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IL DISCORSO DELLE RIFORME
(27 Novembre 2016)

ROMA. Tra una settimana saremo chiamati ad esprimerci sulla riforma costituzionale approvata dal Parlamento in via
definitiva il 12 aprile scorso.

Quella deliberazione ha provocato il referendum di domenica prossima perché, malgrado tutte le promesse, la classe
dirigente di questo Paese non ha voluto raggiungere un accordo politico che permettesse di riformare la seconda
parte della Costituzione repubblicana, adottando il testo con la maggioranza dei due terzi, cosa che avrebbe reso
non necessario il ricorso al voto popolare.

Certo, giunti a questo punto, è inutile recriminare, eppure anche in un passato piuttosto recente, le camere son
state capaci d’operare significative modifiche alla nostra legge fondamentale, anche nella prima parte, con
maggioranze molto ampie.

Stavolta no: se volessimo qui ripercorrere tutto l’iter della riforma scopriremmo che nella nostra classe
dirigente, che a nostro avviso non è stata all’altezza della situazione e non ha compreso l’urgenza del
cambiamento, ci sono persone o forze politiche che hanno votato questa legge una, due, tre volte e forse più.

Ora questi partiti, credendo di vellicare i più bassi istinti della gente, oppure sperando di ribaltare situazioni
sgradite, assetti istituzionali non voluti o leadership di partito non desiderate, si schierano per il “no”,
dimostrando quindi la coerenza dei bambini che, a seconda di come tira il vento, cambiano idea.

Qual è stato, però, il punto di partenza di questo processo riformatore? Per quale motivo il governo Renzi e una
parte della sua maggioranza ha varato il progetto di legge di riforma costituzionale che, poi, successivamente ha
percorso tutto il complesso iter parlamentare?

Il punto d’origine è il discorso pronunciato il 22 aprile 2013 dal Presidente Giorgio Napolitano al momento di
prestar giuramento per la seconda volta come Capo dello Stato.

Il Presidente della Repubblica accettò d’esser rieletto, avendo peraltro già fatto sapere, urbi et orbi, di non
desiderare, anche per ragioni d’età e di salute, un secondo mandato, a condizione che le Camere facessero le
riforme politico-istituzionali attese da tempo e mai realizzate.

A beneficio di tutti, anche degli smemorati, riproduco qui il testo del discorso, decisamente irrituale, perché
solitamente i messaggi d’insediamento sono, appunto, interventi che cercano di puntare sull’orgoglio nazionale, non
son scritti per sferzare una classe dirigente inadempiente ed irresponsabile.

Peraltro, le parole di Napolitano per dieci mesi non ebbero seguito, malgrado gli applausi che le accolsero, che
parevan come una promessa, un giuramento, un dire “faremo, vedrai, ciò che ci chiedi!”
***
Signora Presidente,
onorevoli deputati, onorevoli senatori, signori delegati delle Regioni,

lasciatemi innanzitutto esprimere – insieme con un omaggio che in me viene da molto lontano alle istituzioni che
voi rappresentate – la gratitudine che vi debbo per avermi con così largo suffragio eletto Presidente della
Repubblica. E’ un segno di rinnovata fiducia che raccolgo comprendendone il senso,
anche se sottopone a seria prova le mie forze: e apprezzo in modo particolare che mi sia venuto da tante e tanti
nuovi eletti in Parlamento, che appartengono a una generazione così distante, e non solo anagraficamente, dalla
mia.

So che in tutto ciò si è riflesso qualcosa che mi tocca ancora più profondamente : e cioè la fiducia e l’affetto
che ho visto in questi anni crescere verso
di me e verso l’istituzione che rappresentavo tra grandi masse di cittadini, di italiani – uomini e donne di ogni
età e di ogni regione – a cominciare
da quanti ho incontrato nelle strade, nelle piazze, nei più diversi ambiti sociali e culturali, per rivivere
insieme il farsi della nostra unità nazionale.

Come voi tutti sapete, non prevedevo di tornare in quest’aula per pronunciare un nuovo giuramento e messaggio da
Presidente della Repubblica.
Avevo già nello scorso dicembre pubblicamente dichiarato di condividere l’autorevole convinzione che la non
rielezione, al termine del settennato, è “l’alternativa
che meglio si conforma al nostro modello costituzionale di Presidente della Repubblica”. Avevo egualmente messo
l’accento sull’esigenza di dare un segno
di normalità e continuità istituzionale con una naturale successione nell’incarico di Capo dello Stato.

