L’AFRICA VERSO IL LIBERO COMMERCIO
(19 Agosto 2019)
NIAMEY. Mentre il resto del mondo sceglie il protezionismo, l’Africa imbocca la strada del libero commercio.
Nel corso d’un vertice straordinario dell’Unione africana (UA) tenutosi in luglio, ha sancito l’avvio operativo
dell’Accordo continentale africano di libero scambio (l’acronimo internazionale è AfCFTA), un’intesa che ha avuto
finora il sì di 52 Paesi sui 55 che compongono l’organizzazione che raduna tutti gli Stati indipendenti dell’area
dal Marocco al Sud Africa.
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I DETTAGLI.
L’intesa vuole creare un’area senza dazi in grado di far crescere le aziende e le industrie locali, il commercio e
l’occupazione.
Frutto di due anni di negoziati, l’accordo garantirà che beni e servizi abbiano accesso a un mercato unico di un
miliardo di persone e oltre due miliardi di dollari di Pil, un’unione doganale con libero movimento di beni e
capitali: i Paesi parte dell’accordo dovranno infatti ridurre il 90% dei dazi sui prodotti importati da altri Stati
africani, che beneficeranno quindi di notevoli riduzioni di prezzo sui mercati locali, avvantaggiandosi rispetto ai
beni provenienti dal resto del mondo.
Restano fuori, per ora, solo Benin, Eritrea e Nigeria, ma quest’ultima, prima economia del continente, potrebbe
firmare presto per l’adesione.
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FRAMMENTAZIONE ECONOMICA.
Secondo le Nazioni Unite, il commercio intra-africano aumenterà del 52,3% e, una volta che saranno eliminati anche
i dazi residui, dopo un periodo di dieci anni, lo stesso commercio continentale arriverà a raddoppiare.
«Se si guarda alle economie africane, il loro principale problema oggi è la loro frammentazione: sono economie
molto piccole rispetto al resto del mondo – sottolinea Albert Muchanga, commissario al Commercio dell’Unione
Africana – ora stiamo rimuovendo questa frammentazione, per attrarre investimenti a lungo termine e su larga
scala».
La frammentazione delle tariffe e delle regole ha limitato finora il commercio intraafricano a un 17% del totale,
un livello molto basso rispetto al 59% dell’Asia e al 69% dell’Europa.
Di recente anche l’uomo più ricco d’Africa, il nigeriano Aliko Dangote, ha fatto notare che per una sua azienda di
cemento è quasi impossibile vendere in Benin, a pochi chilometri di distanza, a causa delle autorità locali che
hanno finora facilitato le importazioni dello stesso prodotto, ma di fabbricazione cinese.
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DIVERSIFICAZIONE DEGLI IMPIEGHI
L’aumento del commercio intra-continentale servirà inoltre a diversificare la creazione di posti di lavoro, dai
servizi alle manifatture: le esportazioni dall’Africa al resto del mondo finora hanno riguardato soprattutto
materie prime, per le industrie cinesi od europee, e prodotti agricoli (caffè, cacao, cotone…) che poi vengon
trasformati in prodotti finiti (cioccolato, indumenti…) rivenduti all’africa a prezzi maggiorati.
Ciò si traduce in meno posti di lavoro a livello locale e in una maggiore esposizione ai prezzi delle materie prime
sui mercati finanziari globali.
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ECONOMIE DI SCALA.
Secondo molti osservatori, l’accesso a un unico grande mercato senza dazi incoraggerà i produttori a spingere
sulle economie di scala: un incremento della domanda porterà a un incremento della produzione e a un conseguente
abbassamento dei costi unitari.
I consumatori, insomma, pagheranno meno per prodotti e servizi, le aziende potranno assumere più lavoratori e per
gli Stati le entrate fiscali aumenteranno.
Anche le donne, responsabili per oltre il 70% dei commerci informali a cavallo tra le frontiere, beneficeranno di
regimi commerciali semplificati e dazi ridotti per le loro piccole attività.
