MIGLIAIA DI ROHINGYA DEPORTATI IN BANGLADESH
(6 Febbraio 2017)
RANGOON. Migliaia di rifugiati d’etnìa Rohingya, di religione musulmana, saranno deportati su un isolotto disabitato nel golfo del Bengala, al largo delle coste del Bangladesh. Lo ha deciso il governo di Dacca nel tentativo di ricollocare circa 65.000 persone fuggite nei mesi scorsi dalla Birmania per sottrarsi alle violenze scatenate dall’esercito di Rangoon.
Secondo la stampa bengalese la sistemazione scelta è quanto mai infelice perché l’isolotto è spazzato spesso da venti impetuosi ed in caso di tifoni, piuttosto frequenti, soprattutto tra ottobre e novembre, quando le correnti d’aria calda si scontrano coi monsoni freddi in arrivo da Nord, non ha nessuna protezione naturale. In più non vi sono strade e le comunicazioni con la terraferma sono problematiche.
Il tutto avviene mentre in birmania si assiste ad una vera ondata islamofobica: malgrado il mutamento di regime, dal militare al civile, la minoranza musulmana (circa il 5% della popolazione) è oggetto di attacchi sulla stampa ed aggressioni fisiche.
I birmani sono per lo più buddisti, ma pare che mal tollerino la presenza di questa ed altre minoranze.
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I Rohingya. La popolazione dei Rohingya vive oggi in diversi Stati asiatici, ma la loro presenza è molto significativa in Birmania-Myanmar. Si calcola che complessivamente siano 800.000, residenti soprattutto nello Stato di Arakan, denominato anche Rakhine. I Rohingya parlano una propria lingua e vivono in territorio birmano da secoli. Già durante la lunga dittatura militare subirono diverse aggressioni, così come le altre minoranze etniche presenti in Myanmar. Da quando però a Rangoon il potere è stato trasferito ai civili si è assistito ad una recrudescenza delle persecuzioni.
Per effetto di questi avvenimenti, molti Rohingya sono emigrati nei Paesi vicini per sfuggire alle violenze: così 100.000 vivono in Thailandia, 50.000 in Indonesia e 40.000 in Malesia. Tutti questi Paesi vorrebbero rimandare in Birmania queste persone, perché temono il riacutizzarsi di conflitti etnici in casa propria. In Thailandia è in corso da anni una guerra a bassa intensità tra le forze armate governative ed un movimento di guerriglia islamico; la Malesia si regge su un delicato equilibrio tra la maggioranza malese, islamizzata, che controlla l’amministrazione statale, e la minoranza cinese, che controlla l’economia; gli stessi Bangladesh e Indonesia, dove migliaia di Rohingya hanno cercato rifugio, pur essendo Paesi a maggioranza islamica, temono che questo improvviso flusso migratorio possa generare squilibri.
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U Ko Ni. Il conflitto tra maggioranza buddista e minoranza islamica ha subìto nelle ultime settimane una recrudescenza a seguito dell’assassinio dell’avvocato U Ko Ni, uno dei consiglieri più ascoltati da aung sam Suu Kyi, la personalità principale che fa parte del nuovo governo birmano.
L’uomo si occupava di dialogo tra il governo centrale e le minoranze etniche che vivono nel Paese, ma anche della possibile riforma della Costituzione, introdotta dai militari, che assegna ancora un notevole potere alle forze armate che hanno governato Myanmar dal 1962 al 2016.
Era uno dei pochi musulmani con accesso ai vertici di un Paese accusato di gravi atrocità verso gli islamici Rohingya nell’Arakan, sostenitore moderato della loro causa nel partito di maggioranza.
«Con una esecuzione pubblica che nel Myanmar ha pochi o nessun precedente- scrive Repubblica – un uomo di 53 anni in ciabatte, calzoncini e una maglietta rosa gli ha sparato alla testa sul marciapiede degli arrivi internazionali, dove l’avvocato sessantacinquenne aspettava con un nipotino in braccio l’auto dei familiari per andare a casa.
Era appena tornato da un viaggio assieme a una delegazione ufficiale birmana in Indonesia, a parlare tra le altre cose della questione dei Rohingya e del
possibile impatto sui gruppi armati della Jihad nel sudest asiatico.»
