RIPRESA ECONOMICA ED ITALIA DEL RANCORE
(8 Marzo 2018)
ROMA. Forse per capire davvero il messaggio contenuto nell’esito delle elezioni politiche generali svoltesi in
Italia il 4 Marzo scorso occorre leggere con attenzione i dati riprodotti dal CENSIS nel suo 51° rapporto annuale
sullo stato del Paese.
Da esso risulta che vi sono diversi settori economici in forte ripresa, le famiglie investono di più in cultura, il
turismo ha visto un flusso di visitatori che non si vedeva da anni, ma allo stesso tempo fasce crescenti di
popolazione temono di non aver prospettive d’ascesa sociale e di reale inserimento nel mondo del lavoro.
Questo timore è particolarmente forte nei millennials, ossia i giovani nati dopo il 2000.
Dallo stesso raporto emergono alcune delle fragilità del nostro sistema Paese:
• il basso numero di laureati, rispetto ai nostri partner europei;
• la presenza d’una migrazione poco qualificata, impegnata a svolgere lavori con scarso valore aggiunto;
• la debolezza del nostro sistema infrastrutturale, soprattutto nel sud e nelle isole;
• La presenza d’un basso numero di studenti stranieri nelle nostre università.
Il CENSIS denuncia gli scarsi investimento da parte dello Stato, ad esempio nell’ambito della tutela del territorio
e della lotta contro il rischio idrogeologico.
Ma per entrare più chiaramente nel merito credo opportuno riprodurre tutto il comunicato stampa diffuso l’1°
dicembre 2017 dall’importante centro studi: lo faccio perché contiene una massa di dati e di raffronti coi nostri
partner difficilmente riassumibili.
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L’industria va. La ripresa c’è come confermano tutti gli indicatori economici. Ad eccezione degli investimenti
pubblici: -32,5% in termini reali nel 2016 rispetto all’ultimo anno prima della crisi. Dal 2008 la perdita di
risorse pubbliche destinate a incrementare il capitale fisso cumulata anno dopo anno è di 74 miliardi di euro. È
l’industria uno dei baricentri della ripresa. L’incremento del 2,3% della produzione industriale italiana nel primo
semestre del 2017 è il migliore tra i principali Paesi europei (Germania e Spagna +2,1%, Regno Unito +1,9%, Francia
+1,3%). E cresce al +4,1% nel terzo trimestre dell’anno. Il valore aggiunto per addetto nel manifatturiero è
aumentato del 22,1% in sette anni, superando la produttività dei servizi. Inarrestabile è la capacità di esportare
delle aziende del made in Italy: il saldo commerciale nel 2016 è pari a 99,6 miliardi di euro, quasi il doppio del
saldo complessivo dell’export di beni (51,5 miliardi). La quota dell’Italia sull’export manifatturiero del mondo è
oggi del 3,4%, con assoluti primati in alcuni comparti: 23,5% nei materiali da costruzione in terracotta, 13,2% nel
cuoio lavorato, 12,2% nei prodotti da forno, 8,1% nelle calzature, 6,8% nei mobili, 6,4% nei macchinari.
Le filiere italiane che brillano nelle catene globali del valore. L’export italiano corre e aumentano le aziende
esportatrici: 215.708 nel 2016, circa 10.000 in più rispetto al 2007. Il 69,1% del valore esportato è appannaggio
di grandi imprese che esportano annualmente merci per un valore superiore ai 15 milioni di euro distribuite in un
numero elevato di Paesi di destinazione. Brillano la creatività per il comparto moda, la tipicità per l’alimentare,
il design nell’arredo. E nel comparto delle macchine utensili l’Italia ha raggiunto nel 2016 il 5° posto nel mondo
per valore della produzione (dopo il colosso cinese, la Germania, il Giappone e a brevissima distanza dagli Usa) e
il 3° tra i Paesi esportatori (dopo Germania e Giappone). In questo comparto sono previsti 5,9 miliardi di euro di
produzione a fine anno. Se negli anni della crisi il traino è stato l’export, nel 2017 le consegne di macchinari
sul mercato interno, scese a 1,1 miliardi di euro nel 2013, supereranno i 2,5 miliardi grazie anche al piano
Industria 4.0.