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USCITA DALLA DIPENDENZA.
In generale l’accordo se ben gestito ha il potenziale per trasformare l’Africa da continente dipendente dagli aiuti
in una nuova frontiera degli investimenti.
C’è chi ritiene, inoltre, che il libero mercato possa far da preludio a una Comunità economica e a un’Unione
monetaria africana – con ricadute positive anche sulla riduzione di conflitti e tensioni nel continente -, anche se
è presto per queste ipotesi.
Nell’area del Franco CFA [1], ad esempio, cresce l’insofferenza per una moneta creata dalla Francia all’epoca della
colonizzazione e tuttora governata da Parigi. La sua esistenza condiziona almeno in parte lo sviluppo economico dei
Paesi che la utilizzano: il tasso di cambio è fissato dalla banca di Francia che ieri l’ancorava al Franco francese
ed oggi all’euro.
E’ Certo che, se tutto andrà secondo i piani, l’accordo intraafricano porterà anche a nuove intese commerciali con
i Paesi exrafricani: questa volta, però, così come già accade oggi per l’Unione Europea, l’Africa potrà fare
fronte comune e provare a ottenere condizioni migliori per uno sviluppo sostenibile.
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LOTTA ALLE DISUGUAGLIANZE.
Gli osservatori, peraltro, sottolineano che l’accordo debba andare di pari passo con politiche che salvaguardino le
economie più piccole e a rischio, in modo da evitare l’allargarsi delle disuguaglianze attraverso un continente in
cui i livelli di crescita sono quanto mai eterogenei.
Basti pensare che oltre il 50% del Pil africano è frutto di soli tre Paesi, Egitto, Nigeria e Sud Africa.
Molti mercati africani emergenti sono economie tradizionali che si basano su attività agricole di tipo familiare,
che certo non possono competere con colossi dell’agro-business di livello continentale.
Fare in modo che nessuno resti indietro davanti a questa nuova opportunità sarà fondamentale per una crescita
davvero inclusiva.
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CRONOLOGIA D’UN’INTESA.
Il 21 marzo 2018 a Kigali, (Ruanda), 44 Paesi africani firmano il primo Accordo continentale africano di libero
scambio per ridurre del 90% i dazi su beni e servizi.
I negoziati sono durati due anni attraverso otto vertici tra i leader dei Paesi firmatari.
Mentre altri, tra cui Sud Africa e Namibia, si uniscono all’intesa, il 29 aprile di quest’anno la Repubblica del
Saharawi è la ventiduesima entità statale a depositare la ratifica.
Un mese dopo, il 30 maggio, l’intesa entra in vigore
La fase operativa ha preso il via col summit continentale avvenuto il 6 luglio a Niamey, (Niger).
Per numero di Paesi, l’accordo africano di libero scambio è destinato a essere il più ampio al mondo.
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POSSIBILI OSTACOLI.
Con l’accordo per il libero mercato intraafricano, l’Africa prova, dopo decenni in cui è stata alla mercé di
soluzioni partorite altrove, una sua strada verso lo sviluppo.
Secondo Abdoul Salam Bello, consigliere di Banca mondiale, «l’obiettivo non è di creare un modello copia-eincolla
del mercato comune europeo, ma di adattare il tutto a questioni e contesto africani, anche se questo non vorrà
dire che sarà necessario reinventare la ruota».
Dare valore aggiunto alle produzioni africane, trasformazione sempre maggiore delle materie prime a livello locale
e minore dipendenza dai mercati globali delle commodity sono alcune delle conseguenze positive che gli economisti
si aspettano dalla quasi totale eliminazione dei dazi a livello continentale.
Certo, non tutto avverrà per magia: gli ostacoli, a partire da corruzione e cattiva governance, non mancano.
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CARENZA DELLE INFRASTRUTTURE.
