TURCHIA. MALGRADO TUTTO ERDOGAN VINCE ANCORA
(12 Giugno 2023)
ANKARA. Malgrado tutto, Recep Tayyip Erdogan vince ancora e la coalizione composta dall’AKP ed altri partiti d’estrema destra, conseguono la maggioranza assoluta nella Grande Assemblea Nazionale, il parlamento unicamerale turco.
Già al primo turno delle presidenziali, il 14 Maggio, si era capito che Erdogan aveva il sostegno popolare per aggiudicarsi la prima magistratura dello Stato: a scrutinio completato in poche ore, il Presidente aveva raccolto il 49,51% dei voti, mentre il suo rivale, Kemal Kiliçdaroglu, si era fermato al 44,88%.
Al secondo turno (28 Maggio), Erdogan ha mantenuto il vantaggio di circa 5 punti percentuali registratosi due settimane prima, ottenendo il 52,18% contro il 47,82% del suo avversario.
La rimonta, auspicata dagli oppositori, non si è verificata: tra l’altro, l’elettorato turco ha dimostrato un grande attaccamento al voto. Il 14 maggio aveva votato l’88,5% del totale, due settimane dopo l’85%.
Nelle contestuali elezioni legislative, la coalizione che sostiene Erdogan ha conseguito 322 seggi sui 600 che compongono la camera, contro 278 delle opposizioni.
L’AKP (Adalet ve Kalkinma Partisi), pur avendo raccolto solo il 35,61% dei voti si è aggiudicato 268 mandati, staccando il Partito Repubblicano del Popolo (CHP, Cümhüriyet Halk Partisi), erede della politica laica di Kemal Atatürk, di 100 seggi.
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SONDAGGI SBAGLIATI
alla vigilia delle elezioni presidenziali, la stragrande maggioranza degli osservatori internazionali, basandosi sui sondaggi condotti dalle agenzie demoscopiche, avevano previsto o l’elezione di Kiliçdaroglu al primo turno o un ballottaggio a lui favorevole.
In realtà, quelle previsioni si son rivelate errate.
Molto correttamente, su La Stampa del 15 Maggio, Nathalie Tocci, dell’Istituto affari Internazionali riconosce di non aver capito nulla: Erdogan, al potere ininterrottamente da vent’anni, ha creato una coalizione che unisce nazionalismo panturanico e conservatorismo religioso. La Turchia, osserva tocci, ha riacquistato un orgoglio nazionale e un’identità che probabilmente aveva perso nei decenni precedenti.
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CRISI SENZA PRECEDENTI
Malgrado il successo riportato, il rieletto presidente deve affrontare una crisi economica che i commentatori definiscono senza precedenti.
Responsabile di questo tracollo economico è proprio lui, il Reis, come lo chiamano i suoi estimatori: «In nessun altro paese – scrive thomas Fuster[1] – la necessità di
una banca centrale indipendente
dalla politica è più evidente che in
Turchia. Il presidente Recep Tayyip
Erdogan, infatti, da anni si sente obbligato
a intervenire direttamente nelle questioni
di politica monetaria. E ogni volta le conseguenze sono devastanti.»
Quasi dappertutto, di fronte all’inflazione, le banche centrali alzano i tassi d’interesse per difendere il cambio della moneta: han agito così, di recente, la Fed statunitense e la BCE. La banca centrale turca non può farlo perché il Presidente non vuole. Erdogan infatti impone che il principale istituto d’emissione tenga bassi i tassi d’interesse per non danneggiare l’economia.
Risultato: in due anni la Lira ha perso il 60% del suo valore; l’inflazione galoppa al 44% su base annua; le riserve in valuta pregiata si vanno pericolosamente assottigliando dal momento che ankara deve importare molto di ciò che consuma, pagandolo in dollari o euro.
I mercati han celebrato, si fa per dire, la rielezione del Reis con un’ulteriore svalutazione della Lira: ciò significa,dicono i commentatori, che molti capitali se ne sono andati da un’altra parte.
Il Presidente avrà bisogno di denaro, almeno 100 miliardi di dollari, per la ricostruzione nelle zone della turchia sud-orientale devastata dal terremoto del 6 febbraio e quindi dovrà chiedere prestiti.
Intanto i prezzi dei prodotti di prima necessità salgono e gli aumenti concessi da Erdogan nell’ultima fase della campagna elettorale (aumento degli stipendi del personale pubblico e prepensionamento per oltre 2 milioni di turchi) non compensano il rincaro e scavano un ulteriore buco nella finanza pubblica.
