SUDAN. DUE GENERALI LOTTANO PER IL POTERE ASSOLUTO
(13 Giugno 2023)
KHARTOUM. E’ l’alba del 15 aprile quando, secondo le testimonianze raccolte da BBC ed al Jazeera, si odono i primi colpi d’arma da fuoco: un altro golpe! si dev’esser detta la gente. In effetti, probabilmente i paramilitari delle forze di supporto rapido (RSF) contan di coglier di sorpresa i soldati governativi, onde prendersi il potere senza colpo ferire, ma l’imprevista resistenza opposta trasforma l’ennesimo putsch in un conflitto interno vero e proprio.
L’un contro l’altro armati, l’esercito regolare e le forze speciali. Le prime formate prevalentemente da genti del Nord sudanese, le seconde da elementi dei Janjaweed[1], provenienti dal Darfur. I primi guidati dal generale Abdelfatah al-burhan, presidente del consiglio sovrano di transizione (TSC), i secondi comandati da Mohamed amdan Dagalo, detto “Hemedti”, ossia “Piccolo Mohamed”.[2]
Quali avvenimenti, però, han preceduto quest’ennesima esplosione di violenza in un paese che dal 1956, anno dell’indipendenza, ha conosciuto soprattutto feroci dittature e guerre fratricide?
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DA BASHIR A BURHAN
Nel dicembre 2018, la rabbia popolare contro il regime tirannico di Omar Hassan al bashir (1989 – 2019) esplode: causa scatenante, l’aumento prorompente dei prezzi dei prodotti di prima necessità. Ogni giorno migliaia di persone scendono per le strade per protestare contro il despota che da trent’anni, fa il bello e cattivo tempo. Bashir reagisce con la forza e molti giovani perdono la vita, ma le proteste vanno avanti finché l’11 aprile 2019 un putsch incruento lo depone. Sembra l’alba d’un tempo nuovo, ma presto si scopre che gli uomini in divisa han voluto solo toglier di mezzo il tiranno per tenersi il potere.
Comunque, Dopo complessi negoziati tra militari e società civile, s’arriva il 4 agosto ’19 al varo d’una costituzione provvisoria che prevede la cogestione del potere: «Per i successivi 39 mesi – scrive Lorenzo Longhi[3] – fino alle prime libere elezioni, il governo del Paese sarebbe stato affidato al Consiglio sovrano, composto da sei civili e cinque militari.»
Burhan, già capo del TMC (consiglio militare di transizione, l’organo che ha preso il potere in aprile) diventa presidente del Consiglio sovrano transitorio (TSC) per i successivi 21 mesi, in seguito l’avrebbe dovuto sostituire un esponente delle Forze per la Libertà e il Cambiamento (FFC), il cartello di movimenti che avevan contribuito ad indebolire la dittatura.
Su proposta delle FFC, il 20 agosto è nominato Primo ministro del governo provvisorio Abdalla Hamdok, ex-funzionario del ministero delle Finanze che si è fatto un nome, lavorando alla Banca africana di sviluppo (ADB) e con la Commissione economica per l’Africa delle Nazioni unite.
I militari però, sognan di riprendersi il potere alla prima occasione: il 21 settembre 2021 un primo tentativo di golpe è faticosamente soffocato; il 25 Ottobre invece va a segno con successo. Le Forze Armate e le RSF rovesciano Amdock accusandolo di non riuscire a risolvere i molteplici problemi che il sudan deve fronteggiare: pandemia, rincaro, proteste popolari, tensioni coi vicini.
Il popolo e l’Unione africana (UA) premono affinché Amdock torni alla guida del governo: Burhan e dagalo cedono, ma a gennaio ’22 il premier getta la spugna.
seguono mesi di manifestazioni per la democrazia, poi, nuovi negoziati: il 5 dicembre le due parti stipulano un nuovo patto che prevede:
1. Cessione del potere ad un’amministrazione civile in vista di nuove elezioni a tutti i livelli;
2. riforma delle Forze Armate, loro sottomissione all’autorità civile e inquadramento delle RSF all’interno dell’esercito.
per Hemedti, lo scioglimento delle forze di supporto rapido non può avvenire
prima d’un decennio, un tempo inaccettabile per Burhan, ansioso di porre sotto il proprio controllo i circa 100 mila miliziani agli ordini del rivale.
