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L’INDIFFERENTISMO, MALATTIA SENILE DELLA SINISTRA
(7 Maggio 2017)

PARIGI. Inizio a scrivere queste note a meno di due ore dalla chiusura dei seggi nel ballottaggio presidenziale francese, non sapendo quale sarà il risultato finale che, come tutti gli scontri a due, contiene grande incertezza perché molti sono i fattori che possono spingere l’elettorato a fare una scelta o l’altra.

Per esempio, non è certamente una buona notizia che la partecipazione al voto sia calata: secondo i dati ufficiali diffusi alle 17 dal Ministero dell’Interno di Parigi, ha votato il 65,30% degli elettori contro il 69,42% fattosi registrare alla stessa ora al primo turno.

Diversamente da quanto accade in Italia per il ballottaggio dei sindaci, in Francia in occasione del secondo turno si registra spesso un incremento della partecipazione perché si sa che lo scrutinio è decisivo.

Cosa significa questo calo di partecipazione?
Come si tradurrà concretamente in sede di esito elettorale?
Questa flessione dei votanti è un effetto della campagna pilatesca condotta dall’estrema sinistra o dalla delusione provata dagli elettori di centro-destra per la mancata presenza a questa votazione del loro candidato?

Son interrogativi che ha un senso farsi ora che manca poco alla chiusura definitiva dei seggi prevista per le ore 20 e che potrebbe aver presto una risposta.

Intanto, nelle due settimane che ci hanno separato dal primo turno è divampato sia in Francia che in Italia un importante dibattito: è giusto che un elettore di sinistra, dichiaratamente antifascista, si rechi a votare per un candidato centrista, liberale, proveniente dal mondo dell’economia per sbarrare il passo ad una candidata dell’ultradestra?

Jean-Luc Mélenchon, leader incontrastato dell’estrema sinistra francese, che al primo turno ha raccolto il 19,59% dei voti ha rimesso la questione nelle mani dei militanti della sua coalizione La France Ensoummise: risultato, il 65% si è pronunciato per l’astensione.

Di conseguenza, quel quasi 20% di elettorato dovrebbe votare scheda bianca o non recarsi ai seggi.

Lo stesso Mélenchon aveva influenzato la votazione interna dando un’indicazione di voto obliqua ed ambigua all’indomani del primo turno: al ballottaggio, ha più o meno detto, non voterò per Marine Le Pen.

La discussione si è trasferita anche in Italia ed ha fatto un certo scalpore l’intervista apparsa sull’Espresso di Emiliano Brancaccio, economista di sinistra che dice che, se fosse francese, non voterebbe per emmanuel Macron.
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Emiliano Brancaccio. Nel momento in cui un partito d’orientamento fascista si avvicina alle stanze del potere, in un Paese importante per l’Europa, come la Francia, il Prof. Brancaccio dichiara:

«Chi a sinistra invita a votare il “meno peggio” non sembra comprendere che nelle condizioni in cui siamo il “meno peggio” è la causa del “peggio”.
Le Pen e i suoi epigoni sono sintomi funesti, ma è Macron la malattia politica dell’Europa. Scegliere uno per contrastare l’altra è un controsenso.

Macron incarna l’estremo tentativo del capitalismo francese di aumentare la competitività, accrescere i profitti e ridurre i debiti per riequilibrare i rapporti di forza con la Germania e stabilizzare il patto tra i due paesi sul quale si basa l’Unione europea. Al di là degli slogan di facciata, se vincerà
le elezioni Macron cercherà di sfruttare il crollo dei socialisti e lo spostamento a destra dell’asse della maggioranza parlamentare per promuovere le riforme che gli imprenditori francesi invocano e che, a loro avviso, Hollande ha portato avanti con troppa timidezza. Per citare un esempio, Macron non
ha mai nascosto che uno degli elementi della sua politica presidenziale sarà una nuova legge sul lavoro, ancora più precarizzante della “Loi Travail” di Hollande. La sua svolta graverà dunque in primo luogo sui lavoratori e sui soggetti sociali più deboli. La beffa è che alla fine questa politica alimenterà
anche in Francia i meccanismi deflazionistici che hanno distrutto domanda e base produttiva nel resto del Sud Europa. Alla fine Macron non raggiungerà nemmeno il suo obiettivo di fondo, di riequilibrare i rapporti economici con la Germania e stabilizzare il quadro politico europeo. Chi oggi decide di
votare Macron sarà ricordato per avere aderito a una politica anti-sociale, che per giunta si rivelerà fallimentare rispetto ai suoi stessi scopi. Non dovremo meravigliarci se poi si apriranno ulteriori praterie di consenso operaio a favore di ipotesi politiche con caratteristiche ancora più marcatamente
nazionaliste, e al limite neo-fasciste».