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Il benessere soggettivo. Gli italiani vivono un quieto andare nella ripresa dopo i duri anni del «taglia e
sopravvivi». Tra il 2013 e il 2016 la spesa per i consumi delle famiglie è cresciuta complessivamente di 42,4
miliardi di euro (+4% in termini reali nei tre anni), segnando la risalita dopo il grande tonfo. Non sono soldi
aggiuntivi per tornare sui passi dei consumi perduti, ma servono per accedere qui e ora a una buona qualità
quotidiana della vita. Nell’ultimo anno gli italiani hanno speso 80 miliardi di euro per la ristorazione (+5% nel
biennio 2014-2016), 29 miliardi per la cultura e il loisir (+3,8%), 25,1 miliardi per la cura e il benessere
soggettivo (parrucchieri 11,3 miliardi, prodotti cosmetici 11,2 miliardi, trattamenti di bellezza 2,5 miliardi), 25
miliardi per alberghi (+7,2%), 6,4 miliardi per pacchetti vacanze (+10,2%). Dopo gli anni del severo scrutinio dei
consumi, torna il primato dello stile di vita e del benessere soggettivo, dall’estetica al tempo libero. La somma
delle piccole cose che contano genera la felicità quotidiana: è un coccolarsi di massa. Ecco perché il 78,2% degli
italiani si dichiara molto o abbastanza soddisfatto della vita che conduce. E ora il 45,4% è pronto a spendere un
po’ di più per poter fare almeno una vacanza all’anno, il 40,8% per acquistare prodotti alimentari di qualità (Dop,
Igp, tipici), il 32,3% per mangiare in ristoranti e trattorie, il 24,7% per comprare abiti e accessori a cui tiene,
il 17,4% per il nuovo smartphone, il 16,9% per mostre, cinema, teatro, spettacoli, il 15,2% per attività sportive,
il 12,5% per abbonamenti pay tv o a piattaforme web di intrattenimento.
Come viene pagata questa felicità soggettiva quotidiana? Digitale, low cost e anche tramite le rotte cash del neo-
sommerso: nell’ultimo anno 28,5 milioni di italiani hanno acquistato in nero almeno un servizio o un prodotto. ***
La spesa culturale delle famiglie. Negli ultimi dieci anni, pur messe duramente alla prova dalla crisi, le famiglie
hanno destinato ai servizi culturali e ricreativi una spesa crescente: +12,5% nel periodo 2007-2016, contro il –
9,6% nel Regno Unito, -8,1% in Germania, -7% in Spagna (solo in Francia si è registrato un +7,7%, comunque meno che
in Italia). Nell’ultimo anno il 52,2% degli italiani (29,9 milioni) è andato al cinema: +5,1% in un anno e +6,7% di
biglietti venduti. Gli italiani visitatori di musei e mostre (il 31,1% della popolazione: 17,8 milioni) sono
aumentati del 4,1% e gli ingressi del 6,4%. Si segnala poi il boom di acquisti di device digitali: smartphone +190%
nel periodo 2007-2016, personal computer +45,8%. Gli utenti di internet che guardano film online sono aumentati dal
19,5% del 2015 al 24% nel 2017 (il 47,4% tra gli under 30). E l’11,1% degli italiani (il 20,6% degli under 30)
utilizza piattaforme digitali per lo streaming on demand.
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Turismo da record. L’Italia è sempre più attrattiva per il turismo domestico e internazionale. Nel 2016 gli arrivi
complessivi hanno sfiorato i 117 milioni e le presenze i 403 milioni, con una componente dei visitatori stranieri
attestata al 49% del totale. Rispetto al 2008 si registra un incremento degli arrivi del 22,4% e dei pernottamenti
del 7,8%. Cresce di più la componente straniera dei flussi turistici: +35,8% gli arrivi e +23,3% le presenze nel
periodo considerato. E cresce di più la componente extralberghiera della ricettività: +45,2% di arrivi dal 2008
(addirittura +64,3% di arrivi stranieri) e +10,9% di presenze, a fronte rispettivamente del +17% e +6,4% riferito
alla componente alberghiera. Sono proprio gli esercizi extralberghieri ad avere incrementato maggiormente il numero
delle strutture attive (+36,9% dal 2008) e dei posti letto disponibili (+10,1%). Nel primo semestre del 2017 gli
arrivi crescono di un ulteriore 4,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e le presenze del 5,3%: in soli
sei mesi abbiamo avuto 2,7 milioni di visitatori in più, con oltre 10 milioni di pernottamenti aggiuntivi.
