DOVE SI ELEGGONO I PREMIER?
(9 ottobre 2016)
ROMA. Lo dico subito: coloro che voteranno “no” al referendum costituzionale del 4 dicembre hanno, dal mio punto di vista, il massimo rispetto, soprattutto se questa scelta è fatta avendo letto il testo della legge costituzionale approvata dopo sei letture dal Parlamento ed essendosi formati delle convinzioni in modo libero e consapevole.
Meritano, secondo me, un po’ meno rispetto coloro che voteranno “no” pensando ad altro: come fecero a giugno quei britannici che scelsero la Brexit convinti di sbattere fuori dal Regno Unito gli immigrati, di pagare meno tasse, d’avere la meglio sulla City e sul Financial Times, oppure per il semplice fatto che non avevano la minima idea di cosa fosse realmente l’Unione Europea.
Il referendum è, o dovrebbe essere, quella tipica votazione in cui uno, prescindendo dalla propria opzione politica, militanza partitica, appartenenza ideologica, si fa un’idea precisa dell’argomento sottoposto a referendum e sceglie se votare “sì”, “no” oppure astenersi.
Va precisato, però, che mentre nei plebisciti abrogativi regolati in parte dall’art. 75 della Costituzione vigente, l’astensione influisce sull’esito finale dello scrutinio, nelle votazioni popolari costituzionali determina il verdetto finale solo chi concretamente vota.
Ciò che mi dà particolarmente fastidio In questa campagna elettorale è l’attitudine mostrata prevalentemente dai fautori del “no” d’evitare di occuparsi del testo della legge costituzionale.
Alcuni parlano della legge elettorale, altri del job’s act, altri ancora dei parlamentari indagati, della buona scuola, del deficit pubblico… Come se quel giorno noi fossimo chiamati ad esprimerci su questi argomenti;
Gli stessi, poi, s’inventano un sacco di storie che non hanno un reale fondamento.
Volete degli esempi?
Eccone una rapida rassegna non del tutto esaustiva, ma esemplificativa:
1. la legge costituzionale non l’ha voluta nessuno: è un colpo di mano operato dal duo Renzi-Boschi per mantenersi al potere;
2. la riforma introdurrà un sistema neoautoritario;
3. sono le banche e le multinazionali ad imporci questa riforma;
4. E’ un colpo di coda della P2.
Il tutto poi si conclude con la famosa espressione: «Benaltro è il problema!».
La menzogna più grande e ripetuta più di frequente è che l’attuale premier non l’ha eletto nessuno.
E’ una canzone che ho ascoltato anche ieri pomeriggio, dibattendo animatamente con una persona che, appunto, mi ha rinfacciato che l’attuale Primo Ministro italiano non è stato eletto, ma imposto dal Capo dello Stato.
E’ vano replicare che l’art. 92 della costituzione presente e futura stabilisce che il Presidente del consiglio dei Ministri è scelto dal Presidente della repubblica. Quello non ti ascolta nemmeno, perché ha sentito talmente tante volte questa solfa nei talkshow televisivi che gli sembra più vera quella della mia contro argomentazione.
E allora, come faccio spesso, getto uno sguardo fuori dall’Italia.
Così mi sono domandato: c’è un Paese dove i cittadini eleggono il Premier?
Faccio una rapida ricerca su Internet e scopro che in nessuno Stato dove esista la carica di Primo Ministro, questi è eletto direttamente dal popolo: ci fu solo un paese che ci provò negli anni Novanta ad introdurre questa novità.
Israele, tra il 1996 ed il 2001, diede agli elettori la possibilità di scegliere direttamente il Capo del governo:
alle elezioni venivano consegnate due schede, una per scegliere con metodo proporzionale i 120 membri della Knesset, il parlamento monocamerale di Gerusalemme, ed un’altra per eleggere il Primo Ministro.
Se nessun candidato otteneva la maggioranza assoluta nella prima votazione, si convocava un ballottaggio due settimane dopo al quale erano ammessi i due nominativi più votati al primo turno.
Questa legge fu abolita successivamente perché presentava più svantaggi che vantaggi: in particolare poteva capitare che l’eletto non trovasse poi in parlamento i consensi sufficienti per tenere in piedi il suo governo, dal momento che, diversamente da quanto accade per i nostri sindaci, il riparto dei seggi alla Knesset non era influenzato dall’esito della votazione per l’elezione del capo del Governo.
In altri termini, Ehud Barak, laburista, poteva battere Benjamin Nethanyahu, Likud, ma poi aveva 45 giorni di tempo per costruirsi una maggioranza di 61 seggi su 120 che sorreggesse la sua amministrazione.