Gli accordi di dicembre, poi, non sono accettati da una parte delle FFC: vasti settori della dissidenza civile sudanese, riunitisi in comitati di resistenza, si dicono da subito contrari a qualsiasi intesa col Tsc.
«A loro parere – scrive Padre Giulio Albanese[4] – questa iniziativa avrebbe finito per legittimare il colpo di stato del 2021 che aveva bloccato il processo di transizione verso la democrazia. Un indirizzo condiviso anche da alcune formazioni politiche sudanesi e da diversi movimenti popolari, parecchi usciti dalle Ffc per poi formare un nuovo raggruppamento, le Forze per la libertà e il cambiamento-Blocco Democratico (Ffc-Db).»
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BURHAN VS. HEMEDTI
I patti di dicembre avrebbero dovuto esser ripresi in esame in aprile, ma intanto monta la tensione tra i due generali: dopo reciproche accuse e minacce tra febbraio e marzo. In breve, le fazioni cominciano ad armarsi. mentre i reclutatori delle RSF conducono campagne d’arruolamento nel Darfur, roccaforte di Hemedti.
L’11 marzo, è stipulata un’intesa per evitare lo scoppio delle ostilità, ma è solo un modo per rinviare l’inizio dei combattimenti.
Ad aprile, salta la ripresa dei negoziati, mentre il 13 elementi delle RSF si installano nei pressi della base aerea di Meroe, (Sudan settentrionale), dove stazionano anche alcuni effettivi dell’esercito egiziano.
Burhan dirama un ultimatum per ottenere il ritiro dei miliziani, ma ormai è la vigilia dello scoppio delle ostilità: la mattina del 15 Khartoum è direttamente investita dagli scontri. Seguono violenze d’ogni tipo, con più d’un milione di sfollati, devastazioni, stupri. Le ambasciate straniere vengon chiuse e il personale rimpatriato. Nella capitale rimangon operative solo alcune ONG come MSF ed Emergency, che cercan di soccorrer la povera gente che è diventata ostaggio dei combattenti.
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I DUELLANTI
Chi son i protagonisti di questo nuovo conflitto che lacera il Sudan, provocando una nuova emergenza umanitaria in una regione dell’Africa già carica di tensioni.
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ABDEL FATTAH ABDELRAHMAN AL BURHAN
Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, 62 anni, è un militare di carriera, addestrato in Egitto e Giordania, proveniente dalle regioni settentrionali, area da cui originano tutti gli alti quadri dell’esercito.
Dopo aver partecipato alle scorribande nel Darfur, l’11 aprile 2019, insieme a Dagalo, depone Bashir e, come già detto, diventa il capo delle giunte che guidano il Sudan fin ad oggi.
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MOHAMMED AMDAN DAGALO “HEMEDTI”
Mohammed Amdan Dagalo, nasce forse nel 1974 nel Darfur da una famiglia della comunità beduina Rizeigat dedita al commercio di cammelli.
Secondo le cronache, si unisce ai Janjaweed dopo che 60 membri del suo clan cadono vittima d’un attacco armato alla loro carovana commerciale. Con lo scoppio della crisi in Darfur, scala velocemente i ranghi della milizia e giunge a comandare una brigata, facendosi notare dai vertici per spietatezza e ferocia. Nel 2007, si mette alla testa d’una rivolta dei “diavoli a cavallo” contro Bashir, ma questi gli offre un accordo sulla base del quale è promosso generale.
Il despota, infatti, teme che l’esercito, l’istituzione più solida del Sudan, possa prima o poi rovesciarlo, quindi assegna nel ’13 a Hemedti il compito di creare, partendo da un gruppo di combattenti Janjaweed, le Forze di supporto rapido RSF col duplice obiettivo di depotenziare le forze armate e crearsi uno scudo protettivo.
Nel ”17 le RSF son separate dall’esercito divenendo la guardia del corpo del presidente, ma due anni più tardi Hemedti partecipa al golpe che estromette, insieme a Burhan, il suo ex capo.