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RECEP TAYYIP ERDOGAN
Chi è quest’uomo che da vent’anni domina incontrastato la scena politica turca? Lasciamo la parola a Marta Ottaviani[2] che ne traccia un bel profilo:
«Quella di Recep Tayyip Erdogan, figlio di un capitano della guardia costiera turca e di una casalinga, sembra quasi la storia di un predestinato. Il padre, uomo severo e inflessibile, gli proibisce di iniziare la carriera come calciatore professionista, per la quale l’allora futuro giovane presidente era molto portato. A Recep non rimane altro che buttarsi su quella che è l’altra sua grande passione: la politica. Inizia nelle schiere del Movimento per la Salvezza nazionale, una formazione islamista con una forte vena anticomunista. Nel 1983 approda al Refah Partisi, il Partito islamico del Benessere, dove incontra colui che diventerà il suo padre politico. Si tratta di Necmettin Erbakan, il capo indiscusso della destra islamica turca, di fatto uomo dei Fratelli musulmani nella Mezzaluna. Gli anni passano, e il giovane Erdogan conquista tutti con il suo carisma e le capacità oratorie. Nel 1994, a 40 anni, diventa il sindaco di Istanbul, ma appena due anni dopo, nel 1998, deve rinunciare al suo ruolo perché lo sbattono in galera per incitazione all’odio religioso. Sono anni pericolosi per i movimenti islamisti in Turchia.
I militari e la magistratura, apparati nelle salde mani dei laici, sono fieri custodi del Paese fondato da Mustafa Kemal Atatürk, sul modello di quelli occidentali. L’esperienza segna Erdogan nel profondo. Il futuro presidente capisce che, se vuole affermare l’islam politico nel Paese, deve operare in altro modo. Nel 2000 fonda con altri due l’Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, liberista in economia e liberale nei costumi. In poco tempo, il «reis», ossia il capo, come lo chiamano tutti nella sua cerchia, conquista molti dentro e fuori la Turchia. A Bruxelles, in molti lo idolatrano, convinti di aver trovato un partner forte e affidabile, anche grazie ai grandi risultati in campo economico.
L’idillio, anche per cecità della Ue, dura poco meno di un decennio. Erdogan viene puntualmente rieletto con percentuali plebiscitarie. Ma le accuse di repressione della stampa indipendente aumentano. Nel 2009, con l’arrivo di Ahmet Davutoglu al ministero degli Esteri, Ankara inaugura una politica estera sempre più assertiva, spesso in contrasto con quella della Ue. Il premier, da modello per il Medio Oriente, con riferimento alle primavere arabe, si trasforma in leader sempre più autoritario e la Turchia, da asset per il Vecchio Continente, a mina impazzita nel Mediterraneo, ma sempre con un’economia che fa gola ai partner europei. Il 2013 è l’anno in cui Erdogan cala la maschera. La rivolta di Gezi Park, alla quale prendono parte tre milioni di persone in tutto il Paese, viene sedata con la forza dopo oltre un mese. Da quel momento, il Paese non sarà più lo stesso. Nel 2014, Erdogan diventa il primo presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo. Nel 2016 un tentativo di golpe, su cui pesano molti sospetti, presta il fianco al presidente per dare il via a una caccia alle streghe mai vista nemmeno ai tempi dei militari.
Nel 2017, in mezzo a polemiche sui brogli che piovono da ogni parte, la Turchia cambia sistema di governo e diventa una Repubblica presidenziale forte, con praticamente tutti i poteri nelle mani del presidente. La guerra in Ucraina e la trattativa sul grano hanno consacrato la Porta dell’Oriente come player globale e il suo presidente come un leader in grado di ispirare in senso anti-occidentale non solo i turchi, ma anche le comunità musulmane all’estero.»
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UN SECOLO DI TURCHIA
Il 29 Ottobre la Turchia celebrerà i cent’anni dalla fondazione della repubblica: dopo la fine della prima guerra mondiale (1914-18) si dissolve l’antico impero ottomano. L’ultimo sultano Maometto VI è deposto ed il paese sceglie la forma repubblicana. Nei decenni successivi avverranno altri mutamenti territoriali, ma il Paese rimane bicontinentale, cioè eurasiatico.
Il suo leader Mustafa Kemal (1881 – 1938) impone un regime autoritario ed attua una serie imponente di riforme dall’alto: riscrittura delle leggi mediante la copiatura delle norme in vigore in diversi paesi occidentali, rigorosa separazione dello stato dalla religione, riforma della lingua, introduzione dell’alfabeto latino, introduzione dei cognomi e d’un nuovo modo di vestire.
Atatürk, così si fa chiamare, introduce quell’ideologia che innerva la politica turca fin ai giorni di Erdogan.
Nel corso della seconda guerra mondiale ankara rimane neutrale e con la fondazione della NATO vi aderisce soprattutto in funzione antigreca e anticomunista. I militari, vero ganglio dello Stato, intervengono più volte sulla scena politica con diversi putsch. L’ultimo, il 12 settembre 1980 pone fine ad anni di violenza politica con omicidi di giornalisti, intellettuali e uomini politici. fin al 1989 il potere è nelle mani degli uomini in divisa, poi, col loro permesso, tornano al potere i civili. Negli anni 90 la Turchia conosce un certo sviluppo economico che rafforza le sue ambizioni di divenire un paese membro dell’UE, ma diversi governi occidentali sono fondamentalmente contrari. così le trattative si arenano e dal 2005 son in un binario morto.
