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RD CONGO, IL PIU’ GRANDE SELF-SERVICE DEL MONDO
(24 Febbraio 2020)

KINSHASA. La Repubblica Democratica del Congo, gigantesco Stato dell’Africa equatoriale è probabilmente il più grande self-service del mondo: a causa delle enormi riserve di materie prime, presenti nel suo sottosuolo, tutti hanno cercato di prelevarne un po’, onde far fronte a proprie specifiche necessità.

Nell’Ottocento, Leopoldo II, Re dei Belgi, acquistò il territorio come se fosse una sua proprietà e vi impose il lavoro forzato nelle piantagioni; nel Novecento, gli Stati Uniti prelevarono l’uranio che servì alla fabbricazione delle bombe atomiche che poi furono sganciate sulle città giapponesi; dopo la precipitosa indipendenza del colosso centrafricano, fu una corsa ad accaparrarsi diamanti, oro, rame, stagno, cobalto, petrolio, coltan…, approfittando della scarsa capacità dello Stato di controllare il vasto territorio e la notevole disponibiltà delle élites dirigenti a farsi corrompere.

Sessant’anni fa, dunque, il Congo diviene uno Stato indipendente: il 30 Giugno 1960 il Re del Belgio Baldovino consegna al primo Presidente della Repubblica Joseph Kasavubu il testimone della sovranità nazionale.

Il Paese, in particolare la giovane classe dirigente che sale al potere, è impreparata a gestire la nuova situazione, per cui la gioia per l’indipendenza conquistata presto si tramuterà in angoscia.

Pochi giorni dopo la grande festa, scoppieranno i primi disordini ed il sangue comincerà a scorrere.

Il nuovo governo deve dirigere un territorio sterminato 2,3 milioni di kmq. per 14 milioni d’abitanti, distribuiti in un’area caratterizzata dal bacino del fiume Congo, uno dei maggiori dell’Africa, con foreste, laghi, montagne, strade e linee ferroviarie.

La popolazione, suddivisa in quasi 400 etnie che parlano lingue diverse, spesso subisce le conseguenze di conflitti tra milizie diverse che non esitano ad infliggere ai civili sofferenze indicibili.

Kinshasa, la capitale, allora chiamata Léopoldville, non è nemmeno situata nel centro del Paese per cui il controllo del territorio da parte delle autorità centrali è fin dall’inizio assai difficoltoso, anche perché la Force Publique, l’unica forza di polizia e di difesa disponibile, è male organizzata e gestita da un belga.

Si comprende perciò fin dai primi giorni che il cammino della nuova Repubblica sarà assai accidentato.

In sessant’anni di storia il Congo cambierà nome cinque volte, muterà bandiera ed inno nazionale e vivrà sempre a rischio d’andare in frantumi o d’inabissarsi nell’anarchia più incontrollata: proviamo a ripercorrerne la complessa storia, partendo dal momento in cui nasce la rivendicazione dell’indipendenza.

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DECOLONIZZAZIONE RITARDATA, INDIPENDENZA PRECIPITOSA.

Per il Belgio degli anni Cinquanta, il congo è un territorio che non è ancora pronto per l’indipendenza: a Bruxelles c’è chi pensa che, forse, nel 1985 sarà il momento di dare ai Congolesi l’autogoverno. Il mondo, però, sta andando in un’altra direzione. Dopo la seconda guerra mondiale in Asia diversi Stati han conquistato l’indipendenza e la stessa cosa sta accadendo in Nord Africa.

Nel 1955 a Bandung, in Indonesia, i leader del Movimento dei Non allineati si riuniscono ed annunciano che faranno il possibile perché scompaiano gl’imperi coloniali: la radio diviene il megafono che diffonde dappertutto le parole d’ordine dei movimenti di liberazione. Le grandi potenze uscite vincitrici dall’ultimo conflitto mondiale, Stati Uniti ed Unione Sovietica, fanno di tutto per sostenere il movimento anticoloniale al fine d’indebolire i Paesi europei che l’avevano fatta da padrone negli ultimi secoli.

Nel 1957, la Costa d’Oro, poi ribattezzata Ghana, si proclama indipendente: è il primo territorio dell’Africa subsahariana ad emanciparsi dai colonizzatori: il suo leader Kwame Nkrumah (1909-1972) si farà paladino del panafricanismo, cioè d’un ideologia che predica l’unità di tutta l’Africa.

Fermenti autonomistici pervadono anche le colonie francesi: Charles de Gaulle, divenuto Presidente francese, comprendendo da lungimirante statista che l’aria sta cambiando dichiara a Brazzaville, nel Congo Francese con parole che son passate alla storia: «L’indipendenza, chiunque la vorrà, potrà prendersela!».

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LA CORSA.

Fino al ’55, però, i congolesi non pensano a decolonizzarsi, ma all’improvviso sulla rivista del movimento operaio cattolico fiammingo, appare un articolo col titolo “Un piano trentennale per l’emancipazione dell’Africa belga”, che tradotto successivamente in francese, la lingua insegnata agli evoluées, cioè coloro che hanno studiato, fungerà da base ideologica per le successive rivendicazioni.

L’autore è Jef van Bilsen, un corrispondente dell’agenzia di stampa belga che ha lavorato a lungo in Congo ed insegna all’istituto universitario per i futuri funzionari coloniali. «L’articolo – narra David van Reybrouck – suggeriva che la colonia doveva finalmente farsi carico di formare una classe superiore di intellettuali, impegnandosi a fondo per preparare una generazione di ingegneri, ufficiali, medici, politici e funzionari per far sì che il Congo, intorno all’anno 1985, fosse più o meno in grado di camminare sulle proprie gambe.» (D. van Reybrouck, Congo, Feltrinelli, Milano, 2014).

A Bruxelles ci si rende conto che bisogna correre ai ripari prima che la situazione sfugga di mano: nel 1957 vengono indette le elezioni amministrative per designare sindaci e consigli comunali in diverse città della colonia e ciò porta un uomo come Joseph Kasavubu (1910 circa-1969), leader dei Bakongo ad essere eletto sindaco in rappresentanza dell’Abako, il partito della sua etnìa.

Nel 1958, durante l’expo universale tenutosi nella capitale belga ben 300 congolesi, provenienti da diverse province della colonia, s’incontrano fra loro ed avviano un dialogo, gettando le basi per una coalizione nazionale che prema sul Regno di Baldovino affinché lasci libera la colonia. Intanto la tensione a Kinshasa (allora Léopoldville) cresce fino al punto da sfociare nel gennaio 1959 in scontri in cui perdono la vita decine di congolesi. A quel punto Re Baldovino, con un discorso radiotrasmesso dichiara: «La nostra ferma risoluzione è oggi di condurre senza funeste lentezze, ma senza precipitazione sconsiderata, le popolazioni congolesi all’indipendenza nella prosperità e nella pace.»

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LE TAVOLE ROTONDE.

Il motore della separazione da quel momento prende velocità: il 20 gennaio 1960 si riunisce a Bruxelles una prima “tavola rotonda” belga-congolese che fissa la data della piena sovranità per il successivo 30 giugno, dispone che prima si tengano delle elezioni politiche per un nuovo Parlamento bicamerale e stabilisce che lo Stato sarà per il momento unitario. Sarà però una successiva “tavola rotonda” a segnare il destino del nuovo Stato: si riunirà a maggio, mentre è in corso la campagna elettorale e vedrà da un lato inviati congolesi non particolarmente esperti d’economia, negoziare con finanzieri smaliziati e ben decisi a difendere i loro interessi su quale futuro avranno le proprietà della colonia quando il Congo non sarà più belga.