Nella complicata situazione sudanese hemedti cerca d’accreditarsi presso la società civile come alleato del popolo, anche se i suoi uomini ammazzano chi protesta per le strade: ciò non gl’impedisce di coltivare relazioni coi capi delle FFC e l’élite urbana della capitale che vorrebbe la democrazia e la fine del dominio militare sul Paese.
A Burhan imputa d’esser troppo legato alle correnti islamiste che han supportato il trentennale regime di Bashir, che tra l’altro è tornato in libertà dalla prigionia che gli era stata imposta quattro anni fa.
hemedti, oggi ritiene d’aver le carte in regola per prendersi tutto il potere, contando sulla fedeltà dei suoi miliziani, nonché sulle notevoli ricchezze accumulate, grazie ai proventi delle miniere d’oro di cui ha affidato la gestione alla società Wagner, cioè ad Evgheny Prigozhin.
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LE ALLEANZE
Qualche frettoloso e superficiale commentatore ha definito il conflitto in atto in Sudan un’ennesima “guerra civile” solo perché si svolge all’interno dei confini nazionali del Paese; in realtà le vittime principali degli scontri, dei saccheggi e delle atrocità che vengono denunciate, nonché della fame e del collasso degli ospedali sono proprio i civili che, come ha titolato correttamente Le Monde sono «ostaggi del conflitto tra due generali)[5].
Sul teatro dei combattimenti, però, si muovono diversi attori, più o meno occulti, considerata la posizione geografica del Sudan, situato in quella fascia dell’Africa centro-settentrionale in cui s’incontrano, si fa per dire, genti arabe e popolazioni africane.
Il Sudan, poi, rientra nella sfera d’interessi di diversi paesi della regione: i regni del Golfo, Egitto, Israele… poi a distanza Stati Uniti, Russia, Unione europea ed Italia.
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LE MONARCHIE DEL GOLFO
«Nel 2019 – scrive Eliott Brachet[6] – Riyadh e Abu Dhabi han visto nella deposizione di al Bashir l’occasione per rimetter piede in Sudan a scapito dei propri avversari regionali, Qatar e Turchia. Emiratini e sauditi han promesso aiuti pari a 3 miliardi di dollari.
Le monarchie del Golfo han anche investito decine di miliardi di dollari per acquisire migliaia di ettari di terre fertili da cui ricavare derrate alimentari di cui han grande necessità.»
L’Arabia finora si è mostrata più favorevole a Burhan, mentre gli EAU han adottato una condotta più ambivalente, fomentando le ambizioni di Hemedti: senza l’aiuto emiratino, il leader dei Janjaweed non disporrebbe della forza d’urto che ha finora messo in campo.
Con l’invio di mercenari in Yemen per conto di Abu Dhabi e i guadagni derivanti dal contrabbando d’oro a Dubai, il “signore della guerra” del Darfur è diventato «il Frankenstein di Khartoum», secondo la felice definizione di Sarra Majdoub, ricercatrice indipendente interpellata da Le Monde.
Le due potenze del Golfo si trovano ora sopraffatte dalle ambizioni dei loro protetti. «La crisi minaccia tutti i progetti infrastrutturali degli Emirati in Sudan”, sottolinea Corrado Cok, consulente della società di ricerca Gulf State Analytics, riferendosi all’accordo siglato nel 2022 che prevede la costruzione di un porto commerciale sul Mar Rosso e la creazione di un nuovo megaprogetto agricolo, 800 chilometri a nord della capitale.[7]
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EGITTO E ISRAELE
Anche Egitto e Israele seguono con interesse quanto avviene a Khartoum e dintorni.
Sebbene Burhan sia appoggiato dal partito islamico, vicino alla fratellanza musulmana, fuori legge in Egitto, il leader del Cairo Abdel Fattah al-Sisi, che in patria la perseguita, lo sostiene.
quanto ad Israele, poco prima che scoppiassero le ostilità tra i due, stavan per esser normalizzate le relazioni con Tel Aviv.
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STATI UNITI E RUSSIA
Allargando sempre più il cerchio, anche Washington e Mosca son più o meno coinvolte nel conflitto:
«Washington – scrive Massimo A. Alberizzi[8] – sostiene non troppo velatamente il generale Abdel Fattah al-Burhan, nonostante che abbia ceduto l’uso di alcuni porti del Mar Rosso a Mosca e ai suoi mercenari. In cambio del sostegno americano – sostengono osservatori indipendenti a Khartoum – avrebbe promesso la revoca di qualunque concessione ottenuta senza il beneplacito della Casa Bianca.»
