ZIMBABWE. DOPO MUGABE, MNANGAGWA.
(28 Agosto 2018).
HARARE. Domenica 26 Agosto – Emmerson Mnangagwa, presunto vincitore delle elezioni del 30 Luglio scorso, si è ufficialmente insediato alla Presidenza della Repubblica dello Zimbabwe: il suo mandato durerà cinque anni, salvo eventuale rielezione.
Per anni stretto collaboratore di Robert Gabriel Mugabe, fu estromesso dal potere nell’autunno scorso dal padre padrone del Paese per far posto alla moglie Grace. Poi però intervennero i militari ed il 21 Novembre Mugabe dovette rinunciare alla Presidenza in favore proprio di Mnangagwa che è divenuto il garante del passaggio dall’era Mugabe alla nuova epoca politica.
Nei mesi precedenti al voto, Mnangagwa aveva assunto toni concilianti.
Aveva dichiarato che lo Zimbabwe era aperto agli investimenti esteri e che avrebbe messo fine alle confische delle fattorie, si era impegnato a vendere le imprese di stato in fallimento. Aveva anche scritto un editoriale sul New York Times invocando democrazia e parità di diritti per tutti i cittadini. Sembrava davvero sorta un’alba di pace e libertà, dopo i lunghi anni del dispotismo.
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Le elezioni e il dopo. Così, in un clima di speranza, lunedì 30 Luglio gli zimbabwesi sono andati alle urne per eleggere il nuovo Capo dello Stato ed il Parlamento. Per la prima volta dal 1980, anno dell’indipendenza, sulle schede non figurava il nome di Mugabe e si pensava che la contesa elettorale non sarebbe stata turbata dai soliti brogli e sopraffazioni.
In un quadro quasi idilliaco, la giornata di voto è trascorsa nella calma, gli elettori si sono messi in fila per votare, alcuni hanno atteso ore prima che fosse il loro turno: alla fine si sarebbe toccato un tasso di partecipazione superiore al 70%. I candidati in corsa per la massima carica erano in tutto 22, ma solo due, come poi si è visto, avevano serie possibilità di riuscita: Emmerson Mnangagwa, 75 anni, sponsorizzato dallo ZANU-PF, il partito-Stato che finora ha controllato il potere, e Nelson Chamisa, 43 anni, proposto dal Movimento per il Cambiamento Democratico (MDC).
Il primo, un veterano della lotta contro il regime segregazionista di Ian Smith e poi politico di lungo corso durante il lungo regime Mugabe, il secondo, un giovane avvocato convinto d’incarnare il desiderio di rinnovamento della società zimbabwese.
E’ vero che durante la campagna elettorale i media, controllati dallo stato,hanno condotto una sistematica propaganda per Mnangagwa e, soprattutto in ambiente rurale, forti pressioni sono state condotte sugli elettori per evitare che passassero in massa con l’MDC, ma nessuno s’aspettava che il clima generale cambiasse così radicalmente come avvenuto ad urne chiuse.
Mercoledì 1° Agosto, di fronte ad una protesta popolare contro i ritardi della commissione elettorale, la polizia e l’esercito aprono il fuoco contro la folla: muoiono sette persone inermi, colpite dai proiettili.
Quando Nelson Chamisa vuol tenere una conferenza stampa per informare i media internazionali su ciò che sta accadendo, intervengono i militari per mandar via con la forza i giornalisti e le tv.
Il 3 Agosto, all’1,06 di notte, dopo ore di rinvio, di fronte alle pressioni internazionali che invitano a pubblicare i risultati, la commissione annuncia che Emmerson Mnangagwa ha vinto col 50,8% dei voti contro il 44,3% andato a Nelson Chamisa.
Poche ore dopo, il leader dell’opposizione rifiuta d’accettare il verdetto ed annuncia un ricorso in tribunale per ottenere un riconto generale delle schede.
Mnangagwa temeva soprattutto di non superare la barriera del 50,1% che avrebbe reso obbligatorio il ballottaggio: la commissione elettorale l’ha accontentato.
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Emmerson Mnangagwa. Mugabe era un despota violento e repressivo, Mnangagwa, soprannominato “il
coccodrillo”, è stato suo vice e sostenitore fino a quando non è stato allontanato dal potere per far posto alla seconda moglie del despota, Grace, predestinata a succedergli.
Mnangagwa, nelle settimane successive al voto, ha fatto reprimere spietatamente l’opposizione e gli agenti di polizia hanno picchiato e arrestato decine di sostenitori di Chamisa, confermando la svolta autoritaria del riconfermato Presidente.
Del resto, chi lo conosce sa che è coinvolto in tutte le malefatte del regime: negli anni Ottanta fu in prima fila nello schiacciare la rivolta degli Ndebele, conducendo personalmente dei massacri nel Matabeleland, successivamente è stato Ministro dell’interno e della Difesa sotto Mugabe. Era perciò il diretto referente del governo presso le Forze armate.