A queste ragioni e a quelle più strettamente personali, legate all’ovvio dato dell’età, se ne sono infine
sovrapposte altre, rappresentatemi – dopo l’esito
nullo di cinque votazioni in quest’aula di Montecitorio, in un clima sempre più teso – dagli esponenti di un ampio
arco di forze parlamentari e dalla quasi
totalità dei Presidenti delle Regioni. Ed è vero che questi mi sono apparsi particolarmente sensibili alle
incognite che possono percepirsi al livello
delle istituzioni locali, maggiormente vicine ai cittadini, benché ora alle prese con pesanti ombre di corruzione e
di lassismo. Istituzioni che ascolto
e rispetto, Signori delegati delle Regioni, in quanto portatrici di una visione non accentratrice dello Stato, già
presente nel Risorgimento e da perseguire
finalmente con serietà e coerenza.
E’ emerso da tali incontri, nella mattinata di sabato, un drammatico allarme per il rischio ormai incombente di un
avvitarsi del Parlamento in seduta comune
nell’inconcludenza, nella impotenza ad adempiere al supremo compito costituzionale dell’elezione del Capo dello
Stato. Di qui l’appello che ho ritenuto
di non poter declinare – per quanto potesse costarmi l’accoglierlo – mosso da un senso antico e radicato di
identificazione con le sorti del paese.
La rielezione, per un secondo mandato, del Presidente uscente, non si era mai verificata nella storia della
Repubblica, pur non essendo esclusa dal dettato
costituzionale, che in questo senso aveva lasciato – come si è significativamente notato – “schiusa una finestra
per tempi eccezionali”. Ci siamo dunque
ritrovati insieme in una scelta pienamente legittima, ma eccezionale. Perché senza precedenti è apparso il rischio
che ho appena richiamato : senza precedenti
e tanto più grave nella condizione di acuta difficoltà e perfino di emergenza che l’Italia sta vivendo in un
contesto europeo e internazionale assai critico
e per noi sempre più stringente.

Bisognava dunque offrire, al paese e al mondo, una testimonianza di consapevolezza e di coesione nazionale, di
vitalità istituzionale, di volontà di dare
risposte ai nostri problemi : passando di qui una ritrovata fiducia in noi stessi e una rinnovata apertura di
fiducia internazionale verso l’Italia.
E’ a questa prova che non mi sono sottratto. Ma sapendo che quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha
rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie
di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità. Ne propongo una rapida sintesi, una sommaria rassegna.
Negli ultimi anni, a esigenze fondate
e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti – che si sono
intrecciate con un’acuta crisi finanziaria,
con una pesante recessione, con un crescente malessere sociale – non si sono date soluzioni soddisfacenti : hanno
finito per prevalere contrapposizioni,
lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi. Ecco che
cosa ha condannato alla sterilità o ad
esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento.
Quel tanto di correttivo e innovativo che si riusciva a fare nel senso della riduzione dei costi della politica,
della trasparenza e della moralità nella
vita pubblica è stato dunque facilmente ignorato o svalutato : e l’insoddisfazione e la protesta verso la politica,
i partiti, il Parlamento, sono state
con facilità (ma anche con molta leggerezza) alimentate e ingigantite da campagne di opinione demolitorie, da
rappresentazioni unilaterali e indiscriminate
in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono.
Attenzione : quest’ultimo richiamo che ho
sentito di dover esprimere non induca ad alcuna autoindulgenza, non dico solo i corresponsabili del diffondersi
della corruzione nelle diverse sfere della
politica e dell’amministrazione, ma nemmeno i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme.

Imperdonabile resta la mancata riforma della legge elettorale del 2005. Ancora pochi giorni fa, il Presidente Gallo
ha dovuto ricordare come sia rimasta
ignorata la raccomandazione della Corte Costituzionale a rivedere in particolare la norma relativa all’attribuzione
di un premio di maggioranza senza che
sia raggiunta una soglia minima di voti o di seggi.

La mancata revisione di quella legge ha prodotto una gara accanita per la conquista, sul filo del rasoio, di
quell’abnorme premio, il cui vincitore ha
finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza in Parlamento. Ed è un fatto, non certo
imprevedibile, che quella legge ha provocato
un risultato elettorale di difficile governabilità, e suscitato nuovamente frustrazione tra i cittadini per non
aver potuto scegliere gli eletti.