In sostanza, conclude Brancaccio: «tu puoi gettare le basi per la costruzione di una credibile forza politica di sinistra solo se porti avanti una lunga e faticosa opera di elaborazione di un punto di vista autonomo del lavoro rispetto alle forze egemoni in campo. La lotta tra i partiti di “establishment”
rappresentativi degli interessi del grande capitale europeo, e le forze piccolo-borghesi di orientamento nazionalista, è destinata a durare ancora a lungo.
Il peggio che in questa fase storica possa fare una forza di sinistra è attuare quello che un tempo si definiva “codismo”: ossia portare acqua all’una o all’altra di quelle due opzioni politiche, in un ruolo subalterno destinato a procurare solo danni alla reputazione e alle prospettive future. L’unica
chance per dare nuovamente voce alle istanze sociali e del lavoro incuneandosi nello scontro tra gli interessi del grande e del piccolo capitale, è di costruire una chiara alternativa dialettica a entrambe quelle opzioni politiche».
***
Paolo Flores d’Arcais. In un editoriale apparso in questi giorni su Micromega, il filosofo Paolo flores d’Arcais prende le distanze dalle posizioni di Brancaccio. Prima di tutto rivela d’aver rifiutato l’intervista «per non dare spazio a una tesi assurda e politicamente tragica» poi aggiunge: «Credo che di fronte al dilemma tra un banchiere liberista (espressione dunque del capitale finanziario internazionale, che ormai è mera speculazione selvaggia e produzione di azzardi tossici, responsabile della crisi in cui il mondo è avvitato,) e un politico fascista, la scelta dovrebbe scattare automatica,
istintiva, addirittura pavloviana: si vota il banchiere, benché sia voto orripilante, perché il fascismo resta il male assoluto. Questa consapevolezza
dovrebbe essere una sorta di anticorpo, di difesa immunitaria, presente come incancellabile DNA nell’organismo neuronal-ormonale di ogni democratico.
Una difesa immunitaria che invece sta rovinosamente venendo meno, e nelle giovani generazioni sembra ancor più che nelle altre, benché il fenomeno sia
ormai generale. Il fascismo è visto solo come un male tra gli altri, una forma di sfruttamento tra le altre, per cui tra due mali diventa possibile e anzi
auspicabile e perfino doveroso e infine gioioso (così un intellettuale della sinistra francese) astenersi.»
D’Arcais argomenta: «La politica finanziaria (ma anche economica in tutti i suoi aspetti) liberista, infatti, non è la causa del lepenismo, è la responsabile della crisi economica,
della mostruosa hybris di diseguaglianza che avvilisce e mina la democrazia in Europa e negli Usa, della crescente e giusta rabbia di masse popolari sempre più vaste, del loro anelito sacrosanto e razionale a punire gli establishment. Il lepenismo è solo una delle risposte a questa situazione. La politica
di Sanders, di Podemos, e altre che potranno nascere, costituiscono altrettante risposte possibili alla mostruosità sociale e all’inefficienza economica che il liberismo sempre più selvaggio (ma egemone ahimè da tre decenni e mezzo) incuba e produce.
Insomma, il liberismo finanziario sfrenato, di cui Macron è grand commis, non produce una risposta politica (il lepenismo), produce una catastrofe sociale,
il cui esito politico dipende dalla capacità delle culture, dei cittadini, e soprattutto delle elités politiche, che quel liberismo combattono.
Se la conseguenza del liberismo fosse il lepenismo, se il rapporto fosse di causa-effetto, vorrebbe solo dire che ogni agire a sinistra, ogni impegno è mera velleità, è un inconcludente e patetico agitarsi. Che insomma siamo davvero alla famosa fine della storia: hybris liberista o fascismo, il destino
è ormai unico e in atto.
La domanda che a sinistra (la sinistra della società civile e della coerenza e intransigenza) ci si deve porre è perciò: la lotta per una crescente giustizia e libertà, dove diritti sociali e diritti civili vanno di pari passo inestricabilmente intrecciati, è più difficile se Presidente diventa un fascista o se vince un
banchiere liberista? Quale delle due prospettive minaccia costi umani più grandi, sofferenze, sacrifici, per i cittadini e la lotta?»
***
L’indifferentismo. Il senso evidente della decomposizione della sinistra è rappresentato proprio dalle posizioni di Mélenchon e Brancaccio: in sostanza, è per essi indifferente se stasera vince emmanuel Macron o Marine Le Pen.