Commenterà più tardi Joseph Désiré Mobutu, che era stato inviato da Lumumba alle riunioni di Bruxelles:

«Ed eccomi lì, povero piccolo giornalista ancora rozzo, seduto allo stesso tavolo dei maggiori squali della finanza belga! Non avevo nessuna formazione finanziaria e nemmeno i miei compagni di delegazione che rappresentavano gli altri movimenti congolesi. Non è uno dei migliori ricordi della mia vita. Dal 26 aprile al 16 maggio discutemmo un passo alla volta, ma io sembravo uno di quei cowboy che nei western si fa spennare ogni volta da professionisti della truffa. Discutevamo fino a notte fonda, e il mattino dopo apprendevamo che il Parlamento belga nel frattempo aveva preso delle decisioni che scavalcavano le negoziazioni. Dovevamo batterci per tutto. […] Ovviamente ci facemmo fregare. Grazie a tutta una serie di astuzie giuridiche e tecniche, i nostri interlocutori riuscirono a conservare interamente il dominio delle multinazionali e dei capitalisti belgi.»

«La Tavola rotonda economica – scrive Reybrouck – fu soprattutto un tentativo da parte di Bruxelles di salvare il salvabile. Il Belgio voleva mettere al sicuro i suoi interessi commerciali in Congo e riteneva che le aziende belghe dovessero essere libere di stabilire l’ubicazione della loro sede sociale dopo il 1960.
Le aziende avevano facoltà di scegliere se dipendere dal diritto congolese o da quello belga. Questa misura venne imposta come un fatto compiuto”. La maggior parte delle imprese optò per il Belgio, temendo l’instabilità fiscale in Congo o, ancora peggio, la nazionalizzazione. Sin dai tempi di Leopoldo II il Congo era stato un laboratorio per l’economia del mercato libero. Le imprese beneficiavano di un regime fiscale favorevole con interventi minimi da parte dello stato. Grandi gruppi, con in testa la Générale, conobbero tempi di capitalismo sfrenato. Persino laddove lo stato coloniale era il principale azionista, per esempio nel caso del potente Comité Spécial del Katanga, esso in pratica lasciava il potere agli uomini d’affari. Con l’indipendenza all’orizzonte molti capi d’impresa temevano che i giorni della loro autonomia e delle loro eccellenti relazioni con le autorità fossero contati. Rimasero attivi in loco, ma optarono per una sede sociale in Belgio, assoggettando così la loro impresa al diritto belga invece che a quello congolese. A causa di questo trasferimento il Tesoro congolese vide sparire una parte consistente di entrate fiscali.

Fu messo sul tavolo, durante le discussioni, anche lo status di “portafoglio coloniale”. Questo faceva riferimento ai considerevoli pacchetti di azioni posseduti dal Congo Belga in un buon numero di aziende coloniali (miniere, piantagioni, ferrovie, fabbriche). Che cosa bisognava farne? Non appena il Congo Belga fosse diventato il Congo, queste azioni sarebbero state proprietà del nuovo stato. Non sembrava una buona idea ai politici e ai dirigenti delle aziende del Belgio, che riuscirono a convincere i delegati congolesi che la cosa migliore era ritirare queste partecipazioni statali e collocarle in una nuova società di sviluppo belga-congolese. Fu un’abile mossa per tenersi ben stretto il portafoglio. Anche in questo caso, in campo congolese, si fece sentire la mancanza di competenze economiche. Persone che avevano studiato al massimo psicologia si trovarono a dover risolvere problemi macroeconomici cruciali. “Personalità di secondo rango,” fu il giudizio dell’allora primo ministro Eyskens.

Il peggio doveva ancora arrivare, come si vide qualche settimana dopo. Il 27 giugno 1960, tre giorni prima dell’indipendenza, il Parlamento belga – con l’approvazione del governo congolese, si noti bene – sciolse il Comité Spécial del Katanga. Una cantonata colossale per il Congo! Il nuovo stato perdeva in tal modo il suo controllo sul gigante minerario Union Minière, il motore dell’economia nazionale. Come si arrivò a ciò? Il Csk era in sostanza una società pubblica che, in Katanga, assegnava concessioni a imprese private in cambio di azioni, acquisendo così una partecipazione maggioritaria nell’Union Minière e quindi potere decisionale. In pratica faceva poco uso del diritto a una partecipazione attiva: lo stato coloniale si affidava di solito alla competenza del mondo degli affari. Adesso che il Congo minacciava di diventare indipendente, si concretizzava il pericolo che il nuovo stato interferisse realmente nelle attività dell’Union Minière e di tutte le sue filiali. Abolendo il Csk si eliminava questo rischio. […] Il Congo rimase ancora parzialmente proprietario, ma in quanto azionista di minoranza ottenne molto meno potere e guadagni rispetto ai grandi trust belgi, come la Générale. In tal modo non si privò solamente di svariati milioni di dollari, ma anche della possibilità di mettere l’industria al servizio del paese.

Travolto dal vortice dell’ignoranza, il paese si avvicinava all’abisso dell’indipendenza. Era in possesso delle chiavi politiche, ma quelle economiche erano state messe al sicuro in Belgio. Un giorno dopo quella mossa incredibilmente scaltra, entrambi i paesi firmarono comunque un “trattato di amicizia” che parlava di aiuti e di assistenza.» (D. van Reybrouck, op. cit.)

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OGGI, LA LIBERTA’!

Il 30 Giugno 1960, dunque, il Belgio concede l’indipendenza al Congo: pochi giorni prima il 23 il nuovo parlamento di Léopoldville dà la fiducia al governo di Patrice Lumumba (1925-1961), un esecutivo di grande coalizione di cui fanno parte tutti i principali partiti politici usciti dalle elezioni generali di maggio; il 26 Kasavubu giura come Presidente.

Alla cerimonia d’indipendenza partecipa anche Re Baldovino che pronuncia un discorso nel quale rende omaggio alla figura del suo predecessore Leopoldo II, il re ottocentesco che aveva fatto del Congo una sua proprietà ed imposto il regime del lavoro forzato. Chi applaude le parole del sovrano belga lo fa per rispetto e cortesia, poi parla Kasavubu e pronuncia parole moderate, ma improvvisamente, non previsto dal protocollo prende la parola Lumumba e con crudezza ricostruisce la storia coloniale del Congo rinfacciando al Belgio tutte le proprie colpe:

«Se è vero che oggi proclamiamo la nostra indipendenza – dichiara – d’intesa con il Belgio, paese amico con cui ora trattiamo da pari a pari, è altrettanto vero che nessun congolese degno di questo nome potrà mai dimenticare che l’indipendenza è stata conquistata lottando giorno per giorno, con una lotta ardente e idealista, in cui non abbiamo lesinato né forze, né sofferenze, né sacrifici, né sangue.

[…] Di questa lotta, che è stata di lacrime, sangue e fuoco, noi siamo fieri sin nel profondo del nostro animo, perché è stata una lotta nobile e giusta, e indispensabile per mettere fine all’umiliante schiavitù che ci hanno imposto con la forza.

Questa è stata la nostra sorte in ottant’anni di regime coloniale, e le nostre ferite sono troppo fresche e dolorose per poter essere cancellate dalla nostra memoria. Abbiamo conosciuto il lavoro estenuante e forzato in cambio di salari che non ci permettevano di mangiare, vestire e abitare con dignità, né di educare i nostri figli come avremmo voluto.

Abbiamo conosciuto le ironie, gli insulti, le sferzate che dovevamo subire la mattina, il pomeriggio e la sera perché eravamo negri. Chi potrà mai dimenticare che al negro si dava del “tu”, non come a un amico, ma perché l’onorevole “voi” era riservato solo ai bianchi?

Abbiamo visto saccheggiare le nostre terre in nome di testi falsamente legali, che riconoscevano solo il diritto del più forte. Abbiamo visto come la legge non era mai la stessa, ma diversa per i bianchi e per i negri: accomodante per i primi, crudele e disumana per i secondi.

