AUSTRALIA. CONSERVATORI NUOVAMENTE AL GOVERNO
(22 Maggio 2019)
CANBERRA.
In Australia, i conservatori tornano al governo del Paese per un altro mandato: le tanto attese elezioni federali
del 18 maggio hanno decretato il successo della coalizione di centro-destra che conquista una maggioranza di tre
seggi nella nuova Camera.
Stando ai dati definitivi diffusi dalla Commissione elettorale, la coalizione composta dal partito Liberale e da
quello Nazionale, sostenuto soprattutto dagli agricoltori, avrà complessivamente 77 seggi sui 151 che compongono
l’assemblea: uno in più rispetto alla precedente legislatura; il Partito Laburista, all’opposizione dal 2013, che i
sondaggi della vigilia davano vincente, ne avrà 68 (uno in meno); altri sei posti son stati vinti da forze
politiche minori, tra cui i Verdi che disporranno di tre mandati.
Di conseguenza, il Primo Ministro uscente Scott Morrison sarà riconfermato in carica, mentre il leader
dell’opposizione Bill Shorten, a poche ore dalla fine delle operazioni di voto ha annunciato, rammaricato, le
dimissioni dal ruolo di capo del partito.
Da una parte, quindi, gioia per un risultato insperato, dall’altra delusione per un’ennesima sconfitta che apre la
strada ad una nuova contesa per la leadership con la possibilità che riemergano le divisioni che già hanno lacerato
il partito vicino ai sindacati.
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L’ASSETTO ISTITUZIONALE
Il Commonwealth of Australia nacque ufficialmente il 1° Gennaio 1901 dall’accordo pattuito dalle sei colonie
britanniche che si suddividevano il controllo del vasto territorio. New south Wales, Queensland, South Australia,
Tasmania, Victoria e Western Australia decisero di stendere una costituzione che permettesse la nascita d’uno stato
federale. La Gran Bretagna riconobbe all’amministrazione di Canberra il diritto di autogovernarsi a condizione che
il nuovo dominion conservasse forti legami con Londra. di conseguenza, L’Australia partecipò con proprie truppe,
tanto alla prima quanto alla Seconda guerra mondiale, subendo ingenti perdite. Negli anni Sessanta, quando ormai
l’impero britannico si era dissolto, Canberra allentò anche economicamente i propri legami col Regno Unito
sostituendo la Sterlina col dollaro, che gravitava nell’orbita della divisa statunitense. Anzi, l’amicizia con
Washington spinse i governanti australiani ad inviare un contingente militare in Vietnam, a fianco delle truppe
americane, com’era accaduto in Corea tra il 1950 ed il ’53.
Inoltre, parallelamente alla costituzione della SEATO, l’alleanza difensiva che riuniva i Paesi del sudest
Asiatico, amici dell’America, nel 1951 venne varata l’ANZUS, un’alleanza tripartita che univa Stati Uniti, Nuova
Zelanda ed Australia.
Sul piano interno, a ciascuno dei sei Stati membri della Confederazione fu riconosciuta un’ampia autonomia
legislativa: ad esempio, la Tasmania fino al 1997 considerava l’omosessualità un reato punibile col carcere. Il
governo centrale divenne competente per la politica estera e la difesa, mentre la Federal Reserve Bank
sovraintendeva all’emissione di carta moneta ed alla politica di difesa del tasso di cambio per favorire
l’industria d’esportazione.
Il Parlamento australiano rispecchiò questa struttura confederale prevedendo l’esistenza di due Camere parimenti
forti: il Senato difendeva gelosamente le prerogative degli Stati, la Camera si batteva per tutelare l’interesse
nazionale.
Il primo, formato da dodici membri per ognuno dei sei, a cui si aggiungono due senatori eletti dai due territori
autonomi, il Nord e la Capitale federale, ha il compito d’approvare i disegni di legge adottati dalla Camera, ma
può sollevare controversie e bloccare i progetti che non gradisce, anche perché la diversità del sistema elettorale
con cui è formato, come vedremo, può determinare una rivalità ideologica con l’altro ramo parlamentare.