Per gli osservatori il problema numero uno restano le infrastrutture, in gran parte ancora residui del vecchio
passato coloniale: Strade, porti, ferrovie, laddove esistono, sono ancora organizzate in gran parte per consentire
il trasporto di materie prime fuori dal continente, mentre scarsi sono i collegamenti intraregionali.
Secondo la Banca di sviluppo africana, l’Africa necessita dai 130 ai 170 miliardi di dollari l’anno per
investimenti in infrastrutture, e metà di questi fondi mancano all’appello, anche se proprio il mercato comune
potrebbe aiutare a reperirli.
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ADEGUAMENTO DELLE NORMATIVE COMMERCIALI.
Inoltre, molti Paesi dovranno adeguare le loro normative commerciali, in modo che le aziende possano operare
attraverso le frontiere con disagi minimi.
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FORMAZIONE E SCOLARIZZAZIONE.
E poi c’è il capitolo formazione, necessaria per una forza lavoro che dovrà creare valore aggiunto per mercati non
più locali e adattarsi all’industrializzazione.
In Etiopia, ad esempio, il governo sta spingendo per portare la quota dell’industria dal 5 al 20% dell’economia
nazionale entro il 2025, il che si è tradotto in un lavoro congiunto con il settore industriale proprio sul fronte
della formazione della forza lavoro.
«Alcuni Paesi – osserva ancora Bello – non hanno ancora avviato questa svolta verso l’industrializzazione, che
necessita di ricerca e sviluppo, e quindi anche sempre più di scienziati e ingegneri».
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INVESTIMENTI STRANIERI.
Sull’implementazione dell’accordo si giocheranno inevitabilmente le sue fortune, di cui potrebbero beneficiare non
solo gli africani, ma anche aziende straniere in cerca di opportunità.
Compagnie americane o europee che hanno finora ritenuto troppo piccoli alcuni mercati africani, potrebbero invece
usarli ora come base per espandersi anche verso altri Paesi del continente, favorendo così ulteriormente la
crescita a livello locale.
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LE COMUNITA’ ECONOMICHE REGIONALI.
Integrare le comunità economiche regionali già esistenti in Africa nell’accordo continentale di libero scambio non
sarà un compito facile, nessuno lo nasconde, neanche quei leader africani che con entusiasmo l’hanno accettato.
L’Unione Africana attualmente accoglie otto comunità regionali (alcune delle quali hanno adesioni sovrapposte,
ovvero Paesi che fanno parte di più entità ).
Tra queste, l’Unione del Maghreb arabo, il Mercato comune per l’Africa orientale e meridionale, la Comunità degli
Stati del Sahel e del Sahara, e così via.
Assicurarsi che questi blocchi regionali, ognuno con le proprie <liturgie> e velocità , garantisca il proprio
impegno sarà cruciale per l’implementazione e il successo di un accordo che sta nascendo e che deve ancora
dimostrare tutta la sua tenuta in una realtà complessa e composita come quella del continente africano.
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A CHILOMETRO ZERO.
Stuzzicadenti cinesi, latte olandese, zucchero francese, cioccolato svizzero, tovaglioli canadesi.
In un qualsiasi minimarket africano gli scaffali sono pieni di prodotti importati da mezzo mondo.
Eppure molti di questi stessi beni potrebbero essere acquistati, a chhilometro zero, da Paesi molto più vicini,
Ghana, Marocco, Nigeria, Sud Africa e altri Paesi africani che dispongono di una base industriale sufficiente.
Perché, quindi, i rivenditori si sono finora approvvigionati da produttori più lontani? La risposta è da cercare in
quel groviglio di regole commerciali e tariffe doganali che hanno reso finora il mercato intra-africano
estremamente costoso, scomodo e vittima di lungaggini, con conseguenze negative su occupazione e crescita economica
di un continente intero.
