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ZIMBABWE. UN’ALTRA ELEZIONE PROBABILMENTE TRUCCATA
(11 Settembre 2023)

HARARE. Ancora una volta in Zimbabwe le elezioni son state probabilmente truccate da chi ha condotto al disastro questo Paese che, al tempo della dominazione bianca, quando si chiamava Rhodesia, era florido.

Lo ZANU-PF, che domina la scena politica nazionale fin dall’indipendenza (1980), si è imposto sia nelle presidenziali che nelle legislative.

In pochi però credon che si tratti d’una vittoria pulita perché si dubita che qualcuno possa ancora approvare la politica dell’ex partito unico che ha fatto del malgoverno, dellacorruzione più sfacciata e del mancato rispetto dei diritti umani i connotati del proprio stile di governo.

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I RISULTATI

Le presidenziali, secondo la commissione elettorale fortemente influenzata dallélite dominante, son state vinte da Emmerson Mnangagwa, 80 anni, col 52,6% mentre al suo rivale, Nelson Chamisa, 45 anni, è andato il 44%;

Nelle legislative, lo ZANU-PF ha vinto 137 seggi su 210 dell’Assemblea nazionale mentre alla CCC (Citizens Coalition for Change) son andati 73 mandati.

Completan l’emiciclo 60 deputate elette nelle liste riservate al mondo femminile.

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CLIMA PESANTE

L’opposizione, ovviamente, respinge l’esito dello scrutinio: «Non possiamo accettare i risultati», dice Promise Mkwananzi, portavoce della CCC, descrivendo il conteggio dei voti come “falso”.

Del resto, già prima del voto eran stati vietati i comizi degli avversari di Mnangagwa e la stampa si è quasi tutta schierata a favore dello ZANU-PF.

Durante le operazioni di voto, svoltesi mercoledì 23 e giovedì 24 Agosto, son emerse parecchie disfunzioni: schede mancanti, elenchi elettorali incompleti, assenza di scrutatori, seggi aperti in ritardo o rimasti chiusi.

Intanto attivisti del partito-stato si cimentavano nell’opera d’intimidire gli elettori e componenti della società civile.

newsday, un sito indipendente, riferisce che durante la campagna elettorale e le operazioni di voto era attiva la FAZ, Forever Associates Zimbabwe, un’organizzazione formata da ex agenti dei servizi segreti di Harare che han svolto azioni di spionaggio di membri della società civile.

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I CANDIDATI

EMMERSON MNANGAGWA

Classe 1942, fedelissimo di Mugabe poi caduto in disgrazia, “il Coccodrillo” (questo il suo nome di battaglia ai tempi della guerriglia contro il governo bianco) si era presentato come colui che avrebbe riaperto il paese agli investimenti europei e americani e ottenuto la fine dell’isolamento internazionale voluto da Mugabe, prima di rifugiarsi in un’ondata di misure repressive che hanno alienato le opinioni pubbliche occidentali e vanificato gli sforzi in questa direzione. Cosa ancora più importante, non è riuscito a mantenere la promessa di riformare un sistema di welfare e di sicurezza sociale messo a durissima prova dalla crisi economica e finanziaria in cui lo Zimbabwe è sprofondato da oltre due decenni. Assegni familiari e assicurazioni sociali, presentati come la soluzione per la povertà che attanaglia un paese in cui l’economia formale offre oggi occupazione ad appena il 15% della popolazione, raggiungono tuttora solo una piccola minoranza dei nuclei famigliari e non hanno conseguito nemmeno in parte l’obiettivo di risollevare le condizioni di vita della maggior parte dei zimbabwesi. Sono i sondaggi però, che mostrano una diffusa insoddisfazione per il modo in cui è governato il paese, il segnale più preoccupante per il presidente e per il partito al potere.

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NELSON CHAMISA

Nato nel 1978, Chamisa è cresciuto politicamente nel Movement for Democratic Change (Mdc) e nel 2018 era subentrato all’ultimo minuto come candidato alla presidenza al posto del fondatore del movimento e leader storico dell’opposizione, Morgan Tsvangirai, scomparso per un tumore al colon pochi mesi prima della scadenza elettorale. Sfidando la consueta campagna di brogli, violenze e intimidazioni – culminata nell’uccisione di sei manifestanti all’indomani della proclamazione dei risultati – Chamisa aveva ottenuto un significativo 44% che, se non era bastato per obbligare al secondo turno Mnangagwa (51%), aveva riaffermato, dopo l’uscita di scena di Mugabe, la consistenza dell’opposizione e impedito di fatto il pieno consolidamento del nuovo regime.
Nonostante il buon risultato, negli anni successivi la sua leadership è stata oggetto di contestazioni da parte di altri dirigenti del partito, fino alla decisione di abbandonare l’Mdc e di lanciare, nel gennaio del 2022, una nuova formazione politica, la CCC, che nei mesi successivi sembra aver occupato lo spazio politico del Mdc.
La propensione alle scissioni tra correnti interne che ha contraddistinto tutta la storia dell’opposizione anti-Mugabe è certamente riconducibile a un deficit di leadership e all’incapacità di superare e ricomporre le rivalità personali emerse nel gruppo dirigente. Tuttavia, riflette anche la frustrazione per gli ostacoli incontrati, per oltre due decenni, dal Mdc nel tentativo di allargare la propria base elettorale fino a raggiungere la maggioranza dei voti a livello nazionale. Nato alla fine degli anni Novanta nelle principali aree urbane del paese sotto l’iniziativa di gruppi attivi nella difesa dei diritti civili e del sindacato indipendente ZCTU, il Mdc ha fatto regolarmente incetta dei consensi e dei seggi in palio a Harare e Bulawayo, le due maggiori città del paese (tra le più moderne e sviluppate dell’intera Africa subsahariana dopo quelle sudafricane), ma ha sempre fallito nel tentativo di costruirsi una base di consenso nello Zimbabwe rurale, dove il controllo stabilito dalla ZANU-PF negli anni della guerra civile contro il regime bianco è stato cementato, dopo l’indipendenza, attraverso una solida alleanza con i notabili locali e l’uso mirato degli investimenti pubblici. La piattaforma ideologica del Mdc, fondata sulla conciliazione tra neoliberismo e social democrazia e ispirata alla Terza via di Tony Blair, il sostegno da parte della comunità bianca locale e l’appoggio incondizionato di cui ha sempre goduto nei paesi occidentali, unito al rifiuto di chiedere il ritiro delle sanzioni economiche contro Mugabe, tuttora in vigore, hanno rappresentato ostacoli per il movimento di Tsvangirai. Il Mdc infatti ha dovuto sempre fronteggiare l’accusa di collaborazionismo con il “neo-imperialismo”, ammantato di moralismo umanitario, che la ZANU-PF imputa al governo britannico, alle istituzioni finanziarie internazionali e alle organizzazioni non governative (Ong). 

