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LOBBY E CAUCUS
(28 Novembre 2016)

WASHINGTON. Da molto tempo penso che noi dovremmo farci una maggiore cultura sui sistemi politici e sugli assetti
istituzionali in vigore negli altri Paesi sia per comprendere meglio come altri popoli hanno affrontato il problema
di darsi un’organizzazione istituzionale, sia per avvicinarsi di più alla mentalità che sorregge quelle strutture
di governo.

Non si tratta né di copiare, né di scimmiottare gli altri: si tratta solo di capire, comprendere, allargare le
proprie prospettive d’indagine ed i punti di riflessione.

In un libro che sto leggendo in questo periodo, “Americana, Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z”, a
cura di Mario Maffi, Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini, Sostene Massimo Zangari (ed. Il Saggiatore, 2012), ho
trovato quest’articolo sulle Lobby e i caucus, due tipiche istituzioni, presenti ed operanti nella democrazia
americana.

Lo ricopio qui a beneficio di chi, magari, voglia leggersi tutto il corposo volume, così come sto facendo io.

Al termine del pezzo c’è anche una piccola bibliografia.
***
Lobby & caucus
(M.M.)

Guai a chi è ancora tanto ingenuo da credere che gli Stati Uniti siano un sistema parlamentare bicamerale. Certo,
sui libri si legge che il potere legislativo viene esercitato dal Congresso, composto da una Camera dei
rappresentanti (435 membri eletti) e da un Senato (100 membri), ma nella realtà la macchina politica americana non
funzionerebbe senza quella che è chiamata la «terza camera», ovvero il sistema delle lobbies, o «gruppi di
pressione». Le lobbies, infatti, occupano un ruolo centrale nel funzionamento dell’apparato politico americano,
rimediando alle sue inefficienze: con i loro agenti, contribuiscono a indirizzare (se non addirittura a
influenzare) gli orientamenti del Congresso, ponendo all’attenzione dei legislatori questioni che interessano i
settori dell’economia e della società che rappresentano; raccolgono e forniscono quei capitali di cui deputati e
senatori hanno bisogno per affrontare campagne elettorali sempre più costose, e informano i legislatori su quanto
avviene nel collegio elettorale di loro competenza, procurando dati su situazioni particolari che riguardano la
popolazione o le imprese. Quest’ultima necessità è molto sentita al Senato dove, a causa dell’esiguo numero di
membri, ognuno degli eletti è chiamato a gestire una mole di lavoro che non riesce a seguire con la dovuta
attenzione, neanche con l’aiuto dello staff di assistenti. Mentre alla Camera ogni rappresentante partecipa al
massimo a una sottocommissione, ogni senatore è chiamato a sedere in almeno cinque di esse: e non è raro che il
legislatore abbia un’idea molto vaga delle questioni su cui deve esprimere il voto. Il senatore e il suo staff sono
dunque ben lieti di accettare le relazioni, le cifre e le statistiche che le lobbies hanno commissionato a esperti
del settore.

Il legame a filo doppio con i politici inserisce le lobbies in una zona grigia del sistema, dove il confine tra il
lecito e l’illecito è spesso molto labile. Del resto, dare un contributo finanziario alla campagna elettorale di un
uomo politico non è un reato, né lo è invitare un deputato o un senatore a pronunciare un discorso (e il disturbo è
pagato con un congruo onorario), né tantomeno dare fondi per la costruzione o l’ammodernamento di una scuola o di
un ospedale in un collegio elettorale. Lo stesso Primo emendamento del Bill of Rights specifica che il Congresso
«non farà nessuna legge che limiti […] il diritto […] a rivolgere suppliche al governo per riparare le
ingiustizie». E le suppliche possono essere rivolte durante cene in ristoranti di lusso, viaggi in una qualche
località esotica, partite di caccia o pesca – il lobbista di turno si occuperà sempre di pagare il conto.

Durante la prima metà dell’Ottocento, con l’espansione territoriale e la localizzazione della capitale a
Washington, lontana dai principali centri economici e commerciali della nazione, cittadini e imprenditori si
trovarono costretti a inviare nella capitale degli incaricati in loro vece per esporre lagnanze, ottenere
concessioni o modificare leggi. Vuole la tradizione che questi intermediari si riunissero nella lobby (atrio,
vestibolo) dell’Hotel Willard, un albergo dove alloggiavano deputati e senatori – appena questi facevano la loro
comparsa nella sala, gli agenti erano pronti ad assalirli e assillarli con le loro richieste. Ai mediatori fu così
appiccicato il nomignolo di lobby agent (attestato già dal 1829), e in breve tempo si diffonderà il verbo to lobby
per indicare l’esercizio di pressione su un corpo legislativo.