Abbiamo conosciuto le sofferenze atroci di persone a causa della loro opinione politica o della loro fede religiosa, esuli nella loro stessa patria, con una sorte peggiore della stessa morte.

Abbiamo visto nelle città case magnifiche per i bianchi e capanne decrepite per i neri, sappiamo che un nero non era ammesso nei cosiddetti cinema, ristoranti e negozi europei, che un nero doveva viaggiare nelle stive dei battelli fluviali, ai piedi delle lussuose cabine dei bianchi.»

Le parole di Lumumba sono adatte ad infiammare gli animi, ma anche a gettar nel panico i bianchi che risiedono nel Paese: infatti, molti di loro se ne vanno ancor prima che scoppino i tumulti che lo devasteranno fino al 1965.

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IL CONGO ALL’ATTO DELL’INDIPENDENZA.

Il primo governo del Congo eredita dal Belgio un paese con un’infrastruttura ben sviluppata: sono stati costruiti più di 14mila km. di ferrovie e più di 140mila km. di autostrade e strade, ci sono più di 40 aeroporti e aerodromi e più di 100 centrali idroelettriche e a vapore, si è sviluppata un’industria moderna (leader mondiale nel settore dell’estrazione e lavorazione del diamante, terzo produttore di rame del pianeta), accanto a un nascente sistema di sanità pubblica (300 ospedali per gli autoctoni, più centri medici e di maternità) e un grado di alfabetizzazione molto elevato (1,7 milioni di alunni nella scuola primaria nel 1959) – realizzazioni senz’altro impressionanti se paragonate alla situazione in altre colonie africane. L’esercito inoltre, nel corso delle due guerre mondiali, ha registrato importanti successi. Tuttavia, a che serve un paese così moderno se nessuno sa come gestirlo? Il giorno dell’indipendenza il Congo conta solo sedici laureati all’università. Certo, ci sono centinaia d’infermieri e impiegati dell’amministrazione con una buona formazione, ma la Force Publique non ha nemmeno un ufficiale nero. Non c’è un solo medico indigeno, né un ingegnere, un giurista, un agronomo o un economista autoctoni.

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LE ELEZIONI ED IL NUOVO GOVERNO.

Le elezioni politiche tenutesi alla fine di maggio evidenziano da un lato una massiccia affluenza alle urne, ma dall’altro presentano un quadro inquietante. Fatta eccezione per il MNC di Patrice Lumumba, i grandi vincitori delle legislative sono i partiti regionali con tendenze più o meno separatiste. L’Abako vince nel Basso Congo, la Conakat nel sud del Katanga, il Balubakat nel nord, il MNC di Kalonji nel Kasai, il Cerea nel Kivu e lo PSA nel Kwilu. Questi ultimi due non sono dei partiti tribali veri e propri, ma nelle regioni del Kivu e del Kwilu, molto frammentate sul piano etnico, offrono una sorta di slancio sovratribale. «La carta elettorale del Congo – commenta Reybrouck – nel 1960 coincideva quindi in gran parte con le carte etnografiche che gli scienziati avevano redatto mezzo secolo prima. Questo riflesso tribale non deve essere considerato come un fenomeno atavico. […]
In un paese sterminato come il Congo, in cui il grosso della popolazione aveva sì e no un’istruzione primaria, non stupisce questa preferenza per personalità locali.»

Le tre personalità più forti premiate dalle urne sono Kasavubu, Lumumba e Moise Tshombe (1919-1969), futuro leader del separatismo katanghese. Kasavubu controlla l’ovest del paese, Lumumba il nord-est e il centro, Tshombe l’estremo sud. Ciò corrisponde alle città più grandi: Léopoldville, Stanleyville, Elisabethville. I partiti più piccoli si dividono le zone rurali situate tra quelle città.

Questa parcellizzazione non facilita la formazione d’un governo. Nessun partito ha la maggioranza assoluta (la vittoria schiacciante di Lumumba non gli assicura che un terzo degli eletti in cinque delle sei province, nel Katanga non attecchisce per nulla) e non ci sono i numeri nemmeno per una semplice coalizione con alcuni alleati. Sono perciò necessarie lunghe consultazioni. Inoltre, il potere belga rimane molto deluso dal fatto che Lumumba, considerato un demagogo pericoloso per la sicurezza dello stato, sia riuscito a catalizzare tanti consensi elettorali su di sé. Bruxelles arriva persino a nominare appositamente un nuovo ministro residente, W. J. Ganshof van der Meersch, e ad inviarlo in Congo per interferire nella formazione del governo. Sulla stessa falsariga, per ogni evenienza sono inviate truppe belghe nella colonia. Lumumba mostra assai chiaramente di non gradire. Tra i due uomini monta un grande risentimento. Dopo il fallimento del primo tentativo di mettere in piedi un Ministero, affidato a Kasavubu, il secondo mandato per formare una coalizione tocca a Lumumba, che si accolla il compito quasi impossibile di riunire le personalità più disparate in una sola compagine ministeriale. Ad una settimana dall’indipendenza, il ministro residente ancora spera che Lumumba non diventi primo ministro.

Ma il 23 giugno il primo esecutivo del Congo è un fatto. Esso conta 23 ministri, nove segretari di stato e quattro ministri inferiori, funzioni distribuite tra ben dodici partiti. Come accade sovente in caso di compromessi faticosi, questa soluzione arreca più svantaggi che vantaggi. A Bolikango, il decano degli anziani dall’Equatore che ha guidato il fronte comune a Bruxelles, all’ultimo momento è tolta sotto il naso la carica di presidente della Repubblica. D’altronde a Lumumba serve come l’aria l’appoggio dell’Abako e se lo procura con un compromesso: se Kasavubu è disponibile a rinunciare alle sue aspirazioni secessioniste, sarà Capo dello Stato. Per il momento accetta, salvo poi ingaggiare per anni incessanti conflitti di potere coi diversi Premier che si succedono, a partire, come vedremo, dallo stesso Lumumba.

Questi, il grande vincitore delle elezioni politiche, per qualche mese è presidente del Consiglio e Ministro della Difesa. Tshombe, dal canto suo, appresa la composizione del Ministero, si rende conto d’esser rimasto a bocca asciutta, perché deve accontentarsi d’un solo dicastero ed una segreteria di Stato. Il suo Katanga, che assicura gran parte delle entrate nazionali, riceve ben poco in cambio dell’appoggio dato all’amministrazione centrale: quest’affronto presto sarà vendicato con la secessione della più importante regione mineraria del nuovo Congo.

La squadra di governo non è soltanto eterogenea e divisa al suo interno, ma anche incredibilmente giovane. Tre quarti dei componenti hanno meno di 35 anni ed uno solo 26. Si tratta di Thomas Kanza, il primo congolese con un diploma universitario in tasca. Diventa ambasciatore presso le Nazioni Unite, una carica che durante i mesi che seguiranno l’indipendenza si rivelerà di primo piano. Il ministro più anziano è Pascal Nkayi, che comunque ha solo 59 anni: è titolare delle Finanze, dopo una vita trascorsa come impiegato all’amministrazione delle poste. Anche nel Parlamento primeggia una nuova élite: solamente tre dei 137 deputati sono capi tradizionali.

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UNO STATO DA EDIFICARE.

i compiti del nuovo esecutivo sono sterminati e ci si accorge presto che non ha le forze per portarli a compimento: in poche settimane bisogna varare una nuova Costituzione, costruire dei ministeri, formare un corpo diplomatico, indìre elezioni provinciali e nazionali, istituire una moneta nazionale e una banca centrale, oltre a concepire timbri postali, patenti, targhe automobilistiche e un catasto.

