culturale ed economico. È un pezzo della risposta alla crisi modificare le regole del
gioco anche in questi settori.
Non ho parlato, ma non lo posso fare adesso, di come nel Piano per il lavoro che presenteremo a marzo ci sarà una
sorta di piano industriale per i singoli settori, inteso non semplicemente come il sussidio o l’intervento su ogni
singolo settore, ma come il bisogno di andare a inventarsi nuovi posti di lavoro: sulle energie alternative, sulla
chimica verde, sull’innovazione tecnologica applicata alla ricerca, sugli investimenti veri e profondi che si
possono fare contro il dissesto idrogeologico in un Paese in cui abbiamo soldi bloccati e fermi – anche per
responsabilità delle pubbliche amministrazioni – che gridano vendetta, non soltanto per ciò che stanno vivendo in
queste ore il modenese o l’area di Olbia, ma anche per come in questi anni abbiamo dovuto vivere con il fiatone
certe emergenze che potevano essere affrontate in modo molto più semplice.
Ma davvero abbiamo ancora soldi fermi sulle casse di laminazione ed espansione, quando il mondo che sta cambiando
rende così semplice intervenire in questa situazione? Ma davvero in alcune realtà del Paese ancora non sappiamo chi
ha il potere di intervento sugli argini, per l’eccesso di funzioni tra le Regioni, le Province, i Comuni, le
autorità d’ambito? Davvero pensiamo che questi siano temi di serie B, di cui non parlare perché dobbiamo
confrontarci soltanto parlando tra di noi delle nostre realtà quotidiane? Come facciamo a non prendere atto che
anche su questo tema c’è bisogno di una svolta reale?
Potrei continuare a lungo, ma non lo farò. Mi limito a chiudere con l’espressione di un sentimento personale. Ieri,
arrivato a Palazzo Chigi, ho scelto di fare alcune telefonate simboliche, ma non solo simboliche. Ho chiamato due
nostri concittadini italiani che sono da troppo tempo bloccati a Nuova Delhi per una vicenda assolutamente
allucinante, per la quale garantisco l’impegno personale mio e del Governo. (Applausi).
Ho chiamato una ragazza della mia età: si chiama Lucia, è di Pesaro. (Applausi dal Gruppo PD e dei senatori Buemi,
Casini e Susta). In questi giorni sta combattendo in un processo perché è stata sfregiata in volto dal suo ex
fidanzato, ed è una delle persone a cui ho voluto far sentire la vicinanza di questo Paese. (Applausi).
Ho chiamato – so che non vi interessa, ma a me sì – un mio amico che ha perso il posto di lavoro. (Commenti dai
Gruppi M5S e LN-Aut). Credo che capire cosa significa incrociare lo sguardo di un papà (per non dire un babbo) che
ha perso il posto di lavoro e rendersi conto che il tuo compito non è quello di star qui ad urlare ma è cercare di
dare delle risposte concrete per cambiare le regole del gioco segni la differenza tra la sua propaganda, senatore,
e la nostra politica. (Applausi dai Gruppi PD, Aut, PI e SCpI e dei senatori Cassano, Fazzone e Liuzzi).
Tuttavia, ho scelto anche e soprattutto di pensare a cosa significhi per un ragazzo che oggi ha più o meno la mia
età il fatto che il Governo scelga di dire che questo è il momento della svolta radicale. Mi sono cioè messo in
testa di pensare a cosa possa significare per ciascuno di noi il fatto che non soltanto noi oggi viviamo un momento
di cambio del Governo, ma cosa questo cambio del Governo significhi nella vita delle persone. Una signora,
scherzando fino ad un certo punto (forse voleva farmi un complimento), ieri uscendo dalla messa mi ha detto:
«Certo, se fai il Presidente del Consiglio tu, lo può fare veramente chiunque». Lei probabilmente voleva essere
carina: non le è venuto granché bene, o forse è la verità. Però ho pensato che questo è proprio vero, fino in
fondo.
Io arrivo a questa responsabilità provenendo da un’esperienza politica innovativa, forte ed autorevole quale quella
del Partito Democratico, nella quale si è data la possibilità a una generazione di sfidarsi, si è data la
possibilità di provarci. Al mio partito va la mia gratitudine, come naturalmente agli altri partiti che compongono
la coalizione, come è doveroso che sia; tuttavia una gratitudine particolare va al mio partito, che in un certo
momento ha consentito di dire: se avete idee giocatevela; se avete sogni, provate a mettervi in gioco.
Oggi noi siamo pieni di persone, di momenti, di vita, in cui è esattamente l’opposto, in cui ci dicono: «No, non si
può fare, non si riesce a raggiungere il risultato»; in cui ci dicono praticamente tutti, sempre e comunque, che
c’è un blocco, che l’Italia non esce dalla crisi, che il mutuo in banca non te lo danno per acquistare casa, che,
mentre fai l’apprendista, non hai neanche la possibilità di avere quei soldi che ti servono per mangiarti una pizza
e bere una birra. A questa generazione cosa diciamo noi oggi qui? Noi oggi qui diciamo che l’Italia vuole diventare
il luogo delle opportunità. Non credo che ci siano pari opportunità nel fatto che ci sia la metà di donne nel
Governo: l’opportunità – permettetemi la battuta – è dispari, non è pari, ce n’è solo una. Noi abbiamo una sola
occasione: è questa. E noi vi diciamo, guardandovi negli occhi, che se dovessimo perdere, non cercheremmo alibi: se
perderemo questa sfida, la colpa sarà soltanto mia. Deve finire infatti il tempo in cui chi va nei Palazzi del
potere, poi, tutte le volte trova una scusa. Non ci sono più alibi per nessuno, per primo per me. (Applausi dai
Gruppi PD, PI, e Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE).
In questo scenario però, lasciatemi concludere sul fatto che questa Italia delle possibilità è un’Italia che oggi
vede un Governo chiedervi la fiducia sulla base di un cambiamento radicale, immediato e puntuale, e che però,
contemporaneamente, offre tutto il meglio di quello che ha. L’idea è che il futuro dell’Italia non sia quello di
essere il fanalino di coda dell’Europa, che il futuro dell’Italia non sia stare a lamentarsi e piangere dalla
mattina alla sera, che il futuro dell’Italia non sia semplicemente raccontarci come le cose vanno male o perché non
ci fanno lavorare. Il futuro dell’Italia sta nelle qualità, nel genio, nell’intelligenza e nella curiosità di
ciascuno di noi. Noi siamo assolutamente certi che, mettendo tutti noi stessi in questa sfida, la possibilità di
cambiare è reale, concreta e immediata, purché ciascuno di noi viva il futuro non come un’incognita e purché
ciascuno di noi sappia che è il tempo del coraggio, e che questo tempo del coraggio non esclude nessuno e non
lascia alibi a nessuno. (Applausi dai Gruppi PD, NCD, Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE, PI e SCpI. I senatori dei
Gruppi PD, PI e SCpI si levano in piedi. Molte congratulazioni).