In più, negli ultimi decenni, mentre l’Europa si disinteressava del “continente nero” ponendosi tutt’al più il
problema d’elevare barriere doganali ai prodotti tipici d’esportazione o di bloccare le correnti migratorie che
hanno un forte impatto sull’opinione pubblica, è penetrata profondamente nell’economia del continente la Cina
popolare coi suoi prodotti, i suoi prestiti e la sua manodopera.
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LA NUOVA VIA DELLA SETA.
La narrativa cinese ha descritto la “Via della Seta” come un regalo della «saggezza cinese allo sviluppo mondiale»,
una sorta di nuovo “Piano Marshall” per l’Africa, una piena integrazione delle economie di Europa e Asia, grazie ad
una rete rafforzata di nuove infrastrutture di trasporto via mare e via terra.
Fin dal 2013 la Repubblica Popolare Cinese ha investito oltre 700 miliardi di dollari del proprio denaro pubblico
in oltre 60 paesi, soprattutto in grandi progetti infrastrutturali (porti e ferrovie), spesso in forma di prestiti
erogati ai governi dei paesi che hanno aderito al progetto.
Il disegno geopolitico cinese è stato chiaro fin dall’inizio: ampliare il proprio «spazio economico» verso l’Africa
e l’Europa, creare rapporti preferenziali con i paesi aderenti, incrementare il «soft power» di Pechino nel mondo.
Dopo l’iniziale entusiasmo, le cose sono andate però diversamente e molti Paesi che vi hanno aderito hanno
cominciato a ridiscutere drasticamente i progetti avviati.
Il modello cinese ha affascinato molti per il suo approccio “pragmatico” e soprattutto per l’assenza di tutti i
vincoli normalmente posti dalle istituzioni occidentali: sostenibilità finanziaria, rispetto dei diritti umani,
regole rigide in materia di corruzione, verificabilità dei progetti.
Quest’approccio «senza vincoli» ha portato diversi Paesi a indebitarsi in modo eccessivo e insostenibile nei
confronti di Pechino.
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LA “TRAPPOLA DEL DEBITO”.
La “trappola del debito” ha reso molti Paesi troppo vulnerabili nei confronti della Cina e le reazioni non si sono
fatte attendere.
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SRI LANKA.
Il primo campanello d’allarme è giunto a Sri Lanka: l’ex presidente Mahinda Rajapaksa fece aderire il suo Paese con
entusiasmo alla “Nuova Via della Seta” e si fece finanziare con un prestito dalla Cina il nuovo Porto di
Hambantota. Nel 2015, però, il nuovo Capo dello Stato Maithripala Sirisena scoprì presto l’insostenibilità del
debito contratto con Pechino e fu costretto ad avviare una “debt for equity swap”, cedendo per 1,4 miliardi di
dollari e per 99 anni il porto alla China Merchant Port Holdings.
L’infrastruttura portuale che Sri Lanka aveva costruito grazie al prestito cinese , è quindi finita direttamente in
mani cinesi, suscitando una forte indignazione in tutto il Paese.
Il caso del porto di Hambantota ha suscitato allarme in molte cancellerie in occidente anche alla luce dei rischi
di potenziale “dual use” civile e militare delle infrastrutture portuarie.
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MALAYSIA.
Lo scorso anno in Malaysia il leader dell’opposizione Mahatir Mohamad ha sconfitto il primo ministro uscente Najib
Razak con una campagna elettorale tutta focalizzata sull’eccesso di indebitamento del Paese nei confronti di
Pechino: appena insediato Mahatir ha cancellato i tre più importanti progetti finanziati nel quadro della “Nuova
Via della Seta”: la nuova ferrovia East Coast Rail, del costo di 20 miliardi di dollari, che avrebbe connesso i
porti malesi della costa orientale con lo Stretto di Malacca e due gasdotti per 2,3 miliardi di dollari.
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MYANMAR.
