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QUANDO I POPOLI PERDONO LA PAZIENZA.
(26 Giugno 2018)

EREVAN-MANAGUA-AMMAN. Quando i popoli perdono la pazienza, i governi cadono. In questo 2018 le rivoluzioni stanno avvenendo in diverse parti del mondo, sotto diverse latitudini, con diversi esiti.

Opinioni pubbliche apparentemente intorpidite da una lunga abitudine a subire, insorgono, gettano via la paura, anche quella della morte, si ribellano alle prepotenze dei capi e dei loro cerchi magici.

Magari, dopo aver mandato giù tanti bocconi amari, è sufficiente una provocazione di troppo, per scatenare la rabbia popolare. Si tratta di eventi che dimostrano quanto sia valida un’antica legge della storia, spesso dimenticata, secondo cui può darsi che per un lungo periodo il popolo paia sottomesso ed apatico, ma vien il momento in cui s’arrabbia e rovescia il potere quando questo meno se l’aspetta.

E’ accaduto in passato ed avverrà frequentemente in futuro, soprattutto in un’epoca in cui gli Stati sono sempre meno in grado di far fronte a fenomeni globali che generano frustrazioni e risentimenti.
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L‘Armenia non vuol più Sargsyan. La scintilla della ribellione popolare, ad esempio in Armenia, è stata la manovra compiuta in aprile dal Presidente Serzh Sargsyan. Il 9 aprile ha lasciato la massima carica del Paese per farsi eleggere alla guida del Governo due giorni dopo.

Dopo le ultime elezioni politiche che avevano ridato al Partito repubblicano la maggioranza assoluta dei seggi, L’eterno leader, dopo aver guidato la piccola repubblica caucasica per dieci anni, ha ritenuto che non ci fosse

nessun ostacolo a passare impunemente dalla presidenza dello stato a quella del governo.

In precedenza, nel 2015, aveva fatto emendare la Costituzione, in modo da concentrare nelle mani del Premier i poteri che prima appartenevano al Capo dello Stato, pensando che sarebbe stato lui il primo beneficiario di questa

riforma istituzionale.

Il popolo però si è sentito preso in giro ed ha perso la pazienza: è sceso in piazza ed ha dato vita a continue manifestazioni.

A guidarle è stato il deputato dell’opposizione Nikol Pashinyan, 42 anni, che all’indomani dell’elezione di Sargsyan alla presidenza del Governo è sceso in piazza con la gente, divenendone rapidamente il leader.

La prima manifestazione è avvenuta l’11 aprile ed ogni giorno le vie e le piazze delle città armene sono state occupate dagli “indignados” che hanno continuato ad esercitare pressioni sul potere finché il 23 Sargsyan ha rinunciato alla carica.

A quel punto, secondo quanto prescritto dalla costituzione, il parlamento di Erevan doveva eleggere un nuovo Premier: il 30 aprile Pashinyan è candidato alla Presidenza del consiglio dall’opposizione, ma i repubblicani, che hanno la maggioranza alla camera, fanno ancora resistenza ed alla prima votazione, il leader della piazza non passa.

Di conseguenza, sciopero generale, manifestazioni, comizi di protesta durante le quali Pashinyan minaccia l’oligarchia dominante di provocare uno «tsunami politico» se la sua candidatura sarà ancora bloccata.

Di fronte a un movimento così compatto, i repubblicani optano per la resa: l’8 maggio Pashinyan con 59 voti contro 42 è eletto alla testa del governo.

Il nuovo premier armeno dichiara che non intende rimanere a lungo in carica, ma che vuole traghettare la nazione caucasica verso nuove elezioni politiche anticipate: entro sei mesi al massimo vorrebbe dare le dimissioni.

La sua nomina è stata approvata anche dalla Russia, alleato storico di Erevan: Putin, l’appena rieletto leader del Kremlino, gli ha inviato un telegramma di felicitazioni.