E la Russia, oltre che controllare i già menzionati porti nel Mar Rosso, secondo gli americani, attraverso l’onnipresente Prigozhin, «ha offerto armi ai paramilitari […] e addirittura si dice pronto a mediare tra le parti», narra Alberizzi[9].
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L’UE E L’ITALIA
Anche l’Unione europea e l’Italia son coinvolte nello schacchiere sudanese.
Bruxelles formalmente condanna i combattimenti in atto perché minano «gli sforzi tesi a ripristinare la transizione verso un governo democratico a guida civile» e rischiano anche «di rendere instabile la regione». Ciò che non vien detto nel comunicato però è che, come denuncia nigrizia.it «uno dei due contendenti sudanesi, Hemedti, negli anni passati è stato a lungo foraggiato perché svolgesse un lavoro sporco: tagliare la strada, e con tutta probabilità anche la gola, ai migranti subsahariani che tentavano di arrivare in Libia e di lì sulle coste europee.»[10]
E l’Italia? Secondo africa-express.info, tramite alcuni agenti dei nostri servizi segreti addestrerebbe «nella base militare di El Obeid i paramilitari dei tagliagole janjaweed del Rapid Support Forces, per ammissione dello stesso generale Dagalo Hemedti, loro capo.»[11]
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IL SUDAN
La Repubblica del Sudan, nata nel 1956, dopo esser stata un protettorato anglo-egiziano, occupa una superficie di 1,9 milioni di KMQ. ed ha una popolazione di 47,9 milioni d’abitanti.
Dopo la secessione del Sudan meridionale (2011) ha perso il 90% delle sue risorse petrolifere, ma rimane ugualmente ricco d’oro ed altri minerali.
Il suo territorio è percorso dal Nilo che fornisce le acque necessarie allo sviluppo dell’agricoltura: da alcuni anni è in atto una vertenza con l’Etiopia che sta costruendo una diga per convogliare sul suo territorio la maggior parte delle acque per alimentare un’enorme centrale idroelettrica.
PIER LUIGI GIACOMONI
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NOTE:
[1] scrive Massimo A. Alberizzi: «Janjaweed è un neologismo, un nomignolo storpiato, che nell’arabo sudanese significa “Diavoli sterminatori a cavallo”. Sono diventati famosi all’inizio degli anni 2000 quando è scoppiata la guerra in Darfur. Arrivavano di notte come furie a dorso di cavalli o cammelli nei villaggi africani, davano alle fiamme le capanne, uccidevano gli uomini, stupravano le donne e rapivano i bambini. Razziavano gli armenti, arricchendosi a dismisura. […] I loro leader erano capibanda ignoranti e illetterati […] Si calcola che la guerra in Darfur abbia provocato almeno 300 mila morti.»
cfr. M. A. Alberizzi, Alleanze innaturali, accordi sottobanco e guerra di spie: il puzzle sudanese non finisce di stupire, africaexpress.info, 25 aprile 2023;
[2] L. Longhi, Ancora una volta, il futuro del Sudan lo decidono le armi, lospiegone.com, 12 giugno 2023;
[3] L. Longhi, Ancora una volta, il futuro del Sudan lo decidono le armi, cit.;
[4] G. Albanese, Copione già scritto a Khartum. Il peso delle armi schiaccia il Sudan, avvenire.it, 21 aprile 2023;
[5] cfr. Le Monde, ÉDITORIAL Les Soudanais pris en otages du conflit entre les généraux, lemonde.fr, 20 aprile 2023;
[6] E. Brachet, Autour du Soudan, un jeu géopolitique risqué, lemonde.fr, 27 aprile 2023
la traduzione dal francese è mia;
[7] E. Brachet, Autour du Soudan, un jeu géopolitique risqué, cit.
[8] M. A. Alberizzi, Alleanze innaturali, accordi sottobanco e guerra di spie, cit.
[9] M. A. Alberizzi, cit.
[10] Redazione, Il Sudan, le politiche europee e il partner sbagliato, nigrizia.it, 1 giugno 2023;
[11] M. A. alberizzi, cit.