Inoltre, bisogna creare un esercito ed una polizia: la Force Publique non è al momento in grado d’assicurare l’ordine anche perché al suo interno serpeggia l’insoddisfazione per i salari e per il fatto che al posto di comando vi è ancora un bianco.

Svaporato l’entusiasmo per l’indipendenza, il 4 luglio 1960 i militi della FP si ammutinano e Lumumba, che come detto è anche titolare della Difesa, per spegnere l’insurrezione da un lato promette incrementi salariali e promozioni per tutti, dall’altro destituisce il comandante belga e colloca al suo posto Joseph Désiré Mobutu (1930-1997), suo segretario particolare che,come vedremo più oltre, giocherà un ruolo di primo piano sia nella caduta di Lumumba, sia nell’intera storia della repubblica congolese.

I soldati però non sono soddisfatti e la ribellione si allarga determinando un clima generalizzato di caos.
Contemporaneamente, l’11 luglio è proclamata unilateralmente l’indipendenza del Katanga e in agosto quella del Kasai. Il Congo, appena divenuto Stato sovrano pare già destinato ad andare in frantumi.

Nella capitale il funzionariato belga che fin a quel momento ha amministrato il territorio, se ne va lasciando Lumumba e i suoi ministri senza apparato amministrativo: in poche parole un vero disastro.

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IL PRIMO COLPO DI STATO.

Violenze, massacri, dissidi per il potere tra Presidente e Primo Ministro creano in poche settimane le condizioni per il primo colpo di Stato della storia dell’Africa indipendente.

Il 5 settembre 1960 il Presidente Kasavubu destituisce il capo del governo e ne nomina un altro: nelfrattempo le Nazioni Unite hanno deciso l’invio di caschi blu per dividere i contendenti sul terreno. Lumumba, in un primo tempo rifiuta d’abbandonare la carica ma il 14 Settembre la Force Publique attua un putsch: il Premier è costretto agli arresti domiciliari, protetto dai militi dell’ONU, mentre viene varato un esecutivo di tecnici che gestirà il potere in via transitoria.

E’ il primo di una lunga serie di colpi di Stato che costelleranno la storia dell’Africa nera contemporanea: grande protagonista di questa fase è proprio quel Mobutu che Lumumba ha incaricato d’assicurare l’ordine pubblico nel mese di luglio. Lo rivedremo presto all’opera.

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LA MORTE DI LUMUMBA.

Il Katanga, dal canto suo, diviene gradualmente uno Stato fantoccio nelle mani dell’Union Minière e trova sostegno nei regimi segregazionisti che dominano l’Africa Australe. Moise Tshombe organizza un esercito formato di mercenari bianchi, filonazisti, che intendono preservare i privilegi della comunità bianca, sottraendo comunque il controllo della provincia alle autorità di Léopoldville.

Intanto, si consuma il destino di Lumumba: a novembre, approfittando d’una notte di piogge torrenziali s’allontana dalla sua abitazione, circondata dai caschi blu dell’ONU che lo proteggono finché vi si trova dentro ed intraprende un viaggio verso la provincia di Stanleyville, dove Antoine Gizenga ha creato un governo separatista lumumbista.
Mobutu, informato, fa arrestare Lumumba e lo consegna ai katanghesi affinché l’eliminino.

Il 17 gennaio 1961 Patrice lumumba, dopo esser stato torturato, viene ucciso e il suo corpo verrà sciolto nell’acido.

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LA GUERRA CIVILE CONTINUA.

La guerra prosegue per altri due anni finché non vengon domate nel 1963 le secessioni del Kasai e del Katanga, anche grazie all’intervento degli Stati Uniti. Tshombe va esule in Spagna dove trova ospitalità da Francisco Franco. Rientrerà in Congo l’anno successivo quando un’altra ribellione, quella di Pierre Mulele, si dimostrerà particolarmente pericolosa per l’integrità del Paese.

Repressa la rivolta di Mulele che andrà in esilio nell’altro Congo, Tshombe riesce anche ad ottenere dai Belgi, con un serrato negoziato, il “portafoglio” ossia quei pacchetti azionari che erano stati portati via al nascente Stato alla vigilia dell’indipendenza con la seconda “tavola rotonda”.

Quando sembra che la pace stia finalmente tornando ecco di nuovo deflagrare il conflitto tra Presidente e Primo Ministro: il 13 ottobre 1965 Kasavubu rimuove Tshombe dalla presidenza del governo e lo rimpiazza con una figura di secondo piano. Poche settimane dopo, il 25 novembre Mobutu attua un nuovo colpo di Stato: in pochi mesi la costituzione è sospesa ed il potere si concentra nelle mani dell’uomo che, segretamente, è anche diventato il referente della CIA nell’Africa equatoriale.

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IL REGNO DEL GRANDE LEOPARDO.

Da quel 25 Novembre il potere passa per più di trent’anni nelle mani di Joseph Désiré Mobutu che l’eserciterà senza freni e scrupoli. Mobutu, contando sull’appoggio della popolazione che è stanca delle continue guerre, ha rapidamente ragione dei separatismi, tuttavia, acquisendo sempre più potere, impone un regime totalitario. tutti i partiti vengono cancellati: al loro posto ne viene creato uno a cui i congolesi sono iscritti in quanto residenti nel Paese. l’MPR (Movimento Popolare della Rivoluzione).

La propaganda diviene assillante, mentre la polizia segreta colpisce gli oppositori: prima di tutto vengono eliminati i possibili rivali del leader, Kasavubu, Tshombe, Mulele, poi ogni tentativo di rivolta, come quelle degli studenti universitari, nel 1969, vengono schiacciate senza pietà.

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SI CAMBIA NOME.

Nel ’71, Mobutu cambia il nome al Paese ribattezzandolo Zaire: la stessa cosa stanno facendo o faranno altri despoti africani.
Nasce così il Benin al posto del Dahomey, il Malawi al posto del Nyassaland, lo Zambia invece della rhodesia del Nord. Negli anni Ottanta la Rhodesia diverrà Zimbabwe, mentre l’alto Volta sarà ribattezzato Burkina Faso.

Se in alcuni casi il cambiamento del nome è giustificato perché la vecchia denominazione richiama imbarazzanti echi coloniali, nel caso della Repubblica del Congo la faccenda ha risvolti grotteschi: «Il Padre della Rivoluzione – scrive Reybrouck – si era basato su uno dei più antichi documenti scritti: una cartina portoghese del sedicesimo secolo. Lì l’ampio fiume [il Congo NDR] che serpeggiava nella sua terra veniva indicato come “Zaire”. Ma, poco dopo il cambiamento di nome, Mobutu scoprì che si era trattato di una stupidaggine: Zaire era lo spelling sbilenco della parola nzadi, una comunissima parola che in lingua kongo significa “fiume”. Quando, nei pressi della foce, i portoghesi chiesero agli indigeni come si chiamasse quella grande, vorticosa massa di acqua, quelli risposero semplicemente “fiume”: nzadi, ripetevano. Zaire, capirono i portoghesi. […] Zaire, quindi, così si chiamava il paese, e da allora anche il fiume, la moneta, le sigarette, i preservativi e così via. Un nome bizzarro, con quell’insolita z e quella dieresi (in francese) fastidiosa. Se lo dovevi battere con una macchina per scrivere, ti veniva sopra la i una sacra trinità di punti.»

In nome dell’ideologia dell’autenticité è imposto il mutamento dei nomi alle città ed anche ai piccoli centri: Léopoldville, tra gli altri, divenne Kinshasa, Stanleyville Kisangani e Elisabethville Lubumbashi.

Anche le persone devono rinunciare ai loro nomi di battesimo di derivazione cristiana: lo stesso Mobutu cancella Joseph Désiré e, per dare l’esempio diventa Mobutu Sese Seko Nkuku Ngbendu wa Za Banga, «il potente guerriero che grazie alla sua resistenza e alla sua voglia di vincere vola verso la vittoria e lascia solo il fuoco dietro di sé» (oppure: «il gallo che non lascia in pace nessuna gallina”, a seconda della traduzione).

