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IL GIAPPONE SI APRE ALL’IMMIGRAZIONE (21 Dicembre 2018) TOKYO.

Il Giappone, uno dei Paesi più inaccessibili al mondo per gli stranieri, si apre all’immigrazione per far fronte al calo demografico ed alla mancanza di manodopera. Con un provvedimento di grande significato e, sotto molti aspetti storico, il Parlamento giapponese ha approvato in queste settimane un disegno di legge che modifica in modo sostanziale l’immigrazione, con il duplice obiettivo d’incrementare la forza-lavoro disponibile in un Paese in recessione demografica e consentire l’accesso a personale specializzato che sempre più scarseggia nel sistema produttivo e sociale.

Per facilitare il passaggio del ddl, il governo ha anticipato che il provvedimento sarà solo temporaneo e necessario a superare l’attuale carenza di manodopera. Pochi si illudono che nel Paese del sol Levante possa verificarsi una rapida ripresa demografica: secondo gli ultimi dati disponibili, in Giappone ogni donna fertile mette al mondo 1,44 figli, mentre gli ultrasessantenni stanno per toccare il 30% della popolazione costituita da 126 milioni d’abitanti. Secondo gli studi più attendibili, entro la metà di questo secolo il numero dei giapponesi si ridurrà d’un quarto. ***

L’approvazione della legge.

Il passaggio del testo di legge al Senato (Camera dei Consiglieri) è avvenuto dopo che anche la Camera bassa (Camera dei Rappresentanti) aveva dato il proprio consenso. al Senato i sì sono stati 161, liberaldemocratici e buddisti del Komeito, e 76 i «no». Finora nessun governo nipponico se l’era sentita d’aprire le porte all’immigrazione straniera per non scontrarsi con un’opinione pubblica da sempre contraria agl’influssi provenienti da fuori. Occorre ricordare che il giappone ha una lunga storia di isolamento internazionale, interrottasi nel 1853-54 con l’arrivo nei porti delle “Navi nere” del commodoro Perry. Nei decenni successivi, ad esempio nell’epoca meiji (1868-1912) e nel lungo regno dell’Imperatore Hirohito (1926-1989), mentre il Paese avviava un vastissimo programma di riforme interne occidentalizzanti, promuoveva anche un imperialismo agressivo verso l’Asia continentale che ha aperto ferite tuttora non rimarginate in Cina, Corea ed Indocina. Dopo la tragica conclusione della seconda guerra mondiale, determinatasi con la resa a seguito dell’impiego da parte americana delle bombe atomiche di Hiroshima e nagasaki (agosto 1945) e l’occupazione statunitense (1946-1952), il giappone è divenuto una grande potenza economica sotto la tutela di Washington, di cui rimane l’alleato più fedele nel Pacifico. Tuttavia il modello economico nipponico basato su bassi salari, impiego stabile e grande qualità dei prodotti, destinati perloppiù all’esportazione, negli ultimi decenni si è inceppato con una recessione iniziata negli anni Novanta e solo in parte superata in questo decennio, con la politica di stimolo dell’economia, attivato dal premier Abe Shinzo e dalla sua squadra. ***

L’ Abenomics.

E’ il termine con cui vien indicato il pacchetto di riforme individuato dal governo giapponese dal 2012, ossia da quando è tornato al potere il Primo Ministro Abe. Alla base di esso stanno tre elementi: 1. riforme strutturali; 2. stimolo fiscale; 3. aumento della base monetaria. Gli obiettivi da raggiungere sono: A. rilanciare i consumi privati; B. sostenere alti livelli di export e un rapporto di cambio favorevole tra lo yen, la valuta nazionale, e le monete più importanti al mondo come dollaro o euro. C. riavviare la macchina economica anche attraverso investimenti pubblici in edilizia ed infrastrutture. Abe è stato anche molto attivo sulla scena internazionale, cercando intese coi principali partner del Paese. Così, ad esempio, è stato il primo leader ad incontrare Donald Trump, appena eletto presidente degli Stati Uniti per scongiurare il rischio che la politica dell'”America First” colpisse le sportazioni giapponesi negli States. ha inoltre compiuto viaggi in Cina, Corea del Sud e Russia al fine di risolvere i molti contenziosi rimasti aperti dagli anni del militarismo e dell’espansionismo in Asia. Tokyo, ad esempio, non ha ancora firmato un trattato di pace con la Russia perchè rivendica il possesso delle isole Kurili nell’Oceano Pacifico. L’Abenomics avrebbe dovuto, nelle intenzioni del Primo Ministro e del suo gabinetto economico, limitare l’area di disagio sociale, contrastare discriminazione e sottoccupazione femminile, sostenere il lavoro in generale e la natalità: i risultati però non sono completamente soddisfacenti sia a causa del calo demografico, di cui si è già accennato, sia perché sussistono gravi discriminazioni nei confronti delle donne. Va tuttavia notato che nell’impero di Hakihito ben il 72% della popolazione tra i 16 ed il 64 anni è occupata, (in Italia è del 56%), la disoccupazione è pari al 4% (in Italia è attorno al 12%). Questi dati sono i più alti nell’ambito dell’OCSE, l’organizzazione che riunisce i 35 paesi più industrializzati del mondo. ***