Il governo di Myanmar, per un timore d’un eccessivo indebitamento, ha ridotto drasticamente le dimensioni del
progetto del porto di Kyauk Pyu nello Stato di Rakhine (la provincia birmana nota per le persecuzioni contro la
minoranza musulmana dei Rohingya), riducendo l’indebitamento con la Cina da 7 a 1,3 miliardi di dollari.
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BANGLADESH.
All’inizio di quest’anno il Bangladesh ha annullato l’accordo con la Cina relativo al finanziamento per la
costruzione dell’autostrada che avrebbe collegato la capitale Dacca con la popolosa regione del Nord-Est.
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ISOLE MALDIVE.
L’indebitamento con la Cina è stato l’oggetto dello scontro elettorale alle Maldive in occasione delle ultime
presidenziali: l’80% del debito estero del piccolo paese insulare è stato contratto con la Cina e il nuovo
Presidente Ibrahim Mohammed Solih ha recentemente denunciato l’insostenibilità del debito, che potrebbe essere
ripagato con la cessione di Isole sul modello dello “swap” del Porto di Sri Lanka.
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IN AFRICA.
In Africa le cose non vanno meglio: dal 2013 ad oggi Pechino ha investito nel continente 120 miliardi di dollari,
una parte di questi sono prestiti che dovranno esser restituiti, un’altra parte realizzazioni di progetti con
manodopera cinese, quindi con poco beneficio per l’occupazione di lavoratori locali.
Inoltre, la Cina è penetrata nel sistema scolastico e formativo di diversi paesi, offrendo la possibilità ai
giovani studenti di perfezionarsi nelle università cinesi, dove in passato non sono mancati episodi di intolleranza
della popolazione autoctona nei riguardi degli africani. In Tanzania, ad esempio,sono stati creati all’Università
di Dar Es Salaam dei corsi di mandarino e lo stesso è accaduto altrove.
La “Nuova Via della Seta” era molto apprezzata da Robert Mugabe, presidente dello Zimbabwe fino al 2017, dal leader
sudanese Omar Hassan al-Bashir, recentemente deposto, ed altri ancora perché Pechino non spinge per una
democratizzazione dei numerosi regimi autoritari presenti sul continente, a condizione che firmino gli accordi.
Tuttavia, in diversi si sono già accorti che non è tutto oro quello che luccica.
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GIBUTI.
A Gibuti, per esempio, è concreta la possibilità che gli investimenti infrastrutturali cinesi si possano
rapidamente trasformare in operazioni con una forte valenza politica e militare.
Il think tank americano “Center for Global Development”, in un suo recente rapporto, ha analizzato i Paesi più
indebitati al mondo con la Cina nel quadro degli investimenti della Nuova Via della Seta: l’unico paese africano
nell’elenco era proprio Gibuti che ha recentemente concesso alla Cina l’autorizzazione a poter installare la sua
prima base militare estera.
Le implicazioni per la sicurezza internazionale sono evidenti e in una recente audizione presso il Congresso Usa,
l’Ammiraglio Harry Harris, capo del Commando del Pacifico, ha dichiarato che l’influenza politica e militare cinese
si è rapidamente diffusa negli oceani pacifico e indiano in gran parte grazie ai progetti commerciali della
cosiddetta “Via della Seta Marittima”.
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KENYA.
Il governo del Kenya ha inaugurato un anno fa la ferrovia Mombasa-Nairobi realizzata e finanziata dalla compagnia
di stato China Road and Bridge Corporation: un’opera certamente utile per il paese africano ma che ha generato la
metà degli utili previsti negli studi di fattibilità, è costata molto di più degli standard internazionali e nel
mondo politico kenyano è cresciuto lo scetticismo sulla capacità reale del paese di ripagare i debiti contratti.
La “trappola del debito” nella quale diversi Paesi sono caduti, suggerisce dunque una maggiore prudenza: purtroppo
però già molti paesi africani sono molto indebitati con la Cina, affiancando una nuova dipendenza a quelle
preesistenti.