Non meno imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte
della Costituzione, faticosamente concordate
e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario.
Molto si potrebbe aggiungere, ma mi fermo qui, perché su quei temi specifici ho speso tutti i possibili sforzi di
persuasione, vanificati dalla sordità
di forze politiche che pure mi hanno ora chiamato ad assumere un ulteriore carico di responsabilità per far uscire
le istituzioni da uno stallo fatale.
Ma ho il dovere di essere franco : se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel
passato, non esiterò a trarne le conseguenze
dinanzi al paese.

Non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla
decisione netta e tempestiva per le
riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana.

Parlando a Rimini a una grande assemblea di giovani nell’agosto 2011, volli rendere esplicito il filo ispiratore
delle celebrazioni del 150° della nascita
del nostro Stato unitario : l’impegno a trasmettere piena coscienza di “quel che l’Italia e gli italiani hanno
mostrato di essere in periodi cruciali del
loro passato”, e delle “grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo”. E
aggiunsi di aver voluto così suscitare
orgoglio e fiducia “perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito
incerto. Questo ci dice la crisi che stiamo
attraversando. Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro l’Italia, con i suoi punti di forza e con le
sue debolezze, con il suo bagaglio di
problemi antichi e recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine strutturale, sociale e civile.”
Ecco, posso ripetere quelle parole di un anno e mezzo fa, sia per sollecitare tutti a parlare il linguaggio della
verità – fuori di ogni banale distinzione
e disputa tra pessimisti e ottimisti – sia per introdurre il discorso su un insieme di obbiettivi in materia di
riforme istituzionali e di proposte per
l’avvio di un nuovo sviluppo economico, più equo e sostenibile.

E’ un discorso che – anche per ovvie ragioni di misura di questo mio messaggio – posso solo rinviare ai documenti
dei due gruppi di lavoro da me istituiti
il 30 marzo scorso. Documenti di cui non si può negare – se non per gusto di polemica intellettuale – la serietà e
concretezza. Anche perché essi hanno
alle spalle elaborazioni sistematiche non solo delle istituzioni in cui operano i componenti dei due gruppi, ma
anche di altre istituzioni e associazioni
qualificate. Se poi si ritiene che molte delle indicazioni contenute in quei testi fossero già acquisite, vuol dire
che è tempo di passare, in sede politica,
ai fatti; se si nota che, specie in materia istituzionale, sono state lasciate aperte diverse opzioni su varii
temi, vuol dire che è tempo di fare delle
scelte conclusive. E si può, naturalmente, andare anche oltre, se si vuole, con il contributo di tutti.

Vorrei solo formulare, a commento, due osservazioni. La prima riguarda la necessità che al perseguimento di
obbiettivi essenziali di riforma dei canali
di partecipazione democratica e dei partiti politici, e di riforma delle istituzioni rappresentative, dei rapporti
tra Parlamento e governo, tra Stato
e Regioni, si associ una forte attenzione per il rafforzamento e rinnovamento degli organi e dei poteri dello
Stato. A questi sono stato molto vicino negli
ultimi sette anni, e non occorre perciò che rinnovi oggi un formale omaggio, si tratti di forze armate o di forze
dell’ordine, della magistratura o di
quella Corte che è suprema garanzia di costituzionalità delle leggi. Occorre grande attenzione di fronte a esigenze
di tutela della libertà e della sicurezza
da nuove articolazioni criminali e da nuove pulsioni eversive, e anche di fronte a fenomeni di tensione e disordine
nei rapporti tra diversi poteri dello
Stato e diverse istituzioni costituzionalmente rilevanti.

Né si trascuri di reagire a disinformazioni e polemiche che colpiscono lo strumento militare, giustamente avviato a
una seria riforma, ma sempre posto,
nello spirito della Costituzione, a presidio della partecipazione italiana – anche col generoso sacrificio di non
pochi nostri ragazzi – alle missioni
di stabilizzazione e di pace della comunità internazionale.

