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L’ERA RENZI E’ FINITA
(10 Marzo 2018)

ROMA. L’èra Renzi è finita, così come lo furono le precedenti ère Veltroni e Bersani: in dieci anni di vita il Partito Democratico ha bruciato cinque segretari generali ed ha svolto decine di congressi a qualunque livello che,

attesi come il toccasana degl’insanabili contrasti, si son rivelati in realtà assolutamente non risolutivi di nulla.

L’èra Renzi è finita, dicevamo, e, salvo sorprese, dell’ex Sindaco di Firenze si parlerà sempre di meno, così come son andate in archivio le parole e le immagini dei suoi predecessori, una volta messe da parte le loro leadership.

Ora il Partito Democratico deve cercarsi, come già altre volte in passato, un nuovo segretario: già sulla stampa girano dei nomi, come accade quando una squadra di calcio licenzia l’allenatore per sostituirlo con un altro. Tuttavia, c’è un male di fondo che affligge questo partito sin dalla sua fondazione il 14 Ottobre 2007: l’incapacità delle diverse anime che lo compongono di convivere l’una insieme all’altra.

Gli ex comunisti rimpiangono l’epoca in cui c’era un grande Partito Comunista che raccoglieva milioni d’iscritti ed elettori. La sua base, disciplinata ed organizzata, seguiva le direttive dei vertici e dava al Partito energie,

tempo, denaro.

Quel Partito, lo scriviamo volutamente con la lettera maiuscola, d’origine leninista, elitario, militarizzato, non esiste più: fu distrutto nel 1989 da Achille Occhetto, ma prima ancora dal crollo del mondo comunista che avevacaratterizzato la storia del “secolo breve”.

Gli ex democristiani, dal canto loro, rimpiangono anch’essi la Democrazia Cristiana, ossia il partito, stavolta lo scriviamo con la lettera minuscola, interclassista, che racchiudeva in sé una decina di micropartiti che

rappresentavano anime ideologiche ed istanze sociali diverse.

E’ trascurabile, nel decennio di vita del PD, il contributo unificatorio dei cosiddetti “nativi democratici”, perché non è riuscito ad impedire che il partito divenisse il luogo di scontro tra un’area riformista ed una

massimalista. Si è così eternato l’insanabile conflitto che ha avvelenato la storia della sinistra italiana fin dal sorgere del primo nucleo del Partito Socialista (1892) tra chi vuole una trasformazione della società mediante

riforme e chi invoca una radicalità ed una purezza quasi metafisica. Se il PD pareva all’inizio la concretizzazione del “compromesso storico” berlingueriano,cioè il luogo d’incontro

delle grandi correnti popolari del XX secolo, in realtà presto è divenuto la forza politica dove si sono riunite le nomenklature, la lettera K l’abbiamo scritta apposta, dei partiti che contribuirono alla fondazione dello

schieramento, i DS e la Margherita. Queste élites han perso più tempo a farsi la guerra tra loro che ad osservare e interpretare ciò che avveniva nella società italiana.

• Nel 2008 il PD, alla sua prima prova elettorale ottenne quasi il 34% dei voti: una percentuale che il vecchio PCI toccò solo due volte (1976 e 1984): eppure pochi mesi dopo lo scrutinio, Walter Veltroni, allora Segretario

Generale,  fu costretto a rassegnar le dimissioni;
• Nel 2013, il PD a sorpresa ottenne il 25% dei voti e poche settimane dopo accadde lo sconcio dei 101 “franchi

tiratori” che sbarrarono le porte del Quirinale a Romano Prodi: Pier Luigi Bersani, allora segretario del partito

rimise il mandato;
• nel 2018 il PD raccoglie solo il 19% dei voti e Matteo Renzi, segretario rieletto solo a maggio 2017 è costretto

a lasciar la carica, aprendo la strada ad un nuovo congresso a qualunque livello.
La parabola di Renzi. Matteo Renzi è stato un’interessante novità nella scena politica italiana dominata per un ventennio da Silvio Berlusconi, capace di comunicare in televisione, salvo che nei contraddittori. Renzi, che

veniva dall’esperienza amministrativa (era stato in precedenza Presidente della Provincia di Firenze e poi Sindaco della città di Dante) aveva dimostrato d’aver idee e capacità di comunicarle, senza annoiare chi l’ascoltava.