Divenuto Presidente transitorio, dopo il golpe che ha rimosso il vecchio leader, Mnangagwa aveva bisogno d’una consacrazione elettorale, ma doveva vincere due sfide importanti per affermare la propria leadership: le sfide provenienti dall’interno del regime, che raramente portano a una transizione democratica e quelle popolari esterne al sistema, che invece potrebbero farlo. Mugabe si è arreso alle pressioni interne al suo partito,
dopo una lotta di successione tra sua moglie Grace e Mnangagwa.
Appena insediato, Mnangagwa si è mosso per vincere la sfida successiva che lo attendeva,
quella dell’opposizione popolare.
Mentre parlava di diritti umani, lavorava coi suoi alleati per creare un contesto repressivo
che gli avrebbe garantito di restare al potere. Dopo che la commissione elettorale
ha annunciato la sua risicata vittoria, Mnangagwa ha reagito nella più classica delle modalità autoritarie: mandando la polizia e l’esercito a reprimere le proteste.
I piccoli miglioramenti del sistema politico del paese e la deposizione di Mugabe avevano
convinto alcuni diplomatici ed esperti che le elezioni del 30 luglio avrebbero potuto
inaugurare un vero cambiamento democratico, ma gli ultimi avvenimenti hanno
confermato che Mnangagwa e i suoi alleati non hanno costretto Mugabe a lasciare il
potere per trasformare il sistema politico dello Zimbabwe. Hanno piuttosto cercato
di mantenere il controllo sulla nazione. Dopo 37 anni di dominio autoritario, una sola
elezione non può far nascere la democrazia dalla dittatura!
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Chi comanda davvero in Zimbabwe? «Thank you Zimbabwe!»: Le prime parole del neo presidente Emmerson Mnangagwa, affidate a Twitter dopo la vittoria di misura nelle elezioni del 30 luglio contro lo sfidante Nelson Chamisa, e divenute il logo dell’account presidenziale, non sono solo una scontata frase di circostanza. Come conferma il resto del “cinguettìo”: «Anche se siamo stati divisi nelle urne, siamo uniti nei nostri sogni. Questo è un nuovo inizio. Uniamo le nostre mani in pace, unità e amore e insieme costruiremo uno Zimbabwe per tutti.»
Mnangagwa sa d’aver vinto solo grazie ai maneggi d’un sistema di potere in grado di preordinare un risultato elettorale, ma non d’impedire del tutto la protesta popolare, sa inoltre che il mondo guarda verso Harare, anche il segretario Generale dell’ONU, Antonio guterres, ha invitato tutti alla moderazione. Ecco, allora, che il rieletto leader, che per consolidare il proprio potere ha bisogno d’una consacrazione popolare,si rivolge a tutti gli zimbabwesi ed al leader dell’opposizione in primis, con lo strumento oggi più amato dai potenti della Terra: Twitter. Cerca di rassicurare, promette un’inchiesta sulle violenze del 1° Agosto, non spiegando però chi ha dato ordini a polizia ed esercito di sparare sulla folla, invita l’opposizione a cooperare per far ripartire l’economia, ma non vuol metter in discussione l’esito dello scrutinio. Soprattutto, non vuole rispondere alle inquietanti domande che l’opinione pubblica si pone: quali sono le vere intenzioni di Mnanghagwa? Chi comanda davvero ad Harare? Chi ha dato l’ordine di picchiare, arrestare, sparare sugli oppositori?
«I militari – dice qualcuno – l’hanno messo al potere, lui deve rispondere a loro,» Difficile dar torto a questa considerazione, dal momento che due alti gradi dell’esercito occupano incarichi di primo piano nell’amministrazione Mnangagwa: il generale Constantino Chiwenga, già comandante delle forze di Difesa e regista del colpo di Stato del novembre 2017, è Vice Presidente della Repubblica e del partito ZANU-PF, mentre il generale Sibusiso Moyo, un altro dei leader del golpe, è divenuto ministro per gli Affari Esteri.
La storia di tanti Paesi governati dalle forze armate o direttamente o indirettamente, dimostra che l’obiettivo di questo centro di potere è quello di mantenere inalterati gli assetti istituzionali e scongiurare qualunque sbocco democratico.
A complicare il futuro del nuovo leader zimbabwese ci sono i dissidi all’interno dell’ex partito, oggi comunque schieramento dominante, e la pesante eredità lasciata dalla gestione Mugabe in economia. Il “granaio d’Africa”, come veniva definito una volta lo zimbabwe, oggi è ridotto alla fame, il 90% della popolazione è disoccupato e il dollaro statunitense è l’unica moneta che abbia valore nel Paese, dal momento che quello zimbabwese non vale neanche la carta con cui è stampato.
L’obiettivo del nuovo Presidente è di riconquistare la fiducia degli investitori internazionali, se sarà in grado di dare stabilità al Paese. E un segnale chiaro l’ha mandato, Rispondendo alla previsione della Banca Mondiale secondo la quale lo Zimbabwe può diventare un Paese a medio reddito in un decennio: «La Banca Centrale ha ragione. È ora di lavorare insieme e tornare agli affari.» L’ha fatto con un tweet, naturalmente, come si fa ormai dappertutto. Un modo per sfuggire alle domande ed evitare scomode contestazioni.
PIER LUIGI GIACOMONI