Se non ci riusciva o la maggioranza si sfaldava nel corso della legislatura, come accadde nel 2001, si doveva procedere ad un’altra elezione premierale.
Israele, però, non ha una vera e propria costituzione, ma delle normative flessibili che possono esser modificate in qualsiasi momento da una maggioranza parlamentare, perciò, constatato il fallimento dell’esperimento, si abolì la legge e si tornò alla procedura in vigore prima del ’96: il Presidente dello Stato, dopo le elezioni incarica il leader del partito col maggior numero di seggi alla camera di formare maggioranza e governo.
Per farlo ha a disposizione 45 giorni: se non ci riesce, il Capo dello stato offre l’incarico ad un altro e così via.
In Gran Bretagna, di recente, si è verificata una vicenda che può esser molto istruttiva e sulla quale può valere la pena soffermarsi un attimo.
l’attuale Premier Theresa May è entrata al numero 10 di Downing Street senza dover passare da un’elezione vera e propria.
All’indomani del referendum sulla Brexit, David Cameron annunciò le sue dimissioni da leader del Partito Conservatore, aprendo con ciò la strada ad una leadership election.
In un primo momento pareva che i concorrenti alla premiership sarebbero stati diversi, poi, l’uno dopo l’altro tutti i possibili pretendenti hanno rinunciato: l’unica rimasta in pista era Theresa May, eletta deputata ai comuni da 35 mila elettori nel suo collegio elettorale.
Mrs. May aveva avuto il merito di non schierarsi durante la campagna referendaria né per l’opzione “leave”, né per “remain”, quindi pareva a tutti la persona più giusta per gestire la lunga fase di disconnessione del Regno Unito da Bruxelles.
Perciò, il 12 luglio è stata tacitamente proclamata Leader dei conservatori e di conseguenza, Primo Ministro di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord.
eletta?
– No, nominata!
Ha vinto le elezioni generali?
– No, perché queste ci saranno nel maggio 2020!
Per caso i conservatori han fatto delle primarie coi seggi nelle case del popolo come qui da noi?
– No, hanno preso atto che non c’era nessun altro candidato ed han scelto la Theresa!
Qualcuno si è ribellato?
– No, nessuno: per tutti i britannici, anche quelli che votano per altri partiti quella è il nuovo Primo Ministro fino a nuovo ordine.
Ma come, allora non è vero che nel Regno Unito i premier sono sempre eletti?
– No, non è vero: quando nel 1990 Margaret Thatcher, la lady di ferro, fu rovesciata dal suo posto di leader conservatore dai suoi compagni di partito, le succedette John Major; quando nel 2007 Tony Blair si dimise da leader dei laburisti e da Primo Ministro, il suo posto fu preso da Gordon Brown senza passaggio elettorale.
Questo vale per la Gran Bretagna,la Francia, la Germania, la spagna ed un’infinità di altri Paesi.
Nei regimi presidenziali, quelli dove la carica di Capo dello stato coincide con quella di Capo del Governo, il Presidente è eletto dal popolo, ma se durante il mandato muore o è destituito, il suo posto è preso dal vice Presidente.
Questa evenienza si verificò negli stati Uniti diverse volte:
• nel 1963, Lyndon B. Johnson succedette immediatamente a John F. Kennedy dopo che fu chiaro che il Presidente era clinicamente morto;
• nel 1974, Gerald Ford divenne Presidente degli Stati Uniti in seguito alle dimissioni rassegnate da Richard M. Nixon, travolto dallo scandalo Watergate. Ford non era però il candidato vicepresidente di Nixon nelle elezioni del 1972: il secondo del Presidente si chiamava Spiro T. Agnew.
Questi il 10 ottobre 1973 dovette dimettersi da vice presidente perché accusato di evasione fiscale , truffa ed altri gravissimi reati quando negli anni Sessanta era governatore del Maryland.
Quindi, Ford fu il primo Presidente della storia nordamericana a non esser eletto da nessuno, nemmeno dal Congresso.
• Dilma Rousseff, a fine agosto, è stata rimossa dalla presidenza del Brasile: il suo posto l’ha preso il vice Presidente Michel Temer, che, negli ultimi mesi era divenuto accanito avversario della Presidente.
E potrei continuare con altri esempi.
Qui, secondo me, sta la disonestà vera di alcuni politici che sfruttano la buona fede di gente che non ne sa nulla, non sa come documentarsi, non ha gli strumenti per capire, per cui decide senza una vera cognizione di causa.
PIER LUIGI GIACOMONI