Doppio binario.

Il programma di inserimento degli immigrati, che partirà, secondo le previsioni ufficiali, il prossimo aprile, prevede un doppio binario. Il primo, della durata di cinque anni, garantirà la residenza provvisoria a chi, disponendo di cultura adeguata, determinate caratteristiche professionali e conoscenza essenziale della lingua giapponese, potrà  accedere ad uno dei 14 settori attualmente carenti di personale che saranno presto precisati. Si calcola che potrà assorbire fino a 345.150 lavoratori nel quinquennio che non potranno però avere con loro la propria famiglia. Il secondo percorso garantirebbe invece un impiego di livello più elevato per un periodo da uno a tre anni. In questo caso, nessun numero predeterminato, perché esso sarà  indicato dalle necessità  che si presenteranno e, contrariamente al primo, alla scadenza potrebbe essere rinnovato oppure esteso per un tempo indefinito. Chi sarà  accolto potrà  avere con sé i familiari. Che queste aperture importanti, ma non rivoluzionarie, avvengano dopo un lungo periodo di elaborazione, in uno dei Paesi più impermeabili al mondo alla presenza di stranieri in generale e ancor più di lavoratori che possano entrare in qualche modo in concorrenza con quelli locali, rappresenta una cesura con il passato, ma anche la conferma che il Giappone, per le sue caratteristiche e nonostante la forte automazione, non può rinunciare all’elemento umano. Il lento ma costante cambio di atteggiamento dell’opinione pubblica nel suo complesso verso il mondo esterno ha aperto all’accoglienza e alla cooperazione, ma molto hanno fatto le sue necessità. Non a caso, una parte consistente della forza-lavoro della prima categoria avrebbe accesso a professioni di servizio (infermieri, badanti, collaboratori domestici) di cui il Paese necessita, con l’onere dell’assistenza agli anziani oggi perlopiù delegato ai figli e alle nuore. Allo stesso modo, determinante nell’arrivare alla legge è stato il pressing degli imprenditori che scarseggiano di manodopera, ancor più per le necessità connesse alla preparazione delle Olimpiadi giapponesi del 2020. Attualmente gli stranieri registrati ufficialmente per lavoro nel Paese del Sol Levante sono 1,28 milioni, quasi il doppio rispetto ai 680mila del 2012, ma si calcola una carenza di quasi un milione e mezzo di individui nei settori per cui sarà  consentita l’immigrazione, tra cui edilizia, agricoltura e ristorazione, oltre che nell’ambito domestico e assistenziale. All’apertura nei confronti dei lavoratori stranieri, s’affianca però la preoccupazione per le condizioni e le tutele proposte ai futuri immigrati: il rischio che molti evidenziano è che alla fine essi finiscano per diventare una forza-lavoro sottopagata e discriminata, come successo per buona parte dei lavoratori provenienti da economie emergenti che accordi tra Tokyo e vari governi avevano attirato in Giappone negli anni Novanta. D’altra parte, c’è chi rileva che i salari minimi giapponesi, che per le professioni meno qualificate si aggirano attorno ai 2.000 euro, potrebbero non essere più così attraenti per stranieri che dispongono oggi di alternative un tempo negate. ***

Schiavi al lavoro.