La sua prima moglie, che ha una forte personalità, fa sapere che non ha intenzione di chiamarsi in modo diverso: «Il mio nome è Marie-Antoinette e non lo cambierò».

Il “recours à l’autenticité è l’ideologia di Stato da studiarsi nelle scuole: per questo è redatto il Manifeste de la Nsele, che, come il libretto rosso di Mao o quello verde di Gheddafi, contiene il verbo del leader, per il quale il Ministero dell’informazione produce una propaganda che ne esalta le gesta, coltivando il culto della personalità.

Dopo una visita in Cina nel 1973, il “grande Leopardo”, come si fa anche chiamare per la sua abitudine di portare in testa un copricapo fatto di pelliccia di leopardo, impone agli zairesi di cambiare abbigliamento,di mangiare solo cibi cucinati alla zairese ed arriva a nazionalizzare tutte le proprietà straniere operanti sul territorio: è la politica della zairesizzazione.

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CONTRO LA CHIESA CATTOLICA.

Mobutu apre un conflitto anche con la chiesa cattolica, che pure in un primo momento l’ha appoggiato: un mese dopo il colpo di Stato, il cardinal Malula infatti annuncia solennemente: «Signor Presidente, la chiesa riconosce la Sua autorità, perché l’autorità viene da Dio. Noi applicheremo fedelmente le leggi che lei vorrà emanare». Ma sei anni dopo, il 16 gennaio 1972, lo stesso Malula tiene una sferzante predica contro il regime. Mobutu è furibondo. Caccia immediatamente Malula dall’Ordre du Léopard, lo confina all’estero e vieta ai cristiani di pregare per il loro arcivescovo. Non sarebbe servito. La chiesa sarebbe stata per molto tempo il critico più violento del regime. I vescovi sanno d’essere sostenuti dal loro network internazionale, inoltre continuano a controllare l’istruzione. Mobutu fa di tutto per contenere il potere della Chiesa (le scuole delle missioni debbon esser dirette da uno zairese, i crocifissi son arsi, i seminaristi obbligati ad aderire alla gioventù Mpr, i movimenti giovanili cristiani sciolti, il Natale è giorno lavorativo e persino tutte le riunioni religiose, fatta eccezione per la messa e la confessione, tabù). Quando tutto ciò si rivela inefficace, il Leader cambia tattica: offre ai vescovi di far parte dell’amministrazione statale o regala loro semplicemente jeep e limousine.

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EFFIMERA RINASCITA, POI IL TRACOLLO.

Dopo il colpo di Stato, il Congo pare rinascere dopo gli anni oscuri della guerra civile. Mobutu stesso esibisce uno stile diverso. Poco dopo il 25 Novembre ’65 parla alle masse nel grande stadio di calcio di Kinshasa. Qui prende la parola un giovanotto magro, che non indossa costosi smoking ma un’uniforme kaki dell’esercito con il berretto.

Mobutu parla con grande enfasi per evocare «gli sterili conflitti dei politici che hanno sacrificato la loro terra e i loro connazionali per il proprio tornaconto.» Il pubblico può solo esser d’accordo. «Non contava nulla per loro, solo il potere e quello che gli avrebbe fruttato. Riempirsi le tasche, sfruttare il Congo e i congolesi, questo era il loro motto.»

Mobutu dice le cose come stanno. Il suo linguaggio è forte, i suoi ragionamenti chiari. «Vi dirò sempre la verità, per quanto sia dura. Bisogna finirla di assicurarvi che tutto va bene mentre invece tutto va male. E ve lo dico subito: nel nostro amato paese va tutto veramente malissimo.»

Poi offre allo stadio stracolmo una lezione di economia nazionale. Snocciola cifre raggelanti. La produzione di mais, riso, manioca, cotone e olio di palma è drammaticamente diminuita. Le spese statali aumentate esponenzialmente. Il potere d’acquisto crollato, la corruzione galoppante. Così non si può continuare. «Situazione eccezionale, misure eccezionali, e in ogni ambito.»

Mobutu sospende la politica dei partiti per cinque anni. A quei tempi vuole rimettere il paese in carreggiata, ma per farlo ha bisogno dell’aiuto di ogni singolo uomo o donna. «Per realizzare questo piano di risanamento abbiamo bisogno di braccia, molte braccia.» Mobutu si rimbocca le maniche dell’uniforme per dare il buon esempio. «Ci rivediamo qui tra cinque anni. Tra cinque anni vedrete la differenza tra la prima e la seconda legislatura. Sono sicuro che constaterete che il Congo di oggi con le sue disgrazie, la fame e le sue avversità sarà diventato un paese ricco e benestante dove si vive bene e tutto il mondo ce lo invidierà.».

Nessun politico dopo Lumumba ha parlato in modo così appassionato nella capitale. Mobutu possiede il linguaggio graffiante di Lumumba e l’integra con un programma concreto. Trasmette fiducia e determinazione. Il Congo sarebbe diventato un paese moderno.

Grazie alle esportazioni di rame ed alla crescita del suo prezzo sui mercati internazionali, favorito dalla guerra del Vietnam (già in passato altre guerre avevano foraggiato l’economia del territorio), per una decina d’anni l’economia congolese va a gonfie vele, però con gli anni Settanta emergono le distorsioni di un regime che per mantenersi al potere ha bisogno di denaro per pagare coloro che lo sostengono e stroncare sul nascere ogni velleità insurrezionale.

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LA CLEPTOCRAZIA.

La nazionalizzazione dell’Union Minière e la successiva zairizzazione dell’economia mettono nelle mani di Mobutu e del suo vasto entourage una montagna di denaro che il leader distribuisce a piene mani: si crea così col tempo una borghesia totalmente dipendente dal Presidente. Lo shock petrolifero del ’74 e del ’79 e la fine della guerra vietnamita mettono a nudo la completa dipendenza del paese dalle esportazioni e dimostrano che per la popolazione non c’è altra alternativa che arrangiarsi.

Lo Stato infatti non paga i dipendenti pubblici, i soldati, gli insegnanti, i professori universitari: costoro per sopravvivere si arrangiano in qualche modo. I militari che hanno le armi non di rado saccheggiano negozi e si vendono le merci di cui vengono in possesso.

Mobutu, per mantenersi al potere, s’appropria dei fondi pubblici, del denaro della banca centrale, di tutti i finanziamenti in arrivo dall’estero. Acquista castelli in Europa, deposita fondi nelle banche svizzere, si costruisce residenze faraoniche come quella di Gbadolite, nel nord del Congo dove si ritirerà negli ultimi anni. Più che una dittatura il suo diviene un regime cleptocratico perché mentre lo Stato va a fondo, il suo entourage è sempre più sfacciatamente famelico ed invadente.

Per esser sicuro che nessuno lo rovescerà durante i suoi viaggi all’estero, si porta dietro dei seguiti faraonici che saccheggeranno ciò che trovano negli hotel di lusso dove dormono guardandosi bene dal pagare i conti alla fine.

Ben dodici servizi di sicurezza, tra cui la temutissima DSP provvedono a garantire l’ordine costituito ed a far sparire nel nulla tutti coloro che non vanno a genio al despota.

Ad un certo momento sembra che gli alleati di Mobutu vogliano scaricarlo, ma l’esplodere della guerra civile in Angola, dove, dopo il ritiro dei Portoghesi nel 1975, si confrontano militarmente diversi movimenti di guerriglia, trasforma Mobutu di nuovo in un referente dei nemici del comunismo: Stati Uniti e Francia sono i suoi partner e gli forniscono armamenti e fondi. Anche il fondo Monetario Internazionale, di fronte al persistente disastro dell’economia, concede prestiti in cambio di misure di austerità sempre più draconiane, quanto inutili, perché la fonte del disastro economico è il regime che sistematicamente si appropria dei fondi provenienti dall’estero. Si dice, ma cifre precise non ce ne sono, che Mobutu abbia acquisito un patrimonio oscillante tra i 5 e i 15 miliardi di dollari.

