LO YEMEN SPROFONDA
(28 Dicembre 2017)
SANAA. Lo Yemen sprofonda di giorno in giorno in una guerra che è insieme conflitto interno e confronto tra potenze regionali.
Sul piano interno, si combattono il governo nazionale, riconosciuto dalle Nazioni Unite, presieduto da Abdrabbuh Mansour Hadi ed il movimento dei ribelli Huthi, su un piano più generale, i combattimenti in atto nel Paese s’inseriscono nel più ampio scontro in atto tra Arabia saudita ed Iran, ovvero tra musulmani sunniti d’osservanza wahhabita e sciiti.
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Le cifre della guerra. Secondo il Palazzo di Vetro, lo Yemen, uno dei paesi più poveri del mondo arabo, sta pagando un prezzo molto alto: dal 2015, ossia da quando son in atto i combattimenti, costellati da frequenti raid aerei dei Sauditi e dei loro alleati, che colpiscono soprattutto la popolazione civile, vi sono stati complessivamente 8.600 morti, 49.000 feriti e 20 milioni di persone bisognose d’ogni aiuto.
Nel Paese sono scoppiate epidemie di colera e difterite. Inoltre c’è il fondato timore che stia mancando il cibo: i combattimenti, infatti, ostacolano la coltivazione degli esigui campi ed i raccolti sono insufficienti per la popolazione.
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Le origini del conflitto. Ufficialmente, la guerra civile dello yemen prende il via nel marzo 2015 quando scoppiano violenti scontri tra il movimento dei ribelli Huthi, di fede sciita, alleati con l’ex Presidente Ali Abdullah Saleh, ed i miliziani fedeli al Presidente in carica Hadi. Entrambi sostengono d’essere i legittimi detentori del potere.
La tensione nel Paese è sempre stata molto alta a causa delle divisioni religiose tra sciiti e sunniti ed anche per effetto dell’eterno contrasto tra yemeniti settentrionali e meridionali.
Per questo, già dal 2004, sono frequenti gli scontri tra forze governative e ribelli Huthi, militanti zaydisti [1] originari del montagnoso Governatorato di Sada, posto al confine Nord del Paese con l’Arabia Saudita.
L’intensità del conflitto registra fasi alterne con momenti di acceso confronto e tregue sistematicamente infrante da entrambe le parti.
Negli stessi anni, nello Yemen meridionale prende forma un movimento separatista volto a ricreare la Repubblica Democratica Popolare [2], sciolta nel 1990 con gli accordi che riunificarono il Paese sotto la guida dei Nordisti.
A questo movimento, le autorità di Sanaa rispondono con estrema durezza, sebbene le manifestazioni dei sudisti siano pacifiche, l’esecutivo manda loro contro le forze di sicurezza che schiacciano la protesta nel sangue.
Si giunge così al 2011, anno in cui in diversi Paesi arabi scoppiano insurrezioni contro i vari regimi dispotici: Tunisia, Egitto, Siria, Bahrein, Libia vengono coinvolti in un moto collettivo che viene denominato dalla stampa internazionale “primavere arabe”: l’obiettivo di coloro che prendono parte alle manifestazioni è l’instaurazione della democrazia, dello stato di diritto, ed il riconoscimento delle libertà di cui godono i cittadini occidentali.
In molti casi, esito finale di questo “quarantotto arabo” è il rapido ripristino di regimi autoritari, in altri la comparsa di movimenti riconducibili al radicalismo islamico che vuole imporre la teocrazia, ossia lo Stato basato sulle leggi della religione.
In questo senso, lo Yemen non fa eccezione: al potere a Sanaa vi è un Presidente che impone la propria autorità col pugno di ferro e cerca di difendere il potere acquisito con la forza.
