PRIME CONDANNE PER LE PROTESTE DI GEZI PARK
(24 ottobre 2015).
ISTANBUL. Ricordate la protesta di Gezi Park?
Nel maggio 2013 a Gezi Park (Istanbul) migliaia di persone protestarono pacificamente, occupando piazza Taksim, contro la decisione delle autorità di costruire al posto del parco un centro commerciale.
Le manifestazioni coinvolsero persone di diversa età ed estrazione politica, ma finirono per caratterizzarsi come il primo segnale d’un’opposizione più o meno organizzata contro il regime islamista di Recep Tayyip Erdogan.
La reazione del governo centrale fu durissima: le squadre antisommossa impiegarono per la repressione dei manifestanti metodi ai limiti della legalità.
Si fece uso massiccio di spray al peperoncino su persone inermi, lanci di gas lacrimogeno ad altezza d’uomo e l’aggiunta di urticanti all’acqua dei TOMA, i camion muniti di idranti.
Numerosissimi furono anche gli arresti: non meno di 900 persone, secondo un rapporto governativo, furono fermate in 48 province del Paese.
Tra questi anche avvocati e medici che assistevano i manifestanti.
Ieri, 23 ottobre, il tribunale di Istanbul ha emesso le prime condanne per 255 arrestati.
agl’imputati – tra cui anche sette stranieri – sono state inflitte pene che vanno dai due ai 14 mesi di prigione,
mentre la pubblica accusa aveva chiesto fino a 12 anni di reclusione.
Tra le imputazioni figurano il danneggiamento di luogo di culto, il ferimento di dipendenti pubblici, il dirottamento di veicoli del trasporto pubblico e la protezione di criminali. Quest’ultima accusa è costata il carcere anche a quattro medici, colpevoli di aver soccorso i manifestanti nella moschea di Dolmabahce in cui un gruppo di persone aveva trovato riparo dalle violenze della polizia.
Dottori e pazienti sono stati inoltre accusati di aver “inquinato” la suddetta moschea, con Erdogan che li biasimava per essere entrati nel luogo di culto “con le scarpe e bevendo birra”, mentre l’imam della moschea, testimone degli eventi, negava categoricamente le accuse dell’allora primo ministro.
Si chiude qui il lungo processo, iniziato un anno e mezzo fa, che non ha avuto un uguale esempio nei confronti delle forze dell’ordine. Lo denunciava Amnesty International già lo scorso anno, in occasione dell’anniversario delle manifestazioni di Gezi Park: “Le autorità turche – aveva dichiarato Salil Shetty, segretario generale dell’organizzazione – non hanno mai cessato il loro giro di vite sui manifestanti – che si tratti di violenza della polizia nelle strade o della loro persecuzione attraverso i tribunali. Nel frattempo la polizia gode di totale impunità. Il messaggio è chiaro: le manifestazioni pacifiche non saranno tollerate”.
“Ottomila persone sono rimaste ferite durante le proteste – si legge nel report di Amnesty dal titolo “Aggiungere l’ingiustizia al danno: Gezi Park un anno dopo”- e almeno quattro sono morte come risultato diretto della violenza della polizia, ma le indagini sugli abusi delle forze di sicurezza sono state bloccate, ostacolate o chiuse. Solo cinque azioni penali distinte sono state intraprese contro gli agenti antisommossa fino ad oggi. In netto contrasto, più di 5.500 persone sono passibili di pena per l’organizzazione, la partecipazione o il sostegno alle proteste di Gezi Park. Molti sono sotto processo per non aver fatto altro che esercitare pacificamente il loro diritto alla libertà di riunione. Gli organizzatori della protesta vengono perseguiti per “la fondazione di un’organizzazione criminale”, mentre i più sono stati accusati di reati di terrorismo privi di fondamento”.
L’unico tentativo d’inquisire elementi della polizia fu condotto
dal giudice Mehmet Selim Kiraz, che per quattro mesi era stato titolare dell’inchiesta sulla morte di Berkin Elvan, il quindicenne colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno, nel giugno 2013, morto dopo 9 mesi di coma. Kiraz era riuscito a ottenere i nomi di tre poliziotti presenti sul luogo del ferimento mortale di Berkin Elvan e lottava contro l’insabbiamento delle indagini sulle violenze della polizia nei disordini di piazza Taksim. Lo scorso primo aprile è stato sequestrato a Istanbul da militanti del Dhkp-C ed è rimasto ucciso nell’assalto delle forze di sicurezza turche .
Questa sentenza cade ad una settimana dalle elezioni legislative del 1° Novembre nelle quali i turchi, per la seconda volta in quest’anno, dovranno eleggere la Grande Assemblea Nazionale.
Le elezioni sono state convocate a fine agosto dopo che erano scaduti i termini di 45 giorni per la formazione del nuovo governo, a seguito dello scrutinio del 7 giugno.
In esso, come si ricorderà l’AKP, il partito di erdogan, ha perso la maggioranza assoluta in Parlamento e il partito dei curdi ha superato lo sbarramento del 10% ed ha eletto 82 deputati nella Camera di Ankara.
Gli ultimi sondaggi prevedono che dalle urne esca un quadro politico simile a quello del 7 giugno, ma la campagna elettorale è stata caratterizzata da un’escalation di violenza.
A fine estate Ankara ha ripreso le armi contro i curdi del PKK, mentre ancora non è chiaro chi stia dietro al terribile attentato del 10 ottobre scorso in cui han perso la vita oltre 100 persone dilaniate da una serie di esplosioni mentre eran in manifestazione nella capitale.
La Turchia di Erdogan è poi al centro della questione dei migranti: dal territorio turco, infatti, passano i rifugiati mediorientali che poi intraprendon la strada verso l’Europa centrale.
In questo complessissimo quadro, s’innesta la decisione presa dai leaders europei di riavviare le trattative per l’ingresso di Ankara nell’UE. E’ evidente il tentativo d’evitare che il Paese della Mezzaluna sia risucchiato nella spirale dell’islamismo radicale e divenga un avamposto di Daesh.
E’ anche evidente il tentativo di far capire ad Erdogan che la turchia è un partner importante per l’Occidente nella nevralgica area mediorientale.
PIERLUIGI GIACOMONI