Il Senato si rinnova ogni tre anni per metà circa dei suoi componenti: ad esempio il 18 maggio son stati eletti 40
senatori su 76.
Il vero motore politico della Nazione però è la Camera dei Rappresentanti, eletta ogni tre anni a suffragio
universale da tutti i cittadini australiani, con voto obbligatorio.
Sulla base del risultato delle elezioni della Camera, il governatore Generale che rappresenta a Canberra la Regina
Elisabetta II Windsor, Capo di Stato del Paese, nomina il Primo Ministro che può esser revocato da un voto di
sfiducia o può proporre al rappresentante della Sovrana l’indizione delle elezioni anticipate.
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I SISTEMI ELETTORALI.
In Australia, vige per l’elezione della Camera un sistema che è chiamato Alternative Vote (AV) che i
liberaldemocratici avrebbero voluto introdurre in Gran Bretagna nel 2011.
Il Paese, suddiviso in 151 circoscrizioni, elegge per ciascuna di esse un deputato: questi è il candidato che ha
conseguito la maggioranza assoluta, o col primo spoglio delle schede o mediante successivi conteggi eliminando
progressivamente i candidati meno votati e trasferendo i loro voti su quelli col maggior seguito. di conteggio in
conteggio si arriva così al ballottaggio finale fra i due nominativi più forti e vince chi supera la metà più uno
delle preferenze validamente espresse.
L’elettore sulla scheda attribuisce a ciascun candidato un numero che indica l’ordine di preferenza che gradisce e
dopo lo scrutinio della preferenza N. 1 si passa alla N. 2 e così via.
Per l’elezione dei senatori si utilizza il sistema del voto singolo trasferibile (STV): anche in questo caso
l’elettore scrive sulla scheda uno o più numeri indicando l’ordine di preferenza dei diversi nominativi in campo.
Di conteggio in conteggio si eliminano i candidati meno votati trasferendo i loro consensi su quelli con maggior
seguito, fino al punto di determinare i nomi degli eletti.
Questo sistema elettorale richiede lunghe procedure di spoglio che infatti si protrae per settimane.
Dal momento che votare è obbligatorio per tutti i maggiorenni, è ammesso il voto per posta sia per i residenti
all’estero, che per chi non può raggiungere la circoscrizione in cui è registrato.
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PARTITI LITIGIOSI.
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi la coalizione conservatrice ha retto il Paese per complessivi 42
anni, mentre per 26 sono stati in sella i laburisti. Il più lungo periodo di governo nazionalliberale è durato 23
anni: dal 1949 al ’72, mentre la più duratura amministrazione laburista ha resistito al potere 13 anni, dal 1983 al
’96. Tuttavia, nello stesso periodo che va dal 1945 ad oggi, ossia 74 anni, si sono succeduti 17 Primi Ministri,
alcuni molto longevi, altri messi da parte in poco tempo. Il più lungo premierato fu quello di sir robert Gordon
Menzies, liberale, in carica dal 1949 al ’66. Negli ultimi tredici anni però l’evanescenza dei governi si è fatta
cronica. Tra il 2007 ed il ’13 il partito laburista al potere fu dilaniato da continue contese tra i sostenitori di
Kevin Rudd e Julia Gillard che volentieri congiuravano l’uno contro l’altro rovesciandosi vicendevolmente. Tra il
’13 e il ’18 il conflitto interessò i Liberali provocando le crisi dei ministeri presieduti da Tony Abbott (2013-
15) e del suo acerrimo rivale Malcolm Turnbull (2015-18).
E’ il cosiddetto «spill»: la tendenza cioè dei parlamentari di secondo piano a far fuori il loro leader. secondo
una statistica elaborata nelle università australiane lo «spil» si è verificato 73 volte dal 1970 ad oggi, a
livello federale e statale.