‘Ali ‘Abd Allah Saleh è capo dello Stato dal 1978 e prova ad opporsi al movimento popolare che vuole cacciarlo dal palazzo presidenziale: tra coloro che lo osteggiano vi sono ancora una volta gli Huthi: il loro leader Abd al-Malik al-uthi fa sapere che vuole anche lui la cacciata di Saleh.
Ad un certo punto, le proteste sono così forti che il Presidente accetta di dimettersi e la poltrona di Capo dello stato è occupata da ‘Abd Rabbih Mansour Hadi, un Sudista che in base agli accordi pattuiti dovrebbe detenere il potere per due anni, al fine di redigere una nuova costituzione e preparare la strada a nuove elezioni pluraliste.
L’obiettivo vero degli Huthi, che in un primo momento appoggiano Hadi, è quello d’occupare il settentrione del Paese per crearvi una regione con larga autonomia dal governo centrale.
Quando nel 2014 Hadi chiede d’allungare di altri due anni il proprio mandato, gli Huthi lo abbandonano e si alleano di nuovo con Saleh.
Nel settembre del ’14 i miliziani zaidisti s’impossessano di Sanaa, imprigionano hadi e lo costringono a firmare una resa con la quale dichiara ob torto collo di rinunciare al potere.
Il 21 febbraio 2015, però, avviene un ennesimo colpo di scena: Hadi scappa dalla capitale e si rifugia ad Aden, sua città natale, e da lì annuncia, in un discorso teletrasmesso, di non aver mai rinunciato alla Presidenza e di volersi battere con tutte le forze contro gli usurpatori che occupano i palazzi presidenziali di Sanaa.
risultato: il finimondo.
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Il conflitto si internazionalizza. E’ a questo punto che entra nel complesso scenario yemenita l’Arabia Saudita e gli altri principati del Golfo.
Riyadh sostiene da tempo che l’Iran sta operando per allargare a tutto il Medio Oriente la propria influenza, per cui finanzia tutte le insurrezioni sciite. Non conta molto che Ansarullah, il vero nome del movimento, pratichi una religione diversa da quella degli Ayatollah: sciiti tutti e due, ma i primi riconoscono solo cinque imam dopo Alì, il califfo ucciso nel 661 d.C. a Kerbelá, mentre gli altri ne accettano dodici, di cui uno scomparso, destinato a riapparire.
Per questo, il Regno dei Saud rifornisce di armi Hadi e la sua fazione e a fine marzo 2015 invia propri aerei a bombardare le posizioni degli Huthi. In questo modo in conflitto si internazionalizza e non è più una questione che riguardi solo lo Yemen, ma diviene un problema per tutto il Medio Oriente.
In questo contesto di scontro senza quartiere tra mondo sciita e sunnita, nella sua variante wahhabita, vanno inseriti anche altri avvenimenti di cui possiamo fare solo un elenco:
• la guerra che dal 2011 dilania la Siria;
• la decisione presa dai Paesi del Golfo più l’Egitto di rompere le relazioni col Qatar;
• la recente crisi politica in Libano.
Questi ed altri fatti permettono di comprendere che in Medio Oriente più che l’eterno conflitto tra israeliani e Palestinesi, è oggi molto più importante e gravida di possibili conseguenze la lotta senza esclusione di colpi per la supremazia nella regione tra il Regno dei Saud e la Repubblica degli Ayatollah.
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Gli ultimi sviluppi. Il conflitto nello Yemen si è recentemente riguadagnato un posto sulle pagine dei giornali internazionali a causa dell’assassinio dell’ex Presidente saleh, lo scorso 4 dicembre.
Responsabili del delitto sono alcuni miliziani Huthi che hanno voluto far pagare al Leader più longevo della recente storia yemenita il mutamento di linea politica che stava attuando.
Fin dal 2014, infatti, Saleh era alleato di Ansarullah, ma si stava riavvicinando all’Arabia Saudita, una circostanza che avrebbe potuto prefigurare una soluzione complessiva del conflitto: ora potrebbero aprirsi invece prospettive angosciose per una guerra di tutti contro tutti senza vie d’uscita.