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RASSEGNAZIONE

Fatte le elezioni, la gente, osserva la BBC, continua nelle sue normali occupazioni: per alcuni è come se il voto non ci fosse mai stato.

«Molti – scrive Shingai Nyoka da Harare – non credono che le elezioni possano cambiare le loro vite.

Pochi han voglia d’inscenare proteste contro il governo: è ancor vivo nella memoria il ricordo delle vittime provocate dall’intervento dei militari che apriron il fuoco sui dimostranti arrabbiati perché nel 2018 la commissione elettorale tardava a pubblicare l’esito del voto di quell’anno.

La polizia, dal canto suo, ha garantito che reprimerà qualunque manifestazione ostile.

Un esempio lo fornisce la stessa CCC: nelle ore in cui Mnangagwa s’insediava nuovamente alla presidenza (4 Settembre), presenti i leader di Mozambico e Sud Africa, venivan arrestati, sotto l’accusa d’ostruzione alla giustizia, due legali che si eran opposti all’interrogatorio di alcuni attivisti della CCC, rapiti da sconosciuti, duramente picchiati e ricoverati successivamente in ospedale in cattive condizioni di salute.

Doug Coltart e Tapiwa Muchineripi ora rischiano, così come rischia chiunque si opponga alla logica del cleptocrate e della banda che l’appoggia.

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DA LIBERATORI AD OPPRESSORI

D’altronde, dal suo punto di vista, Mnangagwa ha ragione: chi, sano di mente, darebbe il proprio voto a gente che in quarant’anni ha spogliato un Paese quasi florido con un’agricoltura capace di produrre derrate alimentari più che sufficienti per sfamar tutti?

In Zimbabwe, da quando la banda dei ladri dello ZANU-PF s’è impadronita del potere, dopo la fine del regime segregazionista di Ian Smith, la povertà non ha fatto che aumentare.

Se era certamente deprecabile il governo della minoranza bianca, lo è anche quello dell’élite nera che l’ha sostituita: costoro da liberatori si son rapidamente trasformati in oppressori.

Chi sperava, nel 2017, che con l’allontanamento di Mugabe dal potere il Paese avrebbe voltato pagina è rimasto deluso perché Mnangagwa ha riprodotto, una volta divenuto Presidente, le stesse dinamiche del suo predecessore.

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I COMANDAMENTI DI MUGABE

PRIMO: ELIMINARE GLI AVVERSARI

Come ha fatto – si chiede Jeune Afrique – lo Zanu-Pf a mantenere il potere così a lungo?

Mugabe era molto efficace nell’eliminare i suoi avversari. Poco dopo essere diventato primo ministro, ordinò la violenta repressione dei leader e dei sostenitori del movimento Zapu, che aveva combattuto al suo fianco contro il regime della minoranza bianca. Circa 20.000 civili furono uccisi nelle province del Matabeleland e delle Midlands nell’operazione Gukurahundi (1983-1987).

Il governo non ha mai riconosciuto le sue responsabilità, non si è mai scusato con le famiglie delle vittime né ha proposto dei risarcimenti. All’epoca Mnangagwa era ministro della sicurezza nazionale ed è rimasto a fianco di Mugabe finché non è improvvisamente caduto in disgrazia.

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SECONDO: SACCHEGGIARE LO STATO

Lo Zanu-Pf si considera ancora insostituibile: controlla i mezzi d’informazione, dispone di ampie risorse finanziarie perché si è accaparrato grandi ricchezze.

Robert Mugabe,prima di morire, disse che probabilmente eran spariti 15 miliardi di dollari, frutto della vendita dei diamanti;

Durante la riforma agraria dei primi anni duemila, i capi del partito avevan messo le mani su molte aziende agricole, in gran parte espropriate ai farmers bianchi;

da ultimo, lo scandalo della mafia dell’oro ed il saccheggio dei sussidi destinati all’agricoltura.

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TERZO: SCHIACCIARE L’OPPOSIZIONE

sul fronte repressivo, il governo, disponendo d’un’ampia maggioranza in parlamento, ha adottato una batteria di leggi che reprimon il dissenso on line e limitan gli spazi della società civile.

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QUARTO: L’ESERCITO, PILASTRO DEL POTERE

D’altronde Mnangagwa sa che fin quando l’esercito l’appoggerà non correrà alcun rischio: eppure l’economia va a rotoli, l’inflazione galoppa a oltre il 700% all’anno e la moneta nazionale non vale nemmeno la carta con cui è stampata. Infatti, la gente si serve del dollaro statunitense invece che di quello zimbabwese.

Quanto potrà durare questo disastro?

PIER LUIGI GIACOMONI

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