Fang Bowen – racconta Newsweek Japan, è un ragazzo cinese di 28 anni. dopo un tirocinio trascorso in Giapone è rientrato in patria nauseato. «Dal 2013 al 2015 mi hanno fatto lavorare in una fabbrica nella regione di Gifu, in Giappone, come apprendista tecnico. Sono tornato in Cina a metà del tirocinio. Quelli dalla Sogo (l’organizzazione che supervisiona i tirocini) mi prendevano in giro: al lavoro mi sfruttavano, avevo lo stipendio più basso di tutti e m’insultavano. Così, per prendermi una rivincita, ho cominciato a studiare il giapponese.» Il sistema dei tirocini per gli stranieri è stato istituito nel 1993 dal governo giapponese e da allora attira giovani da tutta l’Asia che vengono impiegati nelle piccole e medie imprese. Dopo il terremoto di Fukushima (marzo 2011), una situazione finanziaria fragile e la carenza di manodopera hanno fatto crescere rapidamente il numero di apprendisti: alla fine di giugno del 2017 erano circa 250mila. Negli ultimi anni sono aumentati quelli provenienti dal Vietnam, ma fino a qualche anno fa i cinesi erano il gruppo più numeroso. Oggi in Giappone lavorano circa 80mila apprendisti cinesi. Ufficialmente, il programma serve a favorire «la cooperazione internazionale con i paesi in via di sviluppo attraverso il trasferimento di competenze tecniche. In pratica, però, stabilendo un periodo massimo di tirocinio in Giappone (oggi è cinque anni), per i lavoratori stranieri a basso reddito il sistema si trasforma in una macchina di sfruttamento continuo, che non dà la possibilità d’ottenere un permesso di residenza o di soggiorno permanente. In molti casi queste persone lavorano per ore svolgendo mansioni molto semplici: raccolgono verdura, puliscono frutti di mare o confezionano bento, i pasti pronti. I loro sono tirocini formativi solo sulla carta. ***

Il Karoshi.

Peraltro, anche per i giovani lavoratori giapponesi ai gradini più bassi della gerarchia impiegatizia gli orari di lavoro sono massacranti: da circa vent’anni è diffuso il fenomeno del Karoshi,cioè la mortalità sul lavoro causato dall’abuso degli straordinari. In Giappone questa voce figura ormai nelle statistiche sulla mortalità. Il Karoshi si manifesta spesso con attacchi cardiaci dovuti ad eccessivo stress e sforzi prolungati. Il primo caso si verificò nel 1969, quando un operaio di 29 anni, impiegato nel settore della distribuzione dei giornali, morì per eccesso di lavoro. Nel 1987, mentre l’interesse pubblico era aumentato, il Ministero del Lavoro di Tokyo cominciò a pubblicare le prime statistiche sul fenomeno. L’espansione economica internazionale delle multinazionali nipponiche diffuse oltreconfine la nozione di karoshi, verso paesi quali la Cina, la Corea e Taiwan. Particolare scalpore, inoltre, fece il caso di Sado Miwa, una reporter della televisione pubblica giapponese NHK, morta nel luglio 2013, a 31 anni, dopo aver svolto 159 ore di straordinario in un mese. Solo successivamente la NHK rivide le norme contrattuali onde evitare simili eccessi. Un altro caso che approdò in tribunale nel 2005 fu quello di Uendan Yuji, 23 anni, che nel marzo 1999 si tolse la vita: «Tutto il tempo che ho passato è stato sprecato» lasciò scritto il giovane su una lavagnetta che usava come agenda per gl’impegni quotidiani. Uendan aveva lavorato per quasi 16 mesi come ispettore di apparecchiature per la produzione di semiconduttori, in una stanza asettica con una luce soffusa giallastra nella fabbrica della Nikon a Kumagaya, vestito dalla testa ai piedi con una divisa bianca sterile. Era stato assunto da una ditta appaltatrice che lo mandava per incarichi a termine alla Nikon, una delle principali produttrici giapponesi di macchine fotografiche e dispositivi ottici. Uendan faceva turni di giorno e di notte di 11 ore a rotazione, con straordinari e viaggi extra che gli facevano raggiungere le 250 ore al mese.

Nel suo ultimo periodo di lavoro all’interno della fabbrica era arrivato a 15 ore consecutive senza un giorno libero. Soffriva di mal di stomaco, insonnia, intorpidimento delle estremità. In poco tempo era dimagrito di 13 chili. Come si vede, quindi, è alto il rischio che i lavoratori immigrati che saranno accettati nel paese per effetto della legge appena approvata possano essere impiegati in lavori massacranti e con orari molto dilatati e stipendi bassi, considerato anche il costo elevato della vita.

PIER LUIGI GIACOMONI

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