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Lo Yemen. La Repubblica Unita dello Yemen è nata ufficialmente il 22 maggio 1990 dalla fusione del Nord, indipendente dal 1918, col sud, sottomesso alla Gran Bretagna fino al 1971. Per anni, i due Stati furono anche divisi da divergenze ideologiche: il Nord era d’orientamento prooccidentale, il Sud, una repubblica popolare costruita sul modello dell’Unione Sovietica. Già verso la fine degli anni Ottanta, però, i dirigenti dei due Paesi decisero d’unificare i due territori dati i comuni interessi in campo economico e politico.
La sua attuale estensione territoriale è pari a 527.970km² ed è abitato da 24 milioni circa di persone, secondo dati del 2012.
Situato nella parte meridionale della penisola arabica, è bagnato dall’Oceano Indiano e dal Mar Rosso e controlla lo stretto di Bab-el-Mandeb, punto in cui Asia ed Africa quasi si toccano, strategico passaggio delle navi che dal Mediterraneo, una volta superato il Canale di suez puntano verso l’Asia.
Il Paese è uno dei meno sviluppati della regione: il suo Pil complessivo è all’87° posto su scala mondiale, mentre quello pro capite è al 149° posto. L’economia si regge soprattutto grazie agli aiuti della comunità internazionale. La corruzione dilagante ostacola gli investimenti e tarpa le ali alla crescita dell’economia.
Nel 1995, Sanaa lanciò un programma di riforme economiche, finanziarie ed amministrative (EFARP) col sostegno di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, che ebbe un impatto positivo, determinando la riduzione del deficit di bilancio che scese sotto il 3% del PIL nel periodo 1995-1999 e
dal 1999 al 2010 produsse una crescita di quasi cinque volte del prodotto interno lordo (da 12,7 a 58,7 miliardi di dollari).
Il settore primario, incentrato soprattutto sull’agricoltura, occupa quasi metà della popolazione, anche se i territori sono prevalentemente desertici: solo il 3% è fertile e produttivo.
I principali prodotti sono la canna da zucchero, il ricino, il tabacco, il cotone, il qat[3]. Poi frutta e ortaggi, legumi, cereali. Importante il caffè che viene anche esportato; l’allevamento comprende caprini, ovini e bovini; dromedari, cavalli e asini sono utilizzati come mezzi di trasporto.
La pesca viene praticata con successo, ma da pescatori dotati di piccole imbarcazioni.
Nonostante le estese acque territoriali e le risorse marine che possono produrre annualmente 840.000 tonnellate di pescato ogni anno, l’industria del settore è ancora agli inizi.
Il settore secondario produce soprattutto petrolio e gas naturale, anche se in misura inferiore rispetto agli altri Paesi della penisola arabica: nel 2010 si estrassero 258.800 barili di greggio al giorno, mentre per il gas naturale, nel 2009 la produzione ammontò a 520.000.000 di metri cubi.
Altri prodotti del sottosuolo sono rame, piombo, zinco, molibdeno, nichel, oro, gesso e marmo, e diverse miniere di sale in più punti del paese, mentre la manifattura comprende impianti tessili, oleifici, manifatture di tabacchi, concerie. Sono presenti anche cementifici e impianti per la produzione di materie plastiche; l’artigianato yemenita produce prodotti quali tappeti, gioielli, oggetti in ferro e vetro.
Il settore terziario si sta gradualmente sviluppando, ma non ha ancora raggiunto livelli soddisfacenti, dal momento che gran parte del Paese risente dell’instabilità politica statale; con la costruzione di moderne vie di comunicazione questo settore ha avuto notevoli impulsi, tanto che sono aumentati i flussi commerciali, ed è stato incrementato il commercio estero; vengono esportati prodotti come petrolio e derivati, cotone, caffè, cuoio, pelli e pesce.