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LA SVOLTA DEL 1990.

Superate negli anni Settanta due crisi interne (la prima e la seconda rivolta dello Shaba ex Katanga [1977-1978]), si arriva al 1990, quando il Presidente francese François Mitterrand impone all’Africa di passare dal mono al pluripartitismo.

E’ il momento in cui nell’europa orientale stanno crollando i regimi comunisti e sembra che dappertutto si respiri una nuova aria di libertà: in diversi paesi africani vengono promosse delle conferenze nazionali sovrane e vengon bandite elezioni pluralistiche.

Mobutu, però, non crede né alla conferenza Nazionale sovrana, che comunque si svolge a Kinshasa tra il 1990 ed il ’92 né al pluripartitismo, ma sfrutta la circostanza con astuzia per mantenersi al potere il più a lungo possibile.

Così, sotto banco, suggerisce a suoi sostenitori di fondare centinaia di partiti finti, i cosiddetti partiti taxi, perché ad essi aderiscono un numero esiguo di persone, quelle appunto che possono stare all’interno d’un taxi. In Zaire si arriva a contare quasi 300 partiti. Nascono anche decine di sindacati (se ne conteranno ad un certo punto 112), poi, giornali e stazioni radio indipendenti dal Governo.

Si assiste anche alla ricomparsa di movimenti religiosi provenienti dall’estero, come sètte protestanti d’origine nordamericana, mentre presunti maghi e veggenti impazzano per il Paese. Lo stesso Mobutu si circonda di astrologi e fattucchiere che divengon col tempo i suoi più ascoltati consiglieri. Il Presidente trascorre sempre più tempo nella sua supervilla di Gbadolite coi rubinetti d’oro e le vasche dell’idromassaggio, mentre intorno la gente vive nella miseria e non ha accesso all’acqua.

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RINASCE IL TRIBALISMO.

L’altra carta politica che si gioca Mobutu per mantenersi al potere è fomentare il tribalismo, attizzando le rivalità etniche. Se quando il regime era solido ed apparentemente privo di serie minacce la dottrina ufficiale mirava a sopire i contrasti tribali sostenendo che c’erano solo zairesi, a partire dal 1993 il regime fa di tutto per scatenare conflitti, soprattutto nell’Est del Paese, dove vivono popolazioni imparentate coi tutsi del Ruanda: nel Nord Kivu i Banyaruanda e nel Sud dello stesso lago i Banyamulenge, accusati di non esser dei veri zairesi, ma dei ruandesi che si sono appropriati di terre appartenenti ad altre etnìe. Per di più, dopo che nel 1990, per un soffio, l’FPR di Paul Kagame non è riuscito a rovesciare il regime Hutu di Jouvenal Habyarimana in Ruanda, Mobutu diviene il miglior alleato del governo di Kigali: Kinshasa invia un contingente militare che riesce a bloccare l’avanzata dei ribelli prolungando la vita dell’agonizzante regime.

I soldati zairesi, per non smentire la loro tradizione, saccheggiano i villaggi ruandesi com’erano soliti fare in patria.

Anche in altre aree esplodono conflitti etnici che rischiano di mandare di nuovo in pezzi il paese già a forte rischio d’anarchia.

Conseguenza: massacri, stupri collettivi, devastazioni divengono il pane quotidiano nella regione del Kivu ed in altre regioni, inoltre le popolazioni per sfuggire all’orgia di sangue cerca rifugio altrove, creando un caos ingovernabile.

Insomma, lo Zaire verso la metà del decennio è una polveriera in piena ebollizione pronta ad esplodere e non mancherà chi la farà deflagrare.

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LA PRIMA GUERRA DEL CONGO (1996-1997).

Nel 1994, in Ruanda, com’è noto, si verifica il genocidio dei Tutsi e la fuga degli Interhamwe che hanno eliminato orrendamente quasi un milione di tutsi e Hutu non faziosi. Conseguenza: le nuove autorità andate al potere a Kigali vogliono regolare militarmente i conti con gli avversari dell’FPR che ha vinto la guerra e controlla il potere in Ruanda. Paul Kagame, l’uomo forte del nuovo regime, promuove azioni oltre il confine con lo Zaire per eliminare gli Interhamwe che controllano a Goma e Bukavu, nei pressi del lago Kivu i campi profughi.

L’EPR compie attacchi nel territorio vicino ma fino al 1996 non riesce nei fatti ad avere completamente ragione dei suoi avversari: occorre attendere la nascita dell’AFDL, il movimento guidato da Laurent Désiré Kabila (1939-2001) per assistere alla completa disfatta sia del regime di Mobutu che dei miliziani Hutu responsabili dei massacri del Ruanda del ’94. Sfruttando lo stato d’incipiente anarchia e la totale disfatta dell’esercito di Mobutu l’AFDL, aiutato dagli eserciti di Uganda e Ruanda in poco più di sette mesi pone fine al trentennale regno del “grande Leopardo”. Questi, malato di cancro alla prostata, fugge in Marocco dove si spegne il 5 Settembre successivo lasciando agli eredi un patrimonio smisurato in immobili e contanti.

Ma per lo Zaire, ribattezzato Repubblica Democratica del Congo, non c’è pace: Kabila divenuto Presidente il 29 Maggio ’97 impone una nuova dittatura: di nuovo la gente sparisce senza lasciare traccia, nuovamente ci sono esecuzioni capitali extragiudiziali. Il leader impone l’AFDL come partito unico e cestina le risoluzioni della conferenza nazionale sovrana dei primi anni Novanta. Il popolo se vuole può creare dei Comités du Pouvoir Populaire. Le speranze d’una democratizzazione vengono spente rapidamente. Kabila si affida completamente ai ruandesi per mantenere l’ordine e si circonda di katanghesi, la regione da cui egli stesso proviene, e ne favorisce le richieste. Poi, di fronte alle proteste della popolazione che non sopporta i ruandesi, nel luglio ’98 li rispedisce a Kigali: in agosto scoppia la guerra che vedrà il coinvolgimento di ben nove Stati africani.

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LA SECONDA GUERRA DEL CONGO (1998-2003).

Le guerre che lacerano il Congo dal 1996 al 2003 che fanno sentire ancor oggi i loro strascichi sono state definite «la prima guerra mondiale d’Africa». La definizione non è del tutto corretta perché il conflitto non ha avuto le stesse caratteristiche della «grande guerra» che si combattè in Europa tra il 1914 ed il ’18: sarebbe meglio parlare di «grande guerra del Congo». essa ha, come abbiam visto, una prima fase che inizia nel Settembre 1996 e si conclude nel Maggio ’97 col rovesciamento del fatiscente regime di Mobutu ed una seconda fase che prende il via nell’agosto 1998 e si conclude con alterne vicende nel 2003. Ve n’è poi una terza che dura tuttora, prevalentemente circoscritta nell’est del Paese, nelle regioni del lago Kivu. In quelle zone nelle quali il Congo confina con Burundi, Ruanda e Uganda è in atto uno scontro a bassa intensità tra le forze governative e diverse milizie con forte coinvolgimento della popolazione civile frequentemente oggetto di saccheggi, stupri e massacri. Ovviamente al centro di questo scontro c’è il controllo d’ingenti risorse minerarie come il coltan, materiale che è utilizzato per la costruzione dei microchip che sono la base degli strumenti tecnologici che ormai accompagnano la vita quotidiana dell’uomo del XXI secolo.