E’ sicuramente per questo che Erdogan, salito al potere nel 2002 abbandona la linea proeuropea per approdare su posizioni panturaniche e si avvicina progressivamente a quel mondo asiatico che si esprime con lingue imparentate col turco.
Erdogan, beninteso, rimane membro della NATO, ma rivolge i propri sguardi al Medio Oriente e all’Africa.
In Siria, approfittando della guerra che sconvolge quel paese arabo dal 2011, ankara amplia la sua area d’influenza impossessandosi delle sorgenti di tigri ed eufrate e realizzando una diga che convoglia le proprie acque nella mezzaluna; inoltre ankara per qualche tempo stringe amicizia con Israele, poi però volge la propria attenzione verso le monarchie del Golfo al fine d’attrarre investimenti ed ottenere idrocarburi a costi più bassi.
In Africa estende la propria influenza a tutto il continente, in particolare apre 43 ambasciate ed entra nei conflitti interni che dilaniano Libia e Somalia.
Con l’Europa il rapporto è dialettico: nel 2015 accetta di tenere sul proprio territorio milioni di rifugiati siriani e di altri paesi mediorientali, mercé il pagamento da parte di Bruxelles di 6 miliardi di euro.
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In questo complesso quadro geostrategico la Turchia e il suo leader sono al centro d’un groviglio d’interessi enorme.
Su cosa si basa il consenso di cui gode Erdogan?
«La risposta – scrive Giorgio Ferrari[3] – risiede nell’intramontato nazionalismo turco, che Erdogan ha ammantato di un velo religioso, ammaliando sia la classe media che nei vent’anni del suo potere si è arricchita, sia la grande vandea anatolica, che nel rais ha riconosciuto il condottiero di cui ha perdurante bisogno. Ma soprattutto con Erdogan la Turchia si è rimessa al centro di un grande gioco regionale, dialogando e scontrandosi con tutti i potentati, da quelli mediorientali, […] a quelli africani, […] fino alle superpotenze mondiali (l’America, la Cina, la Russia), per finire con l’Europa (pensiamo solo ai quasi 4 milioni di rifugiati siriani che Erdogan trattiene in patria facendo pagare un conto salatissimo alla Ue).
L’altra parte del perdurare del consenso è dovuta invece a Erdogan stesso e alla sua stupefacente capacità di porsi al crocevia di ogni crisi: da Trump a Biden, dalla Merkel a Scholz, a Netanyahu, da Bin Salman ai cinesi, fino al rapporto diretto e controverso con Vladimir Putin (una spericolata equidistanza fra Mosca e Kiev, non priva di successi come l’accordo sul grano). Tutto ciò fa di lui una pedina strategica. E soprattutto lo riconferma come leader.
Astuto, calcolatore, spietato, ma ben sempre un leader. […] E in questi tempi calamitosi occorrono nostro malgrado dei leader, anche se sono i peggiori che abbiamo.»
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IL KURDISTAN
Lo Stato turco però ha un nemico che funge frequentemente da capro espiatorio: i curdi. Su oltre 80 milioni d’abitanti i curdi sono 15 milioni (circa il 20%della popolazione). fin ai primi anni Duemila era proibito parlare in curdo in pubblico ed anche dopo sono state approvate misure fortemente repressive. i partiti curdi sono stati messi più volte fuori legge e i deputati curdofoni arrestati. dal 2016 il leader del partito del popolo curdo HDP è in prigione senza processo. Ankara accusa i curdi di sostenere la lotta del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), organizzazione considerata terroristica.
Periodicamente i villaggi curdi sono bombardati dall’aviazione turca. La presenza di questa popolazione è sempre stata un’ossessione dei governi turchi che si son sempre rifiutati di accordare a quest’importante gruppo etnico quei diritti e quelle garanzie che normalmente nelle democrazie vengon riconosciute alle minoranze.
Per questi ed altri motivi la Turchia continuerà ad essere anche in futuro un paese osservato molto da vicino perché da un lato è un partner indispensabile per molti, occidentali compresi, dall’altro c’è il timore che il regime al potere ad Ankara accentui ulteriormente il suo autoritarismo trasformandosi in vera e propria dittatura d’un uomo, Erdogan, e d’un partito, l’AKP, ambedue in declino di consensi, ma ancora molto forti.
PIER LUIGI GIACOMONI
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NOTE:
[1] Th. Fuster, TURCHIA. La folle politica monetaria di Erdogan, da Neue Zürcher Zeitung, in Internazionale N. 1432, 22 Ottobre 2021;
[2] M. Ottaviani, La prigione, la rinascita islamica e quel «golpe» con troppi misteri, avvenire.it, 30 maggio 2023;
[3] G. Ferrari, IL «SIGNOR NO» DELLA NATO E ANTI-EUROPEO CHE INSINUA I DUBBI TRA GLI OCCIDENTALI, avvenire.it, 30 maggio 2023.