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Il borsino delle città. Negli ultimi anni la popolazione residente nei capoluoghi italiani è cresciuta di più
rispetto alle cinture. Tra il 2012 e il 2017 nell’area romana gli abitanti del capoluogo sono aumentati del 9,9%,
quelli dell’hinterland del 7,2%. A Milano l’incremento demografico è stato rispettivamente del 9% e del 4%, a
Firenze del 7% e del 2,8%. L’andamento del valore aggiunto nelle città metropolitane nel periodo 2007-2014, anni in
cui il Pil del Paese è calato di 7,8 punti percentuali, mostra che le grandi aree urbane del Sud (Napoli, Palermo e
Catania) hanno subito un vero tracollo, perdendo circa il 14%. Le città metropolitane di Genova, Torino e Bari
hanno registrato un calo superiore alla media nazionale (circa 10 punti percentuali). L’area romana (-8,6%) e
quella veneziana (-7,2%) hanno avuto una dinamica negativa in linea con quella del Paese. Le città metropolitane di
Firenze (-5,3%) e Bologna (-4,7%) hanno contenuto le perdite. L’area milanese ha registrato di gran lunga la
performance migliore, con una contrazione del valore aggiunto di 2,8 punti. I divari del sistema urbano si
ampliano.
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L’Italia del rancore. Nella ripresa persistono trascinamenti inerziali da maneggiare con cura. Non si è distribuito
il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore. L’87,3% degli
italiani appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, come l’83,5% del ceto
medio e anche il 71,4% del ceto benestante. Pensano che al contrario sia facile scivolare in basso nella scala
sociale il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, il 62,1% dei più abbienti. La paura del declassamento
è il nuovo fantasma sociale. Ed è una componente costitutiva della psicologia dei millennials: l’87,3% di loro
pensa che sia molto difficile l’ascesa sociale e il 69,3% che al contrario sia molto facile il capitombolo in
basso. Allora si rimarcano le distanze dagli altri: il 66,2% dei genitori italiani si dice contrario
all’eventualità che la propria figlia sposi una persona di religione islamica, il 48,1% una più anziana di
vent’anni, il 42,4% una dello stesso sesso, il 41,4% un immigrato, il 27,2% un asiatico, il 26,8% una persona che
ha già figli, il 26% una con un livello di istruzione inferiore, il 25,6% una di origine africana, il 14,1% una con
una condizione economica più bassa. E l’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, con valori
più alti quando si scende nella scala sociale: il 72% tra le casalinghe, il 71% tra i disoccupati, il 63% tra gli
operai.
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Il rimpicciolimento del Paese. La demografia italiana è segnata dalla riduzione della natalità, dall’invecchiamento
e dal calo della popolazione. Per il secondo anno consecutivo, nel 2016 la popolazione è diminuita di 76.106
persone, dopo che nel 2015 si era ridotta di 130.061. Il tasso di natalità si è fermato a 7,8 per 1.000 residenti,
segnando un nuovo minimo storico di bambini nati (solo 473.438). La compensazione assicurata dalla maggiore
fertilità delle donne straniere si è ridotta. A fronte di un numero medio di 1,26 figli per donna italiana, il dato
delle straniere è di 1,97, ma era di 2,43 nel 2010. Nel 1991 i giovani di 0-34 anni (26,7 milioni) rappresentavano
il 47,1% della popolazione, nel 2017 sono scesi al 34,3% (20,8 milioni). Pesa anche la spinta verso l’estero: i
trasferimenti dei cittadini italiani nel 2016 sono stati 114.512, triplicati rispetto al 2010 (39.545). Il ricambio
generazionale non viene assicurato e il Paese invecchia: gli over 64 anni superano i 13,5 milioni (il 22,3% della
popolazione). E le previsioni annunciano oltre 3 milioni di anziani in più già nel 2032, quando saranno il 28,2%
della popolazione complessiva.