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AIUTIAMOLI A CASA LORO.
L’Europa, sia per ragioni geografiche che storiche, ha un legame plurisecolare con l’Africa,sia quella “bianca” che
la “nera”, però negli ultimi decenni i paesi aderenti all’UE hanno relegato la questione delle relazioni con gli
Stati nati dalla decolonizzazione come un tema di scarsa importanza: per questo motivo sono stati ridotti al minimo
i fondi previsti nei bilanci statali per la cooperazione.
Poi è divenuto endemico il fenomeno migratorio che interessa tutto il nostro continente: i governi, allora, hanno
cercato di contenerlo o d’annullarlo con misure che non hanno fatto altro che rendere più difficile lo spostamento
d’ingenti masse umane ed ha incoraggiato il traffico criminale di esseri dalle zone più povere dell’africa
all’Europa: secondo un bilancio stilato dall’UNHCR nel Mediterraneo nel 2019 vi è un rapporto di 1 a 6 per quanto
si riferisce alle vittime di annegamenti durante i trasferimenti di profughi dalla Libia all’europa meridionale.
In altre parole: viaggiano meno persone,ma ne muoiono in proporzione di più.
E’ venuto il momento che l’Europa sostenga con la propria politica il tentativo che sta facendo l’africa per uscire
dal suo sottosviluppo, incoraggiando la riuscita del trattato di libero scambio interafricano: sarà un modo per dar
concretezza allo slogan fin troppo abusato che dice «Aiutiamoli a casa loro».
PIER LUIGI GIACOMONI
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NOTA.
[1] Il Franco CFA (che significava nel 1945 quando fu introdotto Franco delle Colonie Francesi d’Africa, è oggi
identificato come moneta della Comunità Finanziaria Africana che comprende 14 Paesi: Benin, Burkina Faso, Camerun,
Ciad, Costa d’Avorio, Gabon, Guinea-Bissau, (dal 2 maggio 1997), Guinea Equatoriale (1985), Mali, (fino al 1962 e
poi dal 1984), Niger, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo (Brazzaville), Senegal e Togo.
Sono associate al franco CFA anche le Isole Comore, nell’Oceano Indiano, dentro la cosiddetta “zona franco” (franco
comorano).
Tutti, tranne Guinea-Bissau e Guinea Equatoriale, erano colonie francesi fino al 1960 quando ottennero
l’indipendenza.
L’adesione all’area del Franco CFA è volontaria, tant’è vero che alcuni Stati l’hanno abbandonata per poi emettere
una propria moneta nazionale: La Guinea (Conakry), ad esempio, uscì nel 1960, il Madagascar e la Mauritania
vararono proprie monete autonome nel 1973.
Il Mali stampò una propria divisa dal 1962 al 1984 quando tornò nell’alveo del Franco CFA.
Gli accordi che vincolano i Paesi aderenti con le autorità francesi prevedono le seguenti clausole:
1. un cambio fisso con la moneta adottata dalla Francia: ieri il Franco francese,oggi l’Euro;
2. piena convertibilità del Franco CFA con l’Euro garantita dal Tesoro di Parigi;
3. fondo comune di riserva di moneta estera a cui partecipano tutti i paesi del CFA (almeno il 65% delle posizioni
in riserva depositate presso il Tesoro francese, a garanzia del cambio monetario);
4. in contropartita alla convertibilità era prevista la partecipazione delle autorità francesi nella definizione
della politica monetaria della zona CFA.
Il franco CFA ha sempre mantenuto la parità rispetto al franco francese, salvo in casi particolari.
Dopo l’introduzione dell’euro, il valore del franco CFA è stato agganciato alla nuova valuta; è comunque la Banca
di Francia e non la Banca centrale europea che continua a garantire la convertibilità del franco CFA.
Il tasso di cambio tra Euro è pari a 655,957 Franchi CFA.