Così, ancora una volta, le ricchezze del sottosuolo congolese alimentano conflitti inestinguibili ed arricchiscono le tasche d’un’élite famelica. Chi paga il prezzo di tutto questo sono milioni di persone che vivono in quelle aree che, non di rado, cercano di sotrarsi alla violenza fuggendo il più lontano possibile.

Laurent Désiré Kabila, dunque, nel 1998 provoca la seconda guerra del Congo espellendo i militari ruandesi che hanno contribuito in modo determinante al successo della sua ribellione. Il 26 luglio mediante un discorso radiofonico comunica ai militari di Paesi stranieri che non sono più graditi: a Kigali e Kampala capiscono che l’uomo che hanno messo al potere a Kinshasa nella speranza di farne una loro marionetta è ormai fuori controllo e poco dopo scatenano la guerra.

L’obiettivo di Paul Kagame, uomo forte del Ruanda, e di Yoweri Museveni, Presidente onnipotente dell’Uganda, è quello di rovesciare Kabila e sostituirlo con qualcun altro più gradito o meglio manovrabile. Al sovrappopolato Ruanda farebbe anche comodo ritagliarsi un pezzo di RDC in modo da ampliare il proprio piccolo territorio rivedendo le frontiere stabilite a Berlino nell’Ottocento.

Schematizzando, si può dire che questa seconda guerra del Congo si suddivide a sua volta in tre fasi:

1. Dall’Agosto del 1998 al Luglio ’99 il Ruanda, insieme all’Uganda e a un raffazzonato esercito di ribelli, cerca di rovesciare Kabila senza successo. Questa fase termina con la pace di Lusaka: gli eserciti stranieri promettono di ritirarsi, le Nazioni Unite inviano 500 caschi blu e in Congo deve instaurarsi un dialogo nazionale sull’organizzazione del periodo di transizione postbellico. La fragilità degli accordi pattuiti non consente la fine dei combattimenti.

2. La seconda fase si svolge dal luglio ’99 fino al dicembre 2002 compreso. Il Ruanda e l’Uganda non cercano più di avanzare verso Kinshasa, ma si limitano a controllare, con l’aiuto delle milizie locali, la metà orientale del territorio congolese, per darsi a uno sfruttamento intensivo delle materie prime. In altri termini sono più interessate al bottino che a decidere chi debba comandare nella lontana Kinshasa.

Conseguenza: si producono delle fratture all’interno del campo antiKabila che porta a scontri violenti a Kisangani tra ruandesi ed ugandesi.

Questa fase turbolenta termina con la pace di Pretoria (Dicembre 2002) che entra in vigore solo nel giugno ’03.

Ruandesi ed ugandesi si ritirano e le Nazioni Unite rafforzano la loro presenza. Ufficialmente la guerra è finita, ma in loco la realtà è diversa.

3. La terza fase, iniziata nel 2003, nel Kivu è ancora oggi in atto (febbraio 2020).

Durante questo lungo periodo, il conflitto è, come detto, circoscritto all’estremo est del Congo, nelle regioni sulla frontiera con Uganda (Ituri) e Ruanda (Kivu). Queste zone vivono momenti di intensa ferocia, violazioni sistematiche dei diritti umani e una sofferenza umana indicibile.

«In ognuna di queste fasi – scrive Reybrouck – il conflitto fu segnato dagli strascichi del genocidio ruandese, dalla debolezza dello stato congolese, dalla vitalità militare del nuovo Ruanda, dalla sovrappopolazione della regione intorno ai Grandi Laghi, dalla facilità di attraversamento delle antiche frontiere coloniali, dall’inasprirsi delle tensioni etniche a causa della povertà, dalla presenza di ricchezze naturali, dalla militarizzazione dell’economia informale, dalla domanda mondiale di materie prime minerali, dall’offerta locale di armi, dall’impotenza delle Nazioni Unite e da qualche altro fattore.».

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SELF-SERVICE CONGO.

Oro, diamanti ed altre materie prime divengono, dunque, la vera ragione del conflitto e s’instaura un’economia di rapina che non ha riguardi per nessuno: le miniere d’oro e di diamanti vengono rifornite di manodopera minorile a bassissimo costo per estrarre i minerali,mentre trafficanti senza scrupoli vendono quanto è stato ricavato dalsottosuolo: Nel 1999 e nel 2000 le esportazioni d’oro dell’Uganda ammontano a 90-95 milioni di dollari l’anno. Il Ruanda esporta, ogni anno, 29 milioni di dollari in oro. Molto, se si pensa che entrambi i paesi non hanno una significativa produzione aurifera.

La stessa cosa vale per altri minerali. Prima dell’inizio della guerra, l’Uganda arriva a malapena ad esportare duecentomila dollari in diamanti, nel ’99 questa cifra praticamente si decuplica toccando gli 1,8 milioni di dollari. Il Ruanda, un paese senza diamanti, esporta fino a 40 milioni di dollari l’anno.

Ma il saccheggio del Congo orientale non riguarda solamente metalli e pietre preziose: il Ruanda fa venire dal RDC, con la stessa avidità, lo stagno, metallo molto più banale, utilizzato però su scala mondiale per la fabbricazione di lattine. Tra il 1998 e il 2004 il paese estrae circa 2.200 tonnellate di cassiterite (minerale di stagno) dal proprio suolo, ma ne esporta 6.800 tonnellate, più di tre volte tanto. La differenza la forniscono le miniere del Kivu. La regione intorno ai Grandi Laghi sembra la versione africana di Schengen, un mercato in cui le merci possono passare la frontiera senza essere controllate. Anche legno tropicale, caffè e tè spariscono verso est. E poi c’è il coltan, un minerale che sembra ghiaia nera, pesa tantissimo: all’improvviso tutto il mondo lo vuole. Per il Ruanda quella roba è il principale motivo d’interesse economico per ingerirsi negli affari del Congo. Il coltan nel 2000 svolge il ruolo che nel 1900 spettava alla gomma: una materia prima presente in loco in grandi quantità (il Congo dispone, secondo le stime, dell’80% delle riserve mondiali) e per la quale d’un tratto a livello internazionale c’è una domanda pressante. La diffusione su scala planetaria dei telefonini ne impone l’estrazione e la commercializzazione.

Il coltan è composto da colombite (niobio) e tantalio, due elementi chimici che nella tavola di Mendeleev si trovano esattamente uno sotto l’altro. Mentre il niobio viene utilizzato nella produzione di acciaio inossidabile, tra l’altro per i body piercing, il tantalio è un metallo con un punto di fusione estremamente elevato (quasi 3000 gradi Celsius). Ciò lo rende particolarmente indicato per le superleghe dell’industria missilistica e per i condensatori nel campo dell’elettronica. È sufficiente aprire un qualsiasi telefonino, lettore MP3, lettore dvd, laptop o console giochi per trovarvi dentro un piccolo labirinto verde su cui sono stati fissati parti incomprensibili. Le perline dai colori vivaci e a forma di goccia sono i condensatori. Se grattate un po’, vi rimane un pezzetto di Congo in mano.

Nel 2000 si sviluppa una vera febbre del coltan. Nokia ed Ericsson vogliono immettere sul mercato una nuova generazione di cellulari, mentre Sony è sul punto di lanciare la sua PlayStation 2 (lancio che l’azienda deve rimandare per via di una contrazione nell’offerta di coltan). In meno d’un anno il prezzo del minerale decuplica, passando da trenta a trecento dollari la libbra. Oltre a un filone in Australia, il Congo Orientale è l’unico posto al mondo in cui si estrae questa materia. Dall’altra parte della Terra, ciò costituisce un’interessante forma di entrata per lo stato, ma in Congo è una maledizione più che una benedizione. Uno stato debole con un suolo ricchissimo conduce a guai seri.