Le ragioni che paiono all’origine di questa continua conflittualità sembrano esser le seguenti:
1. Il frequente ricorso ad elezioni locali, statali e federali fa sì che i politici pensino soprattutto al momento
del voto, per cui inseguono a tutti i costi la popolarità: appena è chiaro che un leader è giudicato inadeguato
dalle indagini demoscopiche che si succedono ossessivamente, i suoi colleghi di partito provano a sostituirlo con
chi possa attrarre maggiori consensi e garantire loro il posto in Parlamento alle elezioni successive.
Inoltre, i parlamentari che non occupano ruoli di primo piano sulla scena politica e mediatica, partecipando alle
congiure contro i leader finiscono per avere per qualche giorno una loro notorietà e forse anche qualche speranza
d’emergere dall’anonimato.
2. I partiti stessi sono delle coalizioni in perenne conflitto tra loro: ad esempio sia tra i laburisti che tra i
Liberali vi sono fazioni più conservatrici e vicine al mondo degli affari e fazioni più progressiste, sostenitrici
dei diritti civili.
3. La stessa struttura istituzionale favorisce la debolezza dei governi: in diverse circostanze Camera e Senato
entrano in conflitto e si paralizzano reciprocamente: ciò può determinare, come sancito dalla costituzione lo
scioglimento simultaneo di entrambe le assemblee e quindi l’inizio d’una nuova campagna elettorale.
4. Lo stato di campagna elettorale permanente fa sì che i gruppi d’interesse premano sui politici, a caccia di
voti, affinché ne favoriscano gli interessi con misure adeguate: così,come vedremo più avanti, l’industria del
carbone ha finora impedito che venissero adottati provvedimenti contro i cambiamenti climatici e per l’introduzione
della carbon tax.
5. Un forte condizionamento della scena politica nazionale è l’eccessiva concentrazione in poche mani della
proprietà dei mezzi di comunicazione di massa: la maggior parte di giornali e TV è di proprietà del magnate Rupert
Murdock, antimonarchico, ed ultraconservatore: questi non esita a gettare sul piatto della bilancia la propria
influenza.
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«THE LUCKY COUNTRY».
Nella mentalità generale della gente si è consolidata la convinzione che l’Australia sia, rispetto a tutti gli
altri, un «Paese fortunato»: l’origine di quest’espressione risale al 1964 quando Donald Horne pubblicò un libro
col titolo «The lucky Country». Nelle intenzioni dell’autore, spentosi nel 2005, quest’opera avrebbe dovuto
svegliare le coscienze.
Altri, però, hanno usato quest’espressione come definizione di base del Paese e come motivo di vanto: insomma, un
vero e proprio biglietto da visita.
Tanta di questa fortuna derivava allora dal boom minerario del dopoguerra: l’australia estraeva dalle proprie
miniere carbone, oro ed altre materie prime che esportava in giro per il mondo, soprattutto in Europa e negli Stati
Uniti, ricavandone denaro sonante. Anche l’agricoltura faceva la sua parte: domati i conigli che per oltre un
secolo avevano devastato le colture, i farmers producevano lana, grano e carne che partivano per i quattro angoli
del mondo, a sfamare le popolazioni uscite impoverite dal secondo conflitto mondiale.
L’Australia nel frattempo si riempiva di immigrati: prima di tutto dalla Gran Bretagna poi dall’europa meridionale:
greci, iugoslavi ed italiani affluivano, incoraggiati dalle autorità di Canberra che volevano ripopolare un Paese
deficitario sul piano demografico e bisognoso di manodopera. I governanti preferivano dei lavoratori di pelle
bianca, perciò incoraggiarono l’afflusso di europei a scapito dei vicini asiatici, visti con sospetto.