Dopo la Guerra civile e lo sviluppo economico che ne seguì, la professione del lobbista si raffinò ulteriormente.
Nacquero le prime associazioni di categoria, che impiegavano agenti a tempo pieno per promuovere e difendere i
propri interessi a Washington: una delle prime lobbies fu la National Rifle Association (Nra), che difende il
diritto di ogni cittadino a portare armi da fuoco (? Armi) e, nonostante le critiche che con regolarità le vengono
mosse, come in seguito al massacro di Columbine, è sempre riuscita a evitare che il Congresso approvasse leggi
troppo restrittive in materia. A questo periodo, risale anche l’affermarsi della regola delle «Tre B» (Broads,
booze and bribes = «Bambole, bottiglie e bustarelle») come strumenti più efficaci a disposizione dei lobbisti per
persuadere l’uomo politico di turno. Di certo ne fecero molto uso gli intermediari pagati dai magnati che ottennero
concessioni ferroviarie durante la Gilded Age a condizioni molto vantaggiose. In altre occasioni, la spinta giunse
da movimenti sostenuti da un ampio appoggio popolare, come durante la lunga battaglia condotta dalla Temperance
Society e dalla Anti-Saloon League e culminante nell’approvazione della legge che diede il via al Proibizionismo.
Una misura del potere conquistato dalla figura del lobbista la dà Artie Samish, agente che curava gli interessi di
vari produttori e distributori di birra e alcolici della California: tra il 1935 e il 1938, arrivò a percepire
commissioni di oltre 60mila dollari all’anno. In apparenza era solo uno dei cento «consulenti di pubbliche
relazioni» registrati presso il parlamento di Sacramento, capitale dello stato, ma la sua autorità lo rendeva di
fatto più potente del governatore.

Il Congresso, allarmato per l’enorme influenza che simili individui riuscivano a esercitare sulle decisioni
politiche, cercò di correre ai ripari creando regole precise per lo svolgimento della professione: l’iter di
approvazione del Lobbying Act del 1946 fu tuttavia condizionato dalle trame di agenti e associazioni (c’era forse
da dubitarne?) e ne uscì una misura annacquata che lasciava ai lobbisti ampi margini di manovra. Il testo
definitivo, se da un lato obbligava i lobbisti a registrarsi presso Camera e Senato, dichiarando per chi
lavoravano, quanto percepivano e a quanto ammontavano le spese sostenute, dall’altro limitava la propria validità a
individui e organizzazioni il cui «fine principale» era l’esercizio di influenza sul Congresso (dettaglio facile da
aggirare: bastava dire che il fine principale della propria attività era la promozione di una determinata causa), e
inoltre non si prevedeva l’istituzione di un organismo indipendente che controllasse la veridicità delle
dichiarazioni né i flussi di denaro. A partire dal secondo dopoguerra, a complicare un panorama già di per sé
alquanto articolato, comparvero lobbies che curavano gli interessi di clienti al di fuori degli Stati Uniti: a
questo strumento hanno spesso fatto ricorso capi di stato asiatici e africani noti per i metodi dittatoriali e
repressivi in politica interna, come il filippino Marcos e lo zairese Mobutu, i quali hanno sborsato milioni di
dollari per ammorbidire l’atteggiamento del Congresso nei loro confronti (persino il cartello dei narcotrafficanti
colombiani per un certo periodo ebbe un lobbista di Washington a libro paga).

L’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca segnò l’epoca d’oro per la professione del lobbista: l’amministrazione
dimostrò da subito un atteggiamento favorevole al big business, a vantaggio del quale approvò diverse misure
legislative. Le occasioni di contatto tra lobbies e uomini politici si moltiplicarono, il numero degli agenti
crebbe e aumentarono allo stesso modo stipendi e commissioni – e di riflesso anche le bustarelle. I lobbisti di
Washington raggiunsero un tenore di vita paragonabile ai brokers di Wall Street (?), segnalato dall’ostentazione di
automobili di lusso e capi di alta moda: l’appellativo «Gucci Gulch» (la «gola di Gucci»), espressione che indica
il muro umano di lobbysti che presidiavano il corridoio antistante la sala dove si riuniva la commissione per le
tasse, allude al fatto che gli abiti di sartoria italiana erano diventati una sorta di uniforme non ufficiale degli
intermediari.

Durante la presidenza Reagan si affermò anche un altro fenomeno, la revolving door (= porta girevole): una volta
finito il loro mandato, ex deputati e senatori vengono assunti da studi specializzati in lobbying, interessati alla
loro rete di conoscenze e alle entrature nel palazzo del potere, ovviamente dietro profumati compensi. Dal 1998 al
2005, per esempio, dei 198 membri del Congresso che si sono ritirati dalla politica, oltre il 43% si è poi
registrato come lobbista – gli stipendi per queste «ricercatissime» figure professionali si aggirano intorno ai
300mila dollari l’anno. Certo, bisogna mettere da parte la volontà del popolo e gli alti ideali e non farsi troppi
scrupoli per adattarsi alle esigenze di chi paga: come succede a Nick Naylor, protagonista del film di Jason
Reitman Thank You for Smoking (2005), lobbista che difende gli interessi dei produttori di tabacco e sigarette.