Pragmaticamente, il nuovo capo dell’esecutivo armeno ha fatto sapere che considera «la cooperazione militare con Mosca il fattore principale che garantisce la nostra sicurezza.» Già, perché l’Armenia ha vertenze aperte con Turchia ed Azerbaigian e non può rimanere senz’alleati.

Con Ankara è tuttora aperta la questione del genocidio armeno, compiuto nel 1915 dall’esercito ottomano in piena prima guerra mondiale; con l’Azerbaigian è irrisolta la controversia sul territorio del Nagorno-Karabakh, enclave

Armena in territorio azero.

Pashinyan si dice pronto a negoziare con Baku per trovare una soluzione pacifica sulla base dell’eguaglianza dei popoli e del loro diritto all’autodeterminazione.

Per questo Paese di tre milioni di abitanti che sopravvive grazie alle rimesse della sua numerosa diaspora, soprattutto in Francia e Stati Uniti, s’apre una nuova era: stavolta a manovrare le leve del comando sarà la generazione post-sovietica, ossia quella che non ha vissuto il terrore che incuteva il potere centrale di Mosca.
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Il Nicaragua non teme più Ortega. Nelle stesse settimane in cui esplodeva la rabbia degli armeni contro Sargsyan e la sua cricca, in Nicaragua deflagrava la protesta giovanile contro il Presidente Daniel Ortega e il regime

sandinista.

Daniel Ortega Saavedra, 62 anni, è da decenni il vero dominus della scena politica nicaraguense: presidente dal 1979 al ’90, è tornato in sella nel 2006, ha modificato la costituzione in modo da farsi rieleggere senza
limitazioni ed ha creato un sistema di potere che cerca di tenersi buoni tutti i possibili contropoteri.

«La sua base – ha scritto il New York Times – era solida: aveva dato alla chiesa cattolica uno spazio rilevante e una delle leggi più dure del mondo contro l’aborto, aveva garantito agli imprenditori
più ricchi agevolazioni e ottimi afari, e aveva assecondato il Fondo monetario internazionale. Per anni il paese è cresciuto a un ritmo del 4% all’anno, poi il crollo economico del Venezuela ha rotto l’incantesimo.»

Tuttavia, Ortega contava sul sostegno di un terzo abbondante della popolazione, sulla tolleranza di un altro terzo, sull’obbedienza dei dipendenti pubblici, sull’appoggio attivo dell’esercito, sul controllo della polizia e delle

milizie e sulla debolezza dell’opposizione dei giovani.

Il 18 aprile, in difficoltà per problemi di liquidità, Ortega ha annunciato tagli alle pensioni e un aumento dei contributi da versare all’Istituto nicaraguense della previdenza sociale. I suoi alleati del settore
imprenditoriale si sono stupiti: di solito il comandante concordava con loro certe politiche, questa volta invec no. Era un passo falso, ma non grave. Non erano gravi neanche le due o tre piccole manifestazioni con
cui pochi anziani avrebbero cercato di protestare. Invece, lo stesso giorno a León, la seconda città del paese, dei giovani sandinisti hanno attaccato gli anziani. Le immagini hanno invaso i social network e quello stesso
pomeriggio alcuni studenti hanno deciso di protestare. Erano così pochi che si sono dati appuntamento in un centro commerciale della periferia di Managua, il Camino de Oriente, sperando che laggiù non sarebbe arrivata la lunga mano di Ortega. Invece è arrivata. Il governo sandinista ha sempre creduto che lo stato debba avere il monopolio della violenza. Per farlo contava, ovviamente, sulla polizia e sull’esercito, ma anche su gruppi di sicari che i nicaraguensi chiamano “las turbas” o “los motorizados”. Spesso sono dipendenti statali che arrivano in moto e intervengono con i manganelli o, se serve, con le pallottole quando bisogna difendere la causa sandinista. Quel giorno al centro commerciale i “motorizados” hanno distribuito bastonate, hanno derubato i giornalisti e hanno spaccato delle teste. Tutto sotto lo sguardo attento della polizia.