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Poveri immigrati. Nel nostro Paese il 14,7% della popolazione di 15-74 anni è in possesso della laurea. L’incidenza
tra gli stranieri non comunitari scende all’11,8%. Ma il dato medio europeo degli extracomunitari con istruzione
terziaria è pari al 28,5%: 21,4% in Spagna, 26,7% in Francia, 50,6% nel Regno Unito, 58,5% in Irlanda. Gli studenti
stranieri iscritti nelle università italiane sono solo il 4,4% del totale, in Germania il 7,7%, in Francia il 9,9%,
nel Regno Unito il 18,5%. Nel 2016, su 52.056 nuovi permessi rilasciati nell’Unione europea a lavoratori
qualificati, titolari di Carta blu e ricercatori, quelli emessi in Italia sono stati solo 1.288 (appena il 2,5% del
totale), nei Paesi Bassi 11.645, in Germania 6.570, in Francia 5.889, in Spagna 3.661, nel Regno Unito 1.602.
L’Italia attrae soprattutto giovani migranti scarsamente scolarizzati. Il 90% degli stranieri non comunitari che
nel nostro Paese lavorano alle dipendenze fa l’operaio (il 41% tra gli italiani), l’8,9% l’impiegato (il 48% tra
gli italiani). Manca una visione strategica che, al di là dell’emergenza e della prima accoglienza, valuti nel
medio-lungo periodo il tema della povertà dei livelli di formazione e di competenze del capitale umano che
attraiamo.
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La polarizzazione dell’occupazione. Chi ha vinto in questi anni nella ripresa dell’occupazione si trova in cima e
nel fondo della piramide professionale. Nel periodo 2011-2016 operai e artigiani diminuiscono dell’11%, gli
impiegati del 3,9%. Le professioni intellettuali invece crescono dell’11,4% e, all’opposto, aumentano gli addetti
alle vendite e ai servizi personali (+10,2%) e il personale non qualificato (+11,9%). Nell’ultimo anno l’incremento
di occupazione più rilevante riguarda gli addetti allo spostamento e alla consegna delle merci (+11,4%) nella
delivery economy. Nella ricomposizione della piramide professionale aumentano dunque le distanze tra l’area non
qualificata e il vertice. E se tra il 2006 e il 2016 il numero complessivo dei liberi professionisti è aumentato
del 26,2%, quelli con meno di 40 anni sono diminuiti del 4,4% (circa 20.000 in meno). La quota di giovani
professionisti sul totale è scesa al 31,3%: 10 punti in meno in dieci anni.
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Un paradossale gioco di specchi tra università e mercato del lavoro. Solo il 26,2% della popolazione italiana di
30-34 anni è in possesso di un titolo di studio di livello terziario: siamo penultimi in Europa, prima solo della
Romania (25,6%) e a distanza da Regno Unito (48,2%), Francia (43,6%), Spagna (40,1%) e Germania (33,2%). La scarsa
attrattività dell’istruzione terziaria in Italia scaturisce dal mismatch tra domanda e offerta di lavoro per le
qualifiche più elevate e da un’offerta basata nel nostro Paese quasi esclusivamente sui percorsi accademici e poco
professionalizzanti. Da un lato la quota di laureati è troppo bassa, dall’altro il mercato del lavoro non riesce ad
assorbirne a sufficienza. Nel 2016 solo il 12,5% delle assunzioni previste dalle imprese riguardava laureati.
Nell’ultimo anno il tasso di disoccupazione dei laureati 25-34enni è stato pari al 15,3%, non distante da quello
relativo all’intera coorte d’età (17,7%). Stipendi bassi (in media la retribuzione mensile netta dei laureati
magistrali biennali a cinque anni dalla laurea è di 1.344 euro in Italia, all’estero di 2.202 euro), ampia quota di
occupati sovraistruiti rispetto al lavoro che svolgono (il 37,6%), esiguo differenziale retributivo rispetto a chi
si ferma al diploma (+14%).