Come spesso succede, però, a volte la realtà supera di gran lunga la fantasia. Sempre negli anni ottanta del
Novecento, l’uomo d’affari Charles Keating, per bloccare l’inchiesta federale sulla banca Lincoln Savings, arrivò a
convincere cinque senatori a intervenire in suo favore. Quando, nel 1989, la Lincoln Savings fallì, l’intricata
rete di corruzione venne a galla, Keating venne condannato a dieci anni di carcere (nonostante Madre Teresa di
Calcutta, a cui l’uomo d’affari aveva donato somme consistenti, si fosse spesa per la clemenza), mentre i senatori
(bollati dalla stampa come i «Keating Five») se la cavarono con un rimprovero della Commissione etica. Venti anni
più tardi, fu il turno del lobbista Jack Abramoff, che aveva frodato alcune tribù di Native Americans rivoltesi a
lui con l’incarico di ottenere nuove licenze per i casinò che gestivano nelle riserve.

Come il lobbying, anche la pratica del caucus vanta origini antiche, che affondano le radici anche più lontano nel
tempo: fonti scritte attestano che già intorno al 1760 il padre di Samuel Adams e altri notabili di Boston avevano
l’abitudine di «riunirsi in caucus, e accordarsi su chi piazzare in posizioni di potere». L’etimologia appare
incerta: secondo alcuni, caucus deriva dai caulkers, artigiani che costruivano navi; altri propendono per il latino
caucus, un tipo di calice; altri ancora (e forse questa è l’origine più probabile) la fanno discendere dalla parola
algonkina caucausu, che indica gli anziani di una comunità. Le riunioni avvenivano in una sala privata di un locale
pubblico (una coffee house o un pub); nominato un moderatore, i partecipanti, tra pinte di birra e sigari,
discutevano per trovare un accordo sulle questioni all’ordine del giorno.

Per circa un ventennio, all’inizio dell’Ottocento, gli esponenti dei due partiti principali (federalista e
democratico-repubblicano), ricorsero al caucus per scegliere i candidati alla presidenza. All’epoca, ogni partito
presentava due pretendenti: i democratici-repubblicani, tutti d’accordo sul nome del leader Thomas Jefferson come
prima opzione, avevano idee diverse sul secondo candidato. Il partito organizzò un caucus per trovare un’intesa, e
la preferenza andò ad Aaron Burr.

Il «King caucus», come era stato soprannominato perché di fatto decideva chi avrebbe occupato la presidenza, durò
fino alle elezioni del 1824. Il Partito federalista si era dissolto, e il caucus dei democratici-repubblicani
scelse come candidato William H. Crawford. A sorpresa, questi non riuscì, nonostante le condizioni favorevoli, a
ottenere la maggioranza dei voti: fazioni interne al partito avevano espresso altri tre contendenti, e per nominare
il vincitore si dovette ricorrere a un voto del Congresso. Alla fine, la spuntò John Quincy Adams, figlio del
presidente John. Il fallimento del caucus convinse i leader delle varie fazioni a cambiare sistema, e soprattutto a
trovare un meccanismo più trasparente. Nacquero le conventions di partito (le prime si svolsero in occasione delle
elezioni del 1832), ma anche questo metodo non si dimostrò immune da manipolazioni.

Il caucus è sopravvissuto in varie forme, la più nota delle quali è quella che si tiene nello stato dello Iowa in
occasione delle elezioni primarie per la scelta dei delegati che, alle conventions dei partiti, scelgono il
candidato unico alla presidenza. Per l’occasione, lo stato è diviso in 1784 distretti. Gli elettori registrati in
ognuno di questi si riuniscono in un luogo prefissato (una palestra, una scuola, una biblioteca, a volte persino
un’abitazione privata), e danno il via alla votazione. I due partiti seguono procedure diverse. Nel caucus
repubblicano, in una prima fase i rappresentanti di ogni candidato presentano le diverse piattaforme politiche, e
poi gli elettori esprimono la propria preferenza su una scheda prestampata. I risultati vengono inviati al comitato
centrale, il quale poi provvede a fare i conteggi. Molto più pittoresco è il caucus democratico. Dopo la
presentazione dei pretendenti, gli elettori si raggruppano in diverse aree del locale in «gruppi di preferenza» che
sostengono uno dei candidati. Fatti i conti, sono considerati «eleggibili» solo quei candidati che hanno ottenuto
più del 15% delle preferenze, gli altri sono eliminati. Gli elettori di questi ultimi possono andare via oppure
unirsi a uno dei gruppi rimasti: a questo scopo, vengono dati trenta minuti di tempo prima di ripetere la
votazione, durante i quali i rappresentanti dei gruppi più votati cercano di ottenere l’appoggio degli elettori
rimasti senza candidato. Finita la votazione, a ogni candidato rimasto in gioco viene attribuito un numero di
delegati alla convention della contea in proporzione alle preferenze ottenute. I delegati scelti si riuniscono a
loro volta in caucus, seguendo la medesima procedura, ripetuta poi a livello del distretto e, infine, dello stato.

Anche nel caucus, dunque, si fa molto lobbying – e non è dato sapere se, anche in questo caso, i lobbisti
improvvisati facciano ricorso alle «Tre B».

BIBLIOGRAFIA

Massimo Franco, Lobby. Il parlamento invisibile, Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano 1988.

Hans Sperber, Travis Trittschuh (eds.), Dictionary of American Political Terms, McGraw-Hill, New York 1964.

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