Non sono ancora chiari tutti i contorni della vicenda: in particolare non è chiaro chi si nasconda dietro la mano dell’assassino, mentre è evidente il tentativo di far fallire ogni tentativo di soluzione del conflitto tra maggioranza buddista e minoranze islamiche.
U Ko Ni, come aung sam suu Kyi, Premio Nobel per la pace, si era fatto un nome come oppositore della giunta militare ed aveva trascorso molti anni in prigione.
Il delitto ha avuto una vasta eco internazionale, mentre la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), il principale partito di governo a Rangoon, ha definito il delitto un atto terroristico.
Secondo una delle più conosciute attiviste dei Rohingya, Wai Wai Nu, ricevuta nel 2015 dall’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama alla Casa Bianca, questo delitto getta una luce inquietante sul futuro della birmania: «Non posso credere che l’abbiano ucciso in
quel modo crudele e plateale – ha dichiarato a repubblica – ed ora sono molto preoccupata per il futuro del Paese, specialmente per la sicurezza. Questo delitto è un altro segno di intolleranza, un attacco all’intero processo di democratizzazione. Chi ha sparato è parte di una minaccia piu grande dello stesso problema dei Rohingya”.»
«Era spesso minacciato – ha detto la figlia Yin Nwe Khine – e siamo stati consigliati di stare attenti, ma mio padre non si rassegnava e ha sempre fatto quello che riteneva giusto”.
L’avvocato ucciso aveva incontrato di recente anche l’inviata delle Nazioni Unite giunta nell’Arakan per verificare le voci dei massacri sul confine di
Quest’etnìa senza patria e senza carte d’identità valide. U Ko Ni evitava di esporsi troppo pubblicamente sul conflitto verso il quale la Lega Nazionale per la Democrazia, al governo, e la stessa Aung Sam Suu Kyi mantengono da tempo una posizione ambigua, a loro volta condizionate dal potere dell’esercito che controlla gangli vitali del Paese e si oppone alle riforme costituzionali proposte dall’avvocato ucciso per conto del governo civile.
U Ko Ni era rimasto fedele nonostante tutto alla Nobel della pace anche dopo che l’Nld aveva escluso candidati musulmani dalle liste elettorali in occasione delle legislative dell’8 novembre 2015.
L’NLD sa bene che a livello popolare i Rohingya, i musulmani in genere, sono malvisti: come i monaci estremisti buddisti, anche la popolazione chiama “bengalesi” i Rohingya: spesso si levano voci che invitano il governo a rimandare in Bangladesh tutta questa popolazione.
La tensione tra le due comunità, covata nel tempo, esplose nel 2012 dopo lo stupro e l’uccisione di una ragazza arakanese e oltre cento Rohingya finirono in campi ghetto verso il confine bengalese.
Quattro mesi fa la guerra è riesplosa dopo che l’esercito birmano ha sostenuto d’esser stato attaccato da commando di Rohingya giunti in parte dal Bangladesh e manovrati da una centrale estera.
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Gli altri conflitti in atto. Oltre alle purghe dell’Arakan, nel Paese sono ancora in corso le guerre negli Stati Kachin e Shan lungo il confine cinese. Allo stesso tempo è alta la tensione anche in altri Paesi della regione dell’est Asiatico: oltre alla già citata guerriglia regionale nella thailandia meridionale, va segnalato il lungo conflitto tra Abu Sayyaf ed il governo filippino nell’isola di Mindanao. La stessa Cina, nella regione degli Uiguri, reprime duramente ogni manifestazione separatista e teme una secessione della popolazione locale, imparentata linguisticamente coi turchi e di religione musulmana.
In Birmania, in questo momento, soffiano sul fuoco dello scontro sia gruppi di monaci buddisti fondamentalisti che vedono come il fumo negli occhi una società multietnica e multireligiosa, sia i militari che nei lunghi anni del loro potere hannocombattuto con ogni mezzo i movimenti di guerriglia che hanno operato per decenni nel Paese, dando del filo da torcere agli uomini in divisa. Ora Aung Sam suu Kyi, che è l’indiscussa leader della Birmania democratica dovrà dar prova di notevoli capacità politiche se vorrà evitare che il Paese sprofondi in una spirale di violenza senza vie d’uscita.
PIER LUIGI GIACOMONI