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EDITORIALE. IPOCRISIA MONDIALE
(29 Novembre 2022)

DOHA. E’ iniziata il 20 Novembre ed andrà avanti fin al 18 dicembre la fase finale della 22ª edizione dei campionati mondiali di calcio, l’evento sportivo più importante dopo le Olimpiadi. Per un mese, 32 squadre nazionali si contenderanno a suon di gol il titolo di campione del mondo dello sport più seguito su questo pianeta.

La lotta per la coppa è in realtà ristretta ad un pool di squadre: Brasile, Argentina, Francia, Germania, Spagna… insomma, sempre le stesse che da decenni sono ai vertici mondiali.

Sebbene la sede del torneo sia stata scelta nel 2010 (duemiladieci!) dagli organi dirigenti della FIFA, solo nelle ultime settimane i media si son accorti che in Qatar, lo stato cui fu attribuito il compito d’organizzare la kermesse, sono sistematicamente violati i diritti umani;

sebbene per anni le organizzazioni umanitarie abbiano documentato lo sfruttamento delle decine di migliaia di operai, perlopiù provenienti dal subcontinente indiano, impiegati per la costruzione delle infrastrutture necessarie per lo svolgimento della manifestazione, nessuno ha aperto bocca, se non nelle ultime settimane;

sebbene siano deceduti, secondo il Guardian, 6.500 lavoratori, morti per i maltrattamenti subìti, lo spettacolo ha preso il via: nessuna nazionale si è ritirata e le tv stanno trasmettendo gli incontri, oltre che i programmi di contorno.

In queste condizioni, ha avuto buon gioco il presidente della FIFA, lo svizzero Gianni Infantino ad accusare gli occidentali di ipocrisia, anche perché sembra che siano stati proprio gli europei, oltre che i delegati dei Caraibi, a favorire la designazione del Qatar a spese degli Stati Uniti. Inoltre, sembra che sia stato Nicholas Sarkozy, quand’era presidente francese, a premere in favore dell’emiro qatarino, poiché Parigi all’epoca stava contrattando, affinché la total Energies ottenesse l’appalto per l’estrazione ed il trasporto di gas dal Paese del Golfo.

Così come nel 2010, in realtà, a nessuno oggi interessa che in Qatar sia al potere una monarchia assoluta, che i non qatarini (sei volte la popolazione autoctona) siano maltrattati dai loro padroni locali, che le gradinate degli otto stadi dove si disputano le partite grondino sangue, quello dei seimilacinquecento pakistani, indiani, bengalesi, nepalesi che han perso la vita per costruirli.

Il calcio, più di qualunque altro sport, è ormai un’industria che produce enormi redditi ed è in continua espansione. Tornei sempre più lunghi, elaborati, con numeri crescenti di squadre partecipanti: nel 2026 le nazionali che disputeranno il mondiale che si svolgerà in Nord America saranno 48 e la FIFA vorrebbe che il campionato europeo avesse luogo ogni due anni, anziché ogni quattro: insomma, un vero “totalitarismo del football”.

Quindi, in queste settimane, stiamo assistendo ad un’ennesima manifestazione dell’ipocrisia mondiale che caratterizza le relazioni internazionali. Lo sport, con buona pace per coloro che proclamano che è cosa diversa dalla politica e dall’economia, è immerso fin al collo nel business, influenza le relazioni internazionali e incoraggia il nazionalismo.

I Paesi, anche quelli meno dotati di mezzi, fanno a gara per organizzare tornei sempre più dispendiosi (sembra che stavolta siano stati investiti 230 miliardi di dollari) ed ovviamente un successo è motivo d’orgoglio nazionale per chiunque, oltre che una possibile fonte di guadagni, anche se questo talvolta non succede (si vedano i frequenti casi delle enormi perdite finanziarie registratesi in Grecia e in Brasile dopo le Olimpiadi del 2004 e 2016).

C’è da sperare che in futuro si salvaguardi la salute degli operai impiegati per la costruzione degli stadi?

Che la scelta della nazione organizzatrice cada su Paesi dove si rispettano tutti i diritti umani?

Francamente, non siamo ottimisti: nel recente passato, tanto per esemplificare, alla Cina, paese in cui impera un regime totalitario, sono state assegnate le olimpiadi estive (2008) e invernali (2020); la Russia, Stato oggi all’indice della comunità internazionale per aver aggredito l’Ucraina, ha organizzato le olimpiadi d’inverno a Sochi (2014) e i mondiali di calcio (2018).

Qualcuno ha protestato per il trattamento cui son sottoposti gli Uiguri in Cina o i dissidenti in Russia? Non ci risulta: tutti han seguito in tv le gare, chiudendo gli occhi di fronte ai soprusi compiuti dai regimi di Pechino e Mosca.

Neanche l’Italia, che non si è qualificata per la fase finale, può sentirsi esentata dal provare rimorso per le morti provocate da imprenditori senza scrupoli desiderosi di fare profitto sulla pelle dei lavoratori del subcontinente indiano.

Da anni squadre di club del “belpaese” disputano regolarmente incontri più o meno amichevoli negli stadi dei Paesi del golfo dove vige la Kafala. Il 18 Gennaio 2023, per esempio, Milan e Juventus si contenderanno la supercoppa italiana nello stadio di Riyadh, Arabia Saudita. eppure il prato di quello stadio è bagnato del sangue dei condannati a morte, spesso lavoratori stranieri, decapitati in pubblico dal boia di Stato.

Tutto ciò premesso, temiamo che anche in futuro il “dio denaro”, il “dio profitto”, ed il “dio business” avranno la prevalenza sul rispetto dei diritti umani pur così spesso pubblicamente proclamati ed altrettanto di frequente platealmente violati.

PIER LUIGI GIACOMONI

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