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Le tante fragilità del territorio. Un costo umano di oltre 10.000 vittime e danni economici per 290 miliardi di
euro (circa 4 miliardi all’anno) è la stima per i fenomeni sismici, franosi e alluvionali degli ultimi
settant’anni. Per ridurre il rischio idrogeologico esiste un quadro analitico di interventi (oltre 9.000)
individuati dalle Regioni e una stima delle risorse necessarie pari a 26 miliardi di euro, ma l’impegno finanziario
dello Stato su questo fronte è attualmente di circa 500 milioni di euro all’anno. L’adeguamento sismico del
patrimonio edilizio residenziale costerebbe tra 70 (zone con pericolosità media e alta) e 100 miliardi di euro
(comprese le zone con pericolosità bassa).Ci sono poi le perdite della rete idrica nazionale, pari al 39%, che
arrivano al 59,3% a Cagliari, al 54,6% a Palermo, al 54,1% a Messina, al 52,3% a Bari, al 51,6% a Catania, al 44,1%
a Roma.
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Un immaginario collettivo senza forza propulsiva. L’immaginario collettivo è l’insieme di valori e simboli in grado
di plasmare le aspirazioni individuali e i percorsi esistenziali di ciascuno, quindi di definire un’agenda sociale
condivisa. Nell’Italia del miracolo economico il ciclo espansivo era accompagnato da miti positivi che fungevano da
motore alla crescita economica e identitaria della nazione. Ma adesso l’immaginario collettivo ha perso forza
propulsiva. Nelle fasce d’età più giovani (gli under 30) i vecchi miti appaiono consumati e stinti, soppiantati
dalle nuove icone della contemporaneità. Nella mappa del nuovo immaginario i social network si posizionano al primo
posto (32,7%), poi resiste il mito del «posto fisso» (29,9%), però seguito a breve dallo smartphone (26,9%), dalla
cura del corpo (i tatuaggi e la chirurgia estetica: 23,1%) e dal selfie (21,6%), prima della casa di proprietà
(17,9%), del buon titolo di studio come strumento per accedere ai processi di ascesa sociale (14,9%) e
dell’automobile nuova come oggetto del desiderio (7,4%). Nella composizione del nuovo immaginario collettivo il
cinema è meno influente di un tempo (appena il 2,1% delle indicazioni) rispetto al ruolo egemonico conquistato dai
social network (27,1%) e più in generale da internet (26,6%). Non è polvere di immaginario, ma lo spirito dei
tempi: il punto da cui ripartire per ritrovare una direzione di marcia comune.
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Risentimento e nostalgia nella domanda politica di chi è rimasto indietro. L’onda di sfiducia che ha investito la
politica e le istituzioni non perdona nessuno: l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel
Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come
funziona la democrazia nel nostro Paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75%
giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici. Non sorprende che i gruppi sociali più destrutturati dalla
crisi, dalla rivoluzione tecnologica e dai processi della globalizzazione siano anche i più sensibili alle sirene
del populismo e del sovranismo. L’astioso impoverimento del linguaggio rivela non solo il rigetto del ceto
dirigente, ma anche la richiesta di attenzione da parte di soggetti che si sentono esclusi dalla dialettica socio-
politica.
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Proprio questa dilagante sfiducia ha probabilmente spinto il 55% degli elettori a votare per partiti che lanciano
programmi basati su scorciatoie: espulsione degli immigrati, riduzione generalizzata delle imposte, aumento
incondizionato della spesa pubblica, reddito di cittadinanza, dazi che impediscano l’ingresso di merci dall’estero,
abbandono della moneta unica.
chi si sente escluso dalla ripresa economica in atto, chi ha perso il lavoro a 50 anni e non ha prospettive d’un
reimpiego, chi ha fatto lavoretti poco qualificati e malpagati sente d’esser in credito verso la società e vuol
esser ripagato.
Occorrerà un po’ di tempo per capire che strada sarà intrapresa dal nuovo Parlamento e dalla nuova maggioranza che
in esso si formerà: è però molto probabile che alcune delle promesse fatte in campagna elettorale, che hanno
sedotto la maggior parte degli elettori, saranno messe da parte.
PIER LUIGI GIACOMONI