Nel 1973, tuttavia, il flusso migratorio dal vecchio continente s’affievolì, per cui il governo laburista di Edward
Gouth Whitlam, meno sospettoso verso chi proveniva dall’Asia, aprì le porte a cinesi, indonesiani, filippini,
indiani e così via.
Tutti costoro s’integrarono più o meno bene, ma gradualmente si fece strada nell’opinione pubblica, specialmente
presso le classi meno abbienti, il sospetto che i lavoratori provenienti dal sud Est asiatico portassero loro via
delle opportunità d’impiego. Il «pericolo giallo», alimentato ad arte dai gruppi di destra favorì il sorgere d’una
xenofobia che è stata abilmente agitata in tutte le campagne elettorali. E’ stato detto che l’Australia sarebbe
stata invasa da cinesi ed indiani e che il livello di benessere raggiunto sarebbe stato compromesso dall’afflusso
incontrollato di diseredati provenienti dal vicino continente.
In realtà, l’invasione non c’è stata, ma questo non vuol dire che le autorità non continuino ad inviare navi
militari a pattugliare i mari circostanti lo Stato-continente per bloccare i barconi di profughi e canberra ha
rinchiuso i richiedenti asilo in luoghi inospitali come le isole di nauru e Christmas da dove giungono documentate
denunce di brutalità e soprusi.
E’ la politica della «tolleranza zero» che è stata attuata da tutti i governi fin qui succedutisi, applicata
soprattutto a fini interni: la vittoria però dei conservatori ha spinto in questi giorni 94 profughi, rinchiusi nei
lager di Nauru a togliersi la vita. Costoro, riferiscono le cronache, avevano perso la speranza d’ottenere un
permesso di soggiorno su suolo australiano, vista la martellante campagna antistranieri condotta dal premier
uscente Morrison nelle settimane precedenti il voto.
Eppure, gli immigrati hanno costruito l’Australia moderna che è ormai uno Stato multietnico: se i migranti d’una
volta erano operai o muratori, i loro discendenti sono medici ed ingegneri nucleari. gli asiatici giunti negli anni
Settanta sono divenuti brillanti tecnici che hanno cooperato alla rivoluzione tecnologica che ha investito il Paese
e l’ha reso una delle avanguardie nel progresso dell’informatica e dell’elettronica.
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DISASTRI NATURALI, CARBONE E NEGAZIONISMO.
L’Australia è una nazione ricca: 27 anni senza mai entrare tecnicamente in recessione, battendo così il record di
26 anni degli olandesi. Il PIL pro capite è un po’ meno sfavillante: la popolazione, che oggi è di 25
milioni d’abitanti, è più che raddoppiata dagli anni Sessanta.
I quattro quinti di costoro vive in città o nei sobborghi ed occupa l’angolo sudorientale del territorio: il resto
dei 7,6 milioni di chilometri quadrati di superficie è deserto inospitale dove ci vuol del fegato ad abitarci.
occupando circa un decimo dell’intera superficie.
I pericoli per la gente sono ovunque, come racconta in un suo libro il giornalista americano Bill Bryson [1]:
squali in mare, serpenti velenosissimi sulla terra, coccodrilli nei laghi, incendi inestinguibili d’estate, cicloni
in autunno, siccità primaverili, alluvioni, gelo. Nel 1967 un Primo Ministro, Harold Holt, liberale, sparì in mare,
probabilmente vittima d’unvortice, mentre faceva il bagno ed il suo corpo non fu più ritrovato.