Anzi, probabilmente per questi illuminati pensatori e lungimiranti strateghi è forse perfino meglio se si aggiudica la contesa la quarantottenne figlia del negazionista Jean-Marie Le Pen.

Prima di tutto, perché il suo programma economico, difficilmente realizzabile prevede da un lato un consistente aumento della spesa pubblica necessaria per finanziare quegli investimenti preannunciati per riassorbire la disoccupazione e per garantire le pensioni a 60 anni, poi perché la leader del Front National annuncia che, se vincerà, chiuderà le frontiere, uscirà dall’Eurozona e dall’UE ed espellerà il maggior numero possibile di immigrati.

E’ un programma che non dispiace all’estrema sinistra che, neanche tanto nascostamente, vede come il fumo negli occhi la società aperta, i mutamenti tecnologici in atto, la nascita di nuovi mestieri, la globalizzazione, la libera circolazione di uomini, idee e capitali.

Questa sinistra che si batte contro il neoliberismo e l’ideologia dell’austerità non si sta accorgendo che alla chetichella sia l’uno che l’altra se ne stanno andando in soffitta. tutti gli stati, per reagire alla crisi economica, stanno abbandonando l’ideologia del pareggio di bilancio perché sta bloccando la ripresa.

A tutto questo si deve aggiungere che per questi nuovi leader della cosiddetta “sinistra radicale” il vero nemico sono i partiti della sinistra riformista: Podemos in Spagna, la France ensoummise ed altri, sperano in un collasso definitivo delle socialdemocrazie convinti di poterne prendere il posto non già per governare, ma per rappresentare, senza altro costrutto, la miriade di movimenti popolari in cui credono di identificarsi.

In realtà costoro non comprendono che l’eventuale avvento al potere d’un governo o d’un presidente fascista sarebbe la fine anche per loro e le sofferenze che patirebbero i movimenti popolari sarebbero incalcolabili.

tornano allora d’attualità le parole del Pastore Martin Niemöller che condannava l’inattività degli intellettuali tedeschi di fronte ai rastrellamenti nazisti:

«Quando i nazisti presero i comunisti, io non dissi nulla/ perché non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico.
Quando presero i sindacalisti, io non dissi nulla perché non ero sindacalista.
Poi presero gli ebrei ed io non dissi nulla perché non ero ebreo.
Poi vennero a prendere me: non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa».
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PS. secondo una prima proiezione diffusa da France Télévision Emmanuel Macron avrebbe vinto le elezioni ottenendo il 65,1% dei voti contro il 34,9% andato a Marine Le Pen.

Secondo la stessa proiezione si sarebbe astenuto un quarto del corpo elettorale e l’8,8% delle schede risulterebbe bianca.

Se questo sarà il risultato finale, l’europa potrà tirare un sospiro di sollievo, ma dovrà anche esser attentamente valutato l’effetto Mélenchon, ossia l’indifferentismo della nuova sinistra francese.

PIER LUIGI GIACOMONI

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