Il sistema finanziario si regge sulla presenza delle banche: al vertice di tutte c’è la banca centrale che stampa la carta moneta e controlla sia la politica monetaria che il trasferimento di valute da e per lo Yemen.
Ad essa si aggiungono quindici banche commerciali: nove private, di cui quattro islamiche, quattro estere private, due di proprietà statale e due specializzate in crediti allo sviluppo.
Non esiste una borsa valori nazionale.
Il turismo ha notevolissime potenzialità di crescita: sulla costa, sulle isole e nel Paese stesso dove permangono testimonianze di antiche civiltà. In passato, non di rado turisti occidentali venivan rapiti per ottenere denaro in cambio della liberazione, ora il flusso dei viaggiatori è diminuito a causa della guerra.
Sono in forte espansione i mezzi di comunicazione: dal 1999 al 2010 si son diffusi telefono, soprattutto cellulare, ed Internet, mentre il sistema dei trasporti è ancora carente.
Un tempo, lo Yemen era chiamato “Arabia Felix” perché si diceva che le sue terre erano fertili e cresceva ogni sorta di piante ed animali: oggi il Paese è uno dei più infelici della Terra e non si vede a breve termine la fine di quest’incubo di sofferenze.
PIER LUIGI GIACOMONI
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NOTE:
[1] Zaydisti: Lo Zaydismo (in arabo: Zaydiyya) è una delle varianti dello Sciismo islamico ed è attualmente diffuso nel solo Yemen, anche se in passato, era presente anche in Persia, specialmente in varie regioni gravitanti intorno al Mar Caspio.
Deve il suo nome a Zayd ibn Al ibn al-usayn, uno dei figli del quarto Imam sciita Zayn al-Abidin, che insorse inutilmente a Kufa nel 740 d.C. contro il potere omayyade, da lui ritenuto usurpatore e violentemente ostile.
La rivolta di Zayd fu la prima a manifestarsi dopo il massacro di Kerbela (661 d.C.) in cui fu ucciso alì, il quarto califfo salito al potere dopo la morte di Maometto (632).
Il suo programma era ricco d’implicazioni religiose e sociali (tra l’altro proponeva la legittimità della deposizione dell’Imam in caso d’inadempienza) e quest’ultima componente caratterizzerà a lungo lo Zaydismo, proponendolo come un movimento grandemente pericoloso agli occhi del potere costituito islamico.
Oggi gli aderenti allo zaydismo sono circa 10 milioni.
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[2] Repubblica Democratica Popolare dello Yemen: Nata il 1ª Dicembre 1971, a seguito della concessione della piena indipendenza da parte del Regno Unito, fu sciolta il 22 maggio 1990 quando fu proclamata la Repubblica Unita dello Yemen. La sua estensione geografica era pari a 332.970 km² (1990) e la sua popolazione era di 1,6 milioni nello stesso anno.
A partire dal 2007, gruppi di sudisti hanno iniziato una lotta per l’indipendenza dei territori meridionali del Paese, al fine d’ottenere la piena indipendenza del territorio.
Riuniti in Al Hirak (il Movimento) hanno formato delle milizie di “resistenza popolare” cercando di difendere i territori meridionali dalle angherie delle diverse fazioni in lotta.
Per Al Hirak la guerra civile in corso è un’opportunità per ottenere l’indipendenza del Sud.
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[3] qát: Il qat o khat, che significa arbusto), è una pianta originaria delle regioni orientali dell’Africa (probabilmente dell’Etiopia), ma assai diffuso nella penisola Arabica. Le foglie di questa pianta contengono un alcaloide dall’azione stimolante, che causa stati di eccitazione e di euforia, e che provoca forme di dipendenza. Nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato il qat tra le droghe.
La sua coltivazione e l’uso come droga sono molto diffuse nel territorio dello Yemen.
Le diverse fazioni in lotta nel Paese lo smerciano per ricavarne denaro che poi vien impiegato per acquistare armi.