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IL SUICIDIO DEL PD
(18 Settembre 2018)

ROMA. Dopo aver subìto una pesante sconfitta alle ultime elezioni politiche generali, il PD ha avviato il suo

suicidio collettivo.

Il partito nato dall’unione, che all’epoca qualcuno definì “a freddo” di diverse correnti di pensiero, è entrato in

uno psicodramma che non accenna a passare: tutti i dirigenti, sulla stampa e sulle reti sociali,  si sono rivolti

l’un l’altro appelli all’unità interna, a superare i dissidi, salvo poi litigare incessantemente su qualunque

argomento, anche il meno significativo.

Qualcuno ha immaginato di creare dei fronti repubblicani o delle nuove coalizioni con non si sa chi e senza

indicare veri obiettivi che non fossero la creazione di ennesimi cartelli elettorali, buoni, forse per vincere

un’elezione, ma incapaci di governare, come è già avvenuto in passato.

Ciò ha rafforzato la maggioranza governativa che, praticamente senza far niente, ha guadagnato consensi: oggi si

dice che il 70% degl’Italiani è d’accordo col governo e voterebbe per i due partiti che lo compongono.

Certo,  si sa che al giorno d’oggi il consenso è forse facile da ottenere, soprattutto se si usa un linguaggio

semplice, diretto, senza fronzoli, che attecchisca, ma si perde altrettanto rapidamente se si compiono atti

veramente impopolari.

Il Governo, dal canto suo, finora non ha fatto nulla di veramente impopolare, anzi non ha fatto proprio nulla, se

non degli annunci con espressione del tipo: “faremo…” aboliremo… elimineremo…”

Perché tutto questo? Perché di fronte c’è un’opposizione debole, litigiosa e che perde tempo a discutere su cose

che interessano solo gli addetti ai lavori.

Qualcuno di questi dice: “dobbiamo fare il congresso”, qualcun altro propone di sciogliere il partito democratico e

rifondarlo con un nome ed un simbolo diverso, un terzo dice che occorre riandare nei territori, rilanciare la

partecipazione dal basso, un quarto propone di rivedere lo statuto e ricalibrare le regole e così via.

Tutto un dibattito interno che riguarda solo coloro che fan parte del ceto politico: si evita di parlare di temi

che interessano l’opinione pubblica come il lavoro e la sua mancanza, la collocazione dei giovani nella società che

cambia, la sicurezza che preoccupa chi vive in città, la povertà che affligge almeno 5 milioni di persone, il

conflitto strisciante tra poveri e migranti e via elencando.

Un partito serio che volesse dimostrare di avere un senso ed un progetto per il futuro del nostro Paese invece

d’avvitarsi in un conflitto permanente ed inconcludente, dovrebbe preparare un congresso nel quale si discute e si

mette per iscritto un programma con le proposte da fare all’opinione pubblica: in sostanza, dovrebbe definire che

cosa ha da offrire di alternativo al Paese.

In alternativa vi è solo la prospettiva d’un suicidio politico collettivo.

In queste condizioni il governo non ha ovviamente nulla da temere, mentre molto hanno da temere coloro che hanno

creduto nel PD, l’hanno sostenuto e continuano a lavorare perché stia nella società italiana ed europea e svolga un

compito importante come fare l’opposizione in Parlamento e fuori.

In democrazia non è importante solo chi governa, ma anche chi sta all’opposizione e la fa giorno dopo giorno.

PIER LUIGI GIACOMONI

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