Tutte le miniere di coltan sono controllate dal Ruanda. Nel 1999 e nel 2000 Kigali esporta l’equivalente di 240 milioni di dollari in coltan all’anno, una cifra vertiginosa, in gran parte guadagno netto. Certo, il Ruanda deve pagare i mercanti e i ribelli in Congo, ma è una bazzecola se paragonata ai proventi. I profitti della guerra sono tre volte superiori ai costi.

«Tuttavia – osserva Reybrouck – non erano il Ruanda e l’Uganda a trarre i maggiori benefici da quel saccheggio di materie prime nel Congo Orientale. In un’economia in fase di globalizzazione, anche gli stati non erano che anelli intermedi in un insieme di reti commerciali internazionali complesse e in costante trasformazione. Kagame e Museveni non si trovavano alla fine della catena di approvvigionamenti. A trarre profitto dalla ricettazione di materie prime provenienti dal Congo erano gruppi minerari multinazionali, oscure compagnie aeree, trafficanti d’armi noti ma inafferrabili, uomini d’affari corrotti in Svizzera, Russia, Kazakistan, Belgio, Paesi Bassi e Germania. Costoro operavano in un mercato molto libero. Da un punto di vista politico, il Congo era un disastro, economicamente un paradiso – perlomeno per alcuni. Gli stati in decadenza sono i successi all’attivo di un neoliberismo mondiale sfrenato.»

Il Congo è davvero un Paese self-service: ognuno prende ciò che gli pare. Oltre all’estrazione dei minerali si verificano anche devastazioni ambientali. Elefanti, gorilla di montagna, una specie in via d’estinzione, ippopotami sono uccisi dai bracconieri, mentre dalle foreste è prelevato a piene mani il legname.

peraltro, mancando spesso la corrente, i congolesi sono costretti a cucinare bruciando legna: la guerra produce un disastro ambientale di enorme portata.

Si stima che questo lungo conflitto non ancora completamente risolto, abbia provocato la morte di un numero oscillante di persone fra i 3 e i 5 milioni, perloppiù popolazione civile decimata non solo dalle violenze, ma anche dalle epidemie di diarrea, malaria, polmonite ed ebola che, anche a causa dei combattimenti in atto, non hanno potuto esser curate adeguatamente.

Accanto a questi decessi si devono aggiungere le vittime di incidenti sul lavoro: nelle miniere si estraggono le materie prime senza nessuna protezione per i lavoratori, spesso bambini e ragazzi, per cui avvengono spesso incidenti, come crolli di miniere, con esito ovviamente letale.

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DA LAURENT A JOSEPH KABILA.

Il 16 Gennaio 2001 Laurent Désiré Kabila muore assassinato: una delle sue guardie del corpo gli spara a bruciapelo tre colpi di pistola: si dice che dietro al complotto ci siano gli angolani, già suoi alleati, scontenti per i traffici avviati dal leader con l’UNITA il movimento di guerriglia che da decenni combatte contro il governo di Luanda. In pochi giorni, la Presidenza viene assunta da Joseph Kabila (1972), figlio del defunto despota, che dimostra rapidamente d’avere delle frecce al proprio arco. Nel dicembre 2002 a Pretoria si firma la pace definita «accordo globale e inclusivo».

Tra i firmatari, oltre al governo di Kinshasa ci sono i leader di tutti i movimenti di guerriglia fioriti durante i combattimenti. «La parola “inclusivo” era adoperata a giusto titolo – commenta Reybrouck – talmente inclusivo che i criminali di guerra, per preservare la pace, non vennero giudicati ma promossi vicepresidenti.

Nei due anni successivi alla stipula dell’accordo, tutte le milizie esistenti sarebbero dovute confluire in un nuovo esercito nazionale e si sarebbero dovute preparare elezioni democratiche. Tale termine avrebbe potuto essere prolungato due volte di sei mesi. Nell’attesa di questo scrutinio tanto desiderato, furono nominati un Parlamento e un governo di transizione.

Si trattava, indubbiamente, di un accordo storico. Dopo anni di disperazione, adesso le possibilità di una pace e di una ricostruzione erano più che concrete. Il nuovo Congo, inoltre, poteva contare su un sostegno massiccio da parte della comunità internazionale: le truppe della Monuc, la forza di pace delle Nazioni Unite, furono incrementate fino a raggiungere gli 8700 caschi blu, che sarebbero saliti a 16.700 negli anni successivi, rendendo questa operazione delle Nazioni Unite la più importante della Storia (e, con un budget di circa un miliardo di dollari l’anno, anche la più costosa). I caschi blu dovevano, sotto la guida di un americano perennemente ottimista, William Swing, vegliare sul cessate il fuoco e accompagnare il disarmo. Quanto alla politica, il nuovo potere fu guidato dal Ciat, il Comité International d’Accompagnement à la Transition, una forma unica di diplomazia bilaterale e multilaterale, nel cui ambito i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, insieme a quelli di Belgio, Canada, Angola, Gabon, Zambia e Sudafrica, oltre a rappresentanti dell’Unione africana, dell’Unione europea e della Monuc, avrebbero partecipato di fatto al governo del paese. Il Ciat non era un organo consultivo esterno, ma un’istituzione formale della transizione.»

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RIPRENDONO LE VECCHIE ABITUDINI.

Un Presidente, dunque, quattro vicepresidenti, una camera, un senato… insomma un vero esercito di persone, oltre seicento che ricominciano a riempirsi le tasche come esattamente avevano fatto coloro che erano passati prima dalle stanze del potere. Intanto, nell’Est tra 2003 e 2004 riprendono i combattimenti col loro corollario di massacri e violenze: deve intervenire una forza dell’Unione europea, la prima nella storia di quest’entità, a intervenire per porre termine agli eccidi.

si arriva alle elezioni nel 2006 e poi cinque anni più tardi, sempre a rischio di contestazioni ed accuse di brogli: Joseph Kabila si mantiene al potere fino al 2019, quando non può più impedire lo svolgimento d’un nuovo scrutinio presidenziale e legislativo.
che ha cercato in tutti i modi di bloccare, accampando diverse scuse. La Costituzione gli impedisce di ricandidarsi per la presidenza, ma il suo partito controlla l’Assemblea nazionale e quindi condiziona l’esecutivo che il nuovo Capo dello Stato Felix Tshisekedi deve costituire.

alla fine viene formato un governo che tra ministri, segretari di Stato e sottosegretari comprende quasi settanta personalità.

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EBOLA.

Negli anni della presidenza di Kabila junior si sviluppa a più riprese l’epidemia di ebola una malattia altamente infettiva che uccide provocando delle emorragie: lo Stato ovviamente non ha mezzi per arginare il contagio e miseria, disinformazione ed ignoranza ne favoriscono la propagazione.

Anche grazie all’intervento delle oONG di aiuto le epidemie vengono sconfitte, ma il morbo è pronto a riproporsi alla prima occasione. Accanto a questi fatti sistematicamente veniamo informati di scontri, massacri e violenze soprattutto nelle regioni orientali dove si muovono incontrollate milizie che si abbandonano al saccheggio e spargono il sangue di povera gente.

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CONCLUSIONI.

A sessant’anni dalla nascita, la Repubblica Democratica del Congo è un po’ il paradigma del fallimento del movimento che portò nel 1960, come abbiamo visto, in maniera particolarmente frettolosa, all’indipendenza.

Il passaggio dalla colonia allo Stato sovrano e il successivo cammino di questa nuova entità è costellato di disastri: forse se davvero i Belgi avessero pensato d’attuare una marcia verso l’autogoverno senza, come disse Baldovino nel suo radiomessaggio «funeste lentezze» ma anche «senza precipitazione sconsiderata» il Congo di oggi sarebbe molto diverso e la storia avrebbe potuto esser un’altra.

PIER LUIGI GIACOMONI

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