È il rimedio abituale contro i rivoltosi: rimetterli al loro posto per farli calmare. Ma quella sera migliaia di persone hanno visto le immagini
delle violenze in tv e su internet e il giorno dopo migliaia di nicaraguensi sono scesi in piazza.

«La prima vittima – narra il periodico salvadoregno el Faro – è stata Darwin Urbina, un ragazzo ucciso il 19 aprile da un colpo di fucile vicino all’Universidad politécnica, a Managua. Secondo la famiglia, Urbina stava
tornando a casa alla fine del suo turno in un supermercato, per la vicepresidente Murillo, lo sparo che ha ucciso Urbina è partito dall’università, dov’erano asserragliati
diversi studenti. Ma tutto sembra indicare che a sparare sia stata la polizia.»

Quello stesso giorno Murillo ha assicurato che il governo non aveva fatto arrestare nessuno e che i responsabili della violenza erano dei gruppi pieni di odio: «Questi gruppi minuscoli, con programmi minuscoli, un pensiero e una coscienza ancora più minuscoli, devono sapere che non fermeranno la marcia verso il futuro del Nicaragua.»
Col passare dei giorni, la realtà ha smentito le sue dichiarazioni. La famiglia di Urbina ha detto che lo sparo non proveniva dall’università e ha accusato la polizia di aver usato pallottole vere, non di gomma come aveva afermato all’inizio.

Il 24 aprile, in seguito alle pressioni popolari e internazionali, il governo nicaraguense è stato obbligato
a rilasciare decine di detenuti. Molti di loro hanno denunciato di essere stati picchiati
e torturati nelle celle della polizia.

La protesta non si è fermata nemmeno quando il Presidente ha fatto marcia indietro, annunciando in tv la revoca del decreto riguardante la riforma del sistema pensionistico: i nicaraguensi hanno continuato a scendere in piazza per

dimostrare d’averne abbastanza di Ortega e di sua moglie, Rosario Murillo Zambrana, 66 anni, considerata la vera padrona dello Stato.

Per rendere ancora più chiaro il loro messaggio di rivolta, hanno abbattuto molti “alberi della vita”, enormi strutture di ferro che Rosario Murillo ha fatto costruire a centinaia nella capitale e che per questo sono considerate il simbolo del potere. Al posto di queste strutture, che i nicaraguensi chiamano “chayopalos”, ossia i pali di Chayo, il nomignolo dato alla Murillo, i manifestanti hanno piantato alberi veri e hanno anche allestito dei piccoli altari improvvisati, con candele, immagini della  madonna e dei fogli con i nomi delle decine di giovani uccisi. Di sera, la gente si riunisce per una veglia che si trasforma in una manifestazione di protesta degli abitanti di tutte le condizioni economiche e sociali.

Durante maggio e giugno la protesta è proseguita e si è allargata a tutti gli strati della popolazione e ad altre città, non solo la capitale: a Masaya, ad esempio, sono avvenuti scontri tra i muchachos e le bande dei miliziani

sandinisti, con decine di vittime.

Ortega ha ormai perso il controllo della piazza e la piazza ha perso la paura: «Il potere – dichiarò nel ’79 il Presidente – risiede nel popolo. È il popolo a mettere e a togliere i governi».

Oggi quell’espressione si ritorce come un boomerang contro chi l’ha pronunciata, perché il popolo nicaraguense ha espresso sfiducia nei riguardi d’un uomo, ritenuto una volta un eroe nazionale ed oggi qualificato simile ad Anastasio Somoza, il tiranno nicaraguense, amico degli americani, che non esitò a massacrare la sua gente pur di mantenersi indefinitamente al potere.

Nel momento in cui scriviamo, non è ancora chiaro quale sarà lo sbocco della nuova rivoluzione nicaraguense che si porta dietro una lunga scia di sangue: secondo le ultime informazioni in nostro possesso i morti, perloppiù giovani, sfiorerebbero le duecento unità: ad essi vanno aggiunti gli scomparsi e gli arrestati, sottoposti a maltrattamenti dalle varie polizie del Paese.