Nella società c’è una piccola fascia di ricchissimi e un sottoproletariato impoverito, ma c’è anche un enorme
e prospero ceto medio che di fatto decide le sorti politiche del Commonwealth. In questa media borghesia si sta
facendo strada la convinzione che l’Australia debba far qualcosa contro i cambiamenti climatici,ma la politica
nicchia perché teme di perdere l’appoggio dell’industria mineraria e degli agricoltori: secondo le statistiche, la
quota australiana nel mercato globale del carbone è più grande di quella dell’Arabia Saudita nel settore del
petrolio, quindi c’è una preoccupazione diffusa, alimentata dal consueto connubio di lobby, donazioni politiche e
scambi di favori. Ma è evidente che nell’industria del carbone non c’è futuro. Molti conservatori australiani
credono che ciò che è buono per l’industria del carbone sia buono per tutti i lavoratori, ma il 99,6% degli
australiani non lavora nell’industria estrattiva: in ogni caso il settore sta investendo una fortuna nell’acquisto
di camion robotizzati per sbarazzarsi della manodopera.»
E l’industria stessa sta abbandonando anche il governo: quando la multinazionale
Glencore ha annunciato dei tagli alla produzione del carbone a febbraio, nell’imminenza delle elezioni federali, i
ministri nazionalliberali si sono innervositi perché hanno temuto contraccolpi sul voto.
I cambiamenti climatici sono divenuti per la scena politica australiana paragonabili alla Brexit per quella
britannica: chi li tocca si distrugge e ciò vale anche per gli antinegazionisti.
I politici di quest’ultima generazione non hanno trovato il coraggio di dire al paese la verità, l’hanno negata
oltre ogni ragionevole dubbio e ne sono usciti con le ossa rotte.
L’Australia è stata sbeffeggiata per questo susseguirsi di premier: c’è chi non ritiene questo fenomeno così
negativo, se permetterà d’individuare presto o tardi un leader che trovi le parole giuste per parlare al Paese,
almeno prima che accada un disastro ambientale che apra gli occhi a tutti.
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PARADOSSI ED EMARGINAZIONE.
A quasi 120 anni dalla sua nascita, il Commonwealth of Australia è ancora preda dei suoi paradossi: non ha ancora
deciso di cambiare la propria bandiera, che reca in alto a sinistra l’emblema dell’Union Jack, retaggio della
dominazione britannica.
Continua a riconoscere come proprio Capo di Stato il sovrano regnante di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord: un
referendum che proponeva di convertire la nazione in una repubblica parlamentare fallì negli anni Novanta e da
allora nessuno ha voluto riproporre la questione all’ordine del giorno.
La festa nazionale, l’Australia Day che si celebra l’ultimo lunedì di gennaio, è uno schiaffo dato in faccia ai 140
mila Aborigeni che dal gennaio 1788, quando le navi britanniche sbarcarono alla Botany Bay il loro carico di
forzati hanno sofferto d’immensi soprusi, compresa la «caccia al nero», ossia l’uccisione senza motivo, come
accadeva agli Iloti nell’antica Sparta, di nativi ad opera dei coloni bianchi a cui tutto era consentito.
Oggi, gli Aborigeni sono ancora una minoranza ai margini della società, anche se i governi han chiesto scusa per
gli orrori del passato: tra di loro sono diffuse malattie e disoccupazione e l’alcolismo miete vittime.
I prossimi anni saranno decisivi per questo Paese: se riuscirà a guardare in faccia alla propria realtà sarà anche
in grado d’emanciparsi dalla sudditanza verso l’industria del carbone e della lobby dei coltivatori e potrà avviare
una seria politica di lotta al cambiamento climatico, se invece prevarrà il negazionismo e la xenofobia, crescerà
l’astio contro gli ambientalisti e i richiedenti asilo, tutti visti come minaccia al benessere.
PIER LUIGI GIACOMONI
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NOTA:
[1] Sull’Australia moderna si può leggere di Bill Bryson, In un paese bruciato dal sole, l’Australia, ed. Guanda,
Parma, 2001. Anche la romanziera australiana Colleen Mccullough (1937-2018), nota ai più per il volume «Uccelli di
rovo» ha pubblicato «L’altra parte del mondo», RCS Libri, 2001. Qui, attraverso la storia di richard morgan, il
titolo originale inglese è infatti «Morgan’s run», viene narrata la storia della colonizzazione biancha
dell’Australia.