UNA BELLA STORIA
(14 Giugno 2018)
BOLOGNA. Migrante non è sinonimo di terrorista, clandestino, jihadista, ladro, assassino, stupratore. Nel mondo di
coloro che son venuti a vivere qui da noi anche da Paesi lontani ci sono anche delle persone che hanno preso a
cuore la nostra cultura nazionale e l’hanno assimilata, malgrado le difficoltà linguistiche.
E’ accaduto a Bologna, al liceo classico Galvani, dove due studenti d’origine pakistana hanno brillato di luce
propria nelle interrogazioni e nelle verifiche su Dante, Cavalcanti e Pitagora.
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Kinz e Mohsan. «Alla sua prima interrogazione – scrive Repubblica – su Pitagora e Democrito, è scattato l’applauso
della classe. Kinz-ul-Iman, capelli lunghi neri, 18 anni, ce l’aveva fatta.
Non era affatto scontato. Era arrivata sotto le Torri da Gujrat, città del Pakistan, appena una manciata di mesi
prima senza sapere una parola di italiano e col cuore triste ( non volevo partire ).
Suo fratello Mohsan Ali, più giovane di un anno, invece non stava nella pelle per la loro nuova vita a Bologna:
“Qui hai l’elettricità tutto il giorno e Internet veloce”.
Anche lui ha stupito i suoi compagni: s’era intestardito a voler portare un argomento di storia romana e per venti
minuti ha parlato di Augusto e delle sue res gestae.
Chapeau.»
Arrivati a maggio 2016 con il solo inglese per farsi capire, si sono iscritti allo scientifico internazionale del
liceo Galvani a settembre: risultato, I due fratelli sono stati promossi l’anno scorso con una media superiore al
sette e quest’anno, all’uscita dei cartelloni, non andrà peggio.
«Sono molto determinati – commenta l’insegnante di italiano Maria Luisa Vezzali – Kinz ha una gran forza di volontà
e curiosità per tutto ciò che è lontano e diverso.
Mi sembrava impossibile insegnarle Dante, ma lei chiese di non essere esonerata.
Allora le regalai la mia edizione della Divina commedia in italiano e inglese, ha imparato tutto, da Petrarca a
Cavalcanti», racconta la docente.
Per i primi due anni hanno seguito, per legge, programmi speciali – niente latino, per esempio – ma dal prossimo
anno non sarà più così: oltre alla scuola, accanto a questi ragazzi c’è un padre che vuole regalare un futuro
migliore ai suoi figli, rimasti orfani di madre da piccoli.
E c’è “Gino”, Biagio Giacovelli, il mediatore culturale che al centro Zonarelli ha insegnato loro, prima ancora che
l’italiano, a “imparare a capire”.
«Se devono studiare Kant prima li aiuto con una tesina scritta col loro livello lessicale, poi verifico che lo
sappiano ripetere e infine scrivere», osserva.
La mattina a scuola, poi le ore con Gino di studio e visite nelle città per l’arte e la storia; il tutor al liceo
due volte a settimana, i compiti a casa fino a sera tardi.
«Se opportunamente seguiti, come ha fatto la nostra associazione, gli stranieri non abbassano il livello della
classe. Nell’esperienza di Kinz, Mohsan e nostra, l’integrazione ha ed ha avuto un senso», spiega il mediatore.
Il papà, Mohammad Afzal, è qui da 15 anni, fa il muratore.
«Sono stati cresciuti in Pakistan dai miei genitori e sorelle. Venivano qui in vacanza.
Poi sono morti anche i nonni. Mi sono deciso, ho parlato loro: “per me il vostro futuro è qua”.»
Kinz non era convinta, «ma tutti, anche mio fratello, mi dicevano che era meglio partire.
Una gran fatica, ma ora ho ritrovato la felicità che credevo di aver lasciato in Pakistan, voglio fare il medico.»
Mohsan vuole fare l’ingegnere o il fotografo: un giorno a scuola ha spiegato la letteratura urdu, la sorella ha
parlato dell’Islam.
***
Un mondo che cresce. Anche nella mia esperienza d’insegnante avrei tante storie simili da raccontare: in trent’anni
di lavoro scolastico ho incontrato ragazzi e ragazze d’una cinquantina di paesi: ragazzi svogliati, demotivati,
interessati solo a certi argomenti, tantissimi, ma anche personcine desiderose d’inserirsi nella nostra società,
altrettanti. Qualcuno di loro aveva ancora nel cuore il proprio paese d’origine, qualcun altro invece aveva capito
che qui c’era a portata di mano un futuro d’emancipazione, impossibile da immaginare in certe realtà.
L’integrazione è una parola magica che molti pronunciano senza sapere che vuol dire tante cose: vuol dire fatica,
impegno, spirito di sacrificio non solo da parte dell’operatore o dell’educatore, ma anche dal punto di vista del
giovane che d’improvviso si trova sbalzato in una realtà complessa e conflittuale come lanostra, che da un lato
promette estrema libertà, ma dall’altro sprigiona, a volte anche in modo subdolo, ruvido razzismo.
Questi contrastanti sentimenti vengon percepiti dai ragazzi stranieri e rielaborati in modo differente l’uno
dall’altro: per qualcuno ciò è motivo sufficiente per scaricare le proprie frustrazioni sull’educatore, per qualcun
altro è stimolo ulteriore per impegnarsi di più dei compagni autoctoni.
Questa storia mi ha riempito di gioia e mi piacerebbe che i media dessero maggior risalto a fatti come questo,
invece che spaventarci tutti i giorni con continue narrazioni di presunti crimini efferati, commessi da soggetti
devianti provenienti dai quattro angoli del mondo, come se appunto migrante fosse solo sinonimo di assassino,
ladro, criminale, stupratore e via elencando.
PIER LUIGI GIACOMONI