La seconda osservazione riguarda il valore delle proposte ampiamente sviluppate nel documento da me già citato, per
“affrontare la recessione e cogliere
le opportunità” che ci si presentano, per “influire sulle prossime opzioni dell’Unione Europea”, “per creare e
sostenere il lavoro”, “per potenziare l’istruzione
e il capitale umano, per favorire la ricerca, l’innovazione e la crescita delle imprese”.
Nel sottolineare questi ultimi punti, osservo che su di essi mi sono fortemente impegnato in ogni sede
istituzionale e occasione di confronto, e continuerò
a farlo. Essi sono nodi essenziali al fine di qualificare il nostro rinnovato e irrinunciabile impegno a far
progredire l’Europa unita, contribuendo a
definirne e rispettarne i vincoli di sostenibilità finanziaria e stabilità monetaria, e insieme a rilanciarne il
dinamismo e lo spirito di solidarietà,
a coglierne al meglio gli insostituibili stimoli e benefici.

E sono anche i nodi – innanzitutto, di fronte a un angoscioso crescere della disoccupazione, quelli della creazione
di lavoro e della qualità delle occasioni
di lavoro – attorno a cui ruota la grande questione sociale che ormai si impone all’ordine del giorno in Italia e
in Europa. E’ la questione della prospettiva
di futuro per un’intera generazione, è la questione di un’effettiva e piena valorizzazione delle risorse e delle
energie femminili. Non possiamo restare
indifferenti dinanzi a costruttori di impresa e lavoratori che giungono a gesti disperati, a giovani che si
perdono, a donne che vivono come inaccettabile
la loro emarginazione o subalternità.

Volere il cambiamento, ciascuno interpretando a suo modo i consensi espressi dagli elettori, dice poco e non porta
lontano se non ci si misura su problemi
come quelli che ho citato e che sono stati di recente puntualizzati in modo obbiettivo, in modo non partigiano.
Misurarsi su quei problemi perché diventino
programma di azione del governo che deve nascere e oggetti di deliberazione del Parlamento che sta avviando la sua
attività. E perché diventino fulcro
di nuovi comportamenti collettivi, da parte di forze – in primo luogo nel mondo del lavoro e dell’impresa – che
“appaiono bloccate, impaurite, arroccate
in difesa e a disagio di fronte all’innovazione che è invece il motore dello sviluppo”. Occorre un’apertura nuova,
un nuovo slancio nella società ; occorre
un colpo di reni, nel Mezzogiorno stesso, per sollevare il Mezzogiorno da una spirale di arretramento e
impoverimento.

Il Parlamento ha di recente deliberato addirittura all’unanimità il suo contributo su provvedimenti urgenti che al
governo Monti ancora in carica toccava
adottare, e che esso ha adottato, nel solco di uno sforzo di politica economico-finanziaria ed europea che meriterà
certamente un giudizio più equanime,
quanto più si allontanerà il clima dello scontro elettorale e si trarrà il bilancio del ruolo acquisito nel corso
del 2012 in seno all’Unione europea.

Apprezzo l’impegno con cui il movimento largamente premiato dal corpo elettorale come nuovo attore politico-
parlamentare ha mostrato di volersi impegnare
alla Camera e al Senato, guadagnandovi il peso e l’influenza che gli spetta : quella è la strada di una feconda,
anche se aspra, dialettica democratica
e non quella, avventurosa e deviante, della contrapposizione tra piazza e Parlamento. Non può, d’altronde, reggere
e dare frutti neppure una contrapposizione
tra Rete e forme di organizzazione politica quali storicamente sono da ben più di un secolo e ovunque i partiti.

La Rete fornisce accessi preziosi alla politica, inedite possibilità individuali di espressione e di intervento
politico e anche stimoli all’aggregazione
e manifestazione di consensi e di dissensi. Ma non c’è partecipazione realmente democratica, rappresentativa ed
efficace alla formazione delle decisioni
pubbliche senza il tramite di partiti capaci di rinnovarsi o di movimenti politici organizzati, tutti comunque da
vincolare all’imperativo costituzionale
del “metodo democratico”.

Le forze rappresentate in Parlamento, senza alcuna eccezione, debbono comunque dare ora – nella fase cruciale che
l’Italia e l’Europa attraversano – il
loro apporto alle decisioni da prendere per il rinnovamento del paese. Senza temere di convergere su delle
soluzioni, dal momento che di recente nelle
due Camere non si è temuto di votare all’unanimità. Sentendo voi tutti – onorevoli deputati e senatori – di far
parte dell’istituzione parlamentare non
come esponenti di una fazione ma come depositari della volontà popolare. C’è da lavorare concretamente, con
pazienza e spirito costruttivo, spendendo e
acquisendo competenze, innanzitutto nelle Commissioni di Camera e Senato. Permettete che ve lo dica uno che entrò
qui da deputato all’età di 28 anni e
portò giorno per giorno la sua pietra allo sviluppo della vita politica democratica.