Intanto, il tentativo di dialogo tra le parti, avviato su iniziativa della Conferenza Episcopale non fa passi avanti.
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La Giordania rifiuta la riforma fiscale. Tra la fine di maggio e i primi di giugno, la pazienza è scappata ai giordani che sono scesi in piazza dopo che il governo aveva varato una riforma fiscale, adottata su indicazione del Fondo Monetario Internazionale. IL progetto prevedeva un forte aumento delle imposte dirette sia per le persone fisiche che per quelle giuridiche. Se approvata, la nuova normativa avrebbe aumentato considerevolmente  le imposte sul reddito anche dei poveri, finora esentati dal pagarle. Il governo sosteneva che le misure avrebbero ridotto le disuguaglianze, perché prevedevano imposte maggiori sui redditi più alti e lasciavano per lo più inalterate quelle applicate agli impiegati pubblici che guadagnano poco. Ma per i detrattori del disegno di legge proposto al Parlamento, la soglia al di sotto della quale non si paga alcun’imposta sarebbe passata dagli attuali 12 mila a 8 mila dinari, inoltre sarebbero state tassate pensioni e successioni. Le imposte per banche ed assicurazioni sarebbero aumentate del 40%, un costo che sarebbe stato poi scaricato sui consumatori. In generale, è convinzione diffusa che l’adozione di questa legge avrebbe ulteriormente depresso l’economia, provocando un aumento della disoccupazione e della povertà.

In passato, in Giordania, la maggior parte delle manifestazioni era organizzata dai partiti. A questa protesta, invece, partecipano 33 associazioni, compresi molti sindacati e ordini professionali, in diverse città del Paese.

Durante le manifestazioni la folla ha intonato slogan che riecheggiano quelli della primavera araba del 2011: «Il popolo vuole la caduta del governo» e «Sciopero oggi per vivere domani.»

La crisi, forse, sarebbe degenerata se il re non avesse rimosso il Primo ministro Hani Mulki, sostituendolo con Omar al-Razzaz, incaricato dal sovrano non solo di formare un nuovo ministero, ma anche di studiare una normativa

fiscale  meno punitiva per le classi medie.

Negli ultimi anni, il regno Hashemita ha fronteggiato molti problemi, nazionali e internazionali, in parte legati alla sua collocazione geopolitica nel Medio Oriente.
Sul piano interno, deve confrontarsi con l’aumento della disoccupazione e della criminalità; su quello internazionale, non deve farsi coinvolgere nei conflitti che dilaniano i vicini Siria ed Iraq, anche se inevitabilmente ne subisce i contraccolpi: sul suo territorio, infatti, trovano ospitalità milioni di rifugiati in fuga dai combattimenti.

Re Abdallah II, come già suo padre Hussein è ben consapevole di non potersi permettere una rivoluzione interna che potrebbe ulteriormente alterare gli equilibri in una regione già fortemente perturbata ed instabile.
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Già in occasione delle “primavere arabe” del 2011 molti notarono che nuove generazioni stavano entrando in scena: legioni di ragazzi e ragazze, dotate di computer, in grado di fotografare e quindi documentare la repressione e la crudeltà delle forze dell’ordine, impegnate nella repressione delle manifestazioni di massa, stavano iniziando a dire la loro.

Anche in questo 2018 le reti sociali hanno svolto il loro ruolo di amplificatori della protesta, informando le opinioni pubbliche nazionali ed internazionali su quanto stava accadendo. Senza questi nuovi media, che qui nel

mondo sviluppato sovente servono o per diffondere false notizie o per addormentare le coscienze, le censure dei regimi traballanti avrebbero ancora avuto la meglio.

Se in Armenia, Nicaragua e Giordania, per non parlar di altri Stati, una nuova speranza si è fatta strada lo si deve anche alla loro presenza,ma anche alla determinazione di chi ne ha davvero abbastanza delle oligarchie dominanti e vorrebbe costruire per sé e per gli altri un mondo migliore.

PIER LUIGI GIACOMONI

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