Lavorare in Parlamento sui problemi scottanti del paese non è possibile se non nel confronto con un governo come
interlocutore essenziale sia della maggioranza
sia dell’opposizione. A 56 giorni dalle elezioni del 24-25 febbraio – dopo che ci si è dovuti dedicare all’elezione
del Capo dello Stato – si deve senza
indugio procedere alla formazione dell’Esecutivo. Non corriamo dietro alle formule o alle definizioni di cui si
chiacchiera. Al Presidente non tocca dare
mandati, per la formazione del governo, che siano vincolati a qualsiasi prescrizione se non quella voluta dall’art.
94 della Costituzione : un governo
che abbia la fiducia delle due Camere. Ad esso spetta darsi un programma, secondo le priorità e la prospettiva
temporale che riterrà opportune.
E la condizione è dunque una sola : fare i conti con la realtà delle forze in campo nel Parlamento da poco eletto,
sapendo quali prove aspettino il governo
e quali siano le esigenze e l’interesse generale del paese. Sulla base dei risultati elettorali – di cui non si può
non prendere atto, piacciano oppur
no – non c’è partito o coalizione (omogenea o presunta tale) che abbia chiesto voti per governare e ne abbia avuti
a sufficienza per poterlo fare con le
sole sue forze. Qualunque prospettiva si sia presentata agli elettori, o qualunque patto – se si preferisce questa
espressione – si sia stretto con i propri
elettori, non si possono non fare i conti con i risultati complessivi delle elezioni. Essi indicano tassativamente
la necessità di intese tra forze diverse
per far nascere e per far vivere un governo oggi in Italia, non trascurando, su un altro piano, la esigenza di
intese più ampie, e cioè anche tra maggioranza
e opposizione, per dare soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale.

D’altronde, non c’è oggi in Europa nessun paese di consolidata tradizione democratica governato da un solo partito
– nemmeno più il Regno Unito – operando
dovunque governi formati o almeno sostenuti da più partiti, tra loro affini o abitualmente distanti e perfino
aspramente concorrenti.

Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni,
convergenze tra forze politiche diverse, è
segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le
complesse problematiche del governare
la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze
politiche. O forse tutto questo è più concretamente
il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione – fino allo smarrimento dell’idea stessa di convivenza civile
– come non mai faziosa e aggressiva,
di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti.
Lo dicevo già sette anni fa in quest’aula, nella medesima occasione di oggi, auspicando che fosse finalmente vicino
“il tempo della maturità per la democrazia
dell’alternanza” : che significa anche il tempo della maturità per la ricerca di soluzioni di governo condivise
quando se ne imponga la necessità. Altrimenti,
si dovrebbe prendere atto dell’ingovernabilità, almeno nella legislatura appena iniziata.

Ma non è per prendere atto di questo che ho accolto l’invito a prestare di nuovo giuramento come Presidente della
Repubblica. L’ho accolto anche perché
l’Italia si desse nei prossimi giorni il governo di cui ha bisogno. E farò a tal fine ciò che mi compete : non
andando oltre i limiti del mio ruolo costituzionale,
fungendo tutt’al più, per usare un’espressione di scuola, “da fattore di coagulazione”. Ma tutte le forze politiche
si prendano con realismo le loro responsabilità
: era questa la posta implicita dell’appello rivoltomi due giorni or sono.

Mi accingo al mio secondo mandato, senza illusioni e tanto meno pretese di amplificazione “salvifica” delle mie
funzioni ; eserciterò piuttosto con accresciuto
senso del limite, oltre che con immutata imparzialità, quelle che la Costituzione mi attribuisce. E lo farò fino a
quando la situazione del paese e delle
istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno. Inizia oggi per me questo non previsto
ulteriore impegno pubblico in una fase di vita
già molto avanzata ; inizia per voi un lungo cammino da percorrere, con passione, con rigore, con umiltà. Non vi
mancherà il mio incitamento e il mio augurio.

Viva il Parlamento! Viva la Repubblica! Viva l’Italia!

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