Nel 2012 si era candidato alle primarie per la scelta dell’aspirante Presidente del Consiglio alle imminenti elezioni politiche: pur battuto da Bersani aveva dimostrato rispetto per il vincitore, riconoscendo la sconfitta e

dichiarando che avrebbe collaborato lealmente alla campagna elettorale per far vincere il partito.
Un anno dopo, autunno 2013, si ricandidò alla segreteria del PD ed eletto divenne Presidente del Consiglio nel febbraio 2014. In due anni e mezzo di governo dimostrò una capacità di lavoro, un livello di produttività ignoti ai

suoi predecessori. ci trovavamo, giova ricordarlo, nel pieno della più grave crisi socioeconomica dai tempi di quella del ’29: industrie che chiudevano, gente che perdeva il lavoro, banche sull’orlo del fallimento, rischio di default dello Stesso Stato, gravemente indebitato.

Una situazione che avrebbe sconsigliato dall’assumersi delle responsabilità ministeriali. Se si guarda senza faziosità al lavoro svolto dal Ministero Renzi si deve riconoscere che è intervenuto in una

quantità impressionante di settori.

Fra l’altro, obbedendo ai richiami del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, applaudito da tutta l’aula parlamentare, produsse un’amplissima riforma costituzionale ed una legge elettorale che se fossero state messe in

atto avrebbero dato al nostro Paese una stabilità ed una credibilità insperate. I giornali ed i governanti stranieri riconobbero che l’amministrazione Renzi, diversamente da quelle che l’avevan

preceduta, realizzava le riforme promesse da anni e mai attuate.

tuttavia, nel partito proseguiva, seppur sottotraccia, l’eterna guerra tra le sue diverse componenti: finché la leadership renziana è stata forte, il conflitto si esplicava coi mille distinguo, con le alzate di sopracciglio di

qualche illustre sconosciuto, dotato però di mandato parlamentare. Appena però è comparsa qualche crepa, i “gufi”, come li chiamava volentieri Renzi, si son dati da fare.

così, è arrivata la vittoria del “no” al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, una serie di sconfitte o di vittorie mutilate a delle elezioni amministrative, le dimissioni dal governo e la scissione di una corrente dal

partito. Ad un certo punto qualunque cattivo evento era imputato a Renzi o ai suoi ministri. L’ultima campagna elettorale è stata per l’uomo di Firenze una via crucis: senza una radio, una tv, un pool di

giornali che diffondessero il suo messaggio, osteggiato dai media di tutta italia, svillaneggiato dagli avversari che l’han definito “un morto che cammina” Renzi è andato incontro ad una sconfitta annunciata, anche se superiore

alle aspettative. Ci son stati errori nella gestione Renzi? Certamente sì:

• lo slogan della “rottamazione” lanciato all’inizio per indicare che si voleva emarginare un gruppo dirigente

vecchio ed anchilosato dalla lunga militanza parlamentare, ha certamente, soprattutto su lungo periodo, creato dei

dissapori, anche di natura personale, tra gli attori sulla scena;

• il concentrarsi del potere in poche mani, soprattutto in persone vicine da anni a Renzi, ha creato un crescente distacco tra la leadership, raffigurata col simbolo del “cerchio magico” ed il resto del partito;

• non tutti i più stretti collaboratori di renzi si son rivelati all’altezza del ruolo rivestito ed alla lunga sono comparsi dei grossi limiti culturali del gruppo dirigente, come ad esempio il tentativo, a volte maldestro,

d’imitare il modo di comportarsi e di far promesse dei leader avversari;

• la permanenza in carica, nelle varie istanze locali, delle nomenklature che nei singoli territori controllavano voti e tessere ha fatto pensare che se il cambiamento era in atto a Roma,non avveniva la stessa cosa a Torino, Bologna o Napoli;

• Renzi, poi, è apparso sempre di più come un autocrate alla ricerca d’un potere assoluto ed una cieca obbedienza dei suoi sottoposti: in sostanza, è parso per qualche tempo che volesse trasformare il Partito Democratico in uno

schieramento personale come lo sono altri partiti attivi sulla scena italiana;

• in un’epoca in cui la comunicazione è tutto, il partito è risultato afono sui media tradizionali (radio TV e giornali), lasciando spazio agli altri ed affidandosi solo alle reti sociali.

• non si è mai visto, infine, un partito che non difendesse in pubblico le proprie realizzazioni quasi che al governo ci fosse qualcun altro: eppure il PD al momento governa ancora la maggioranza delle Regioni, dei Comuni e

delle Città Metropolitane.

Del resto, già durante la XVII Legislatura il partito svolgeva allo stesso tempo il ruolo di maggioranza ed opposizione, quindi due parti inconciliabili nella stessa commedia.

Ciò ha indubbiamente avvantaggiato gli altri schieramenti politici che han avuto buon gioco nel dimostrare che con tutte le sue divisioni, il partito di via del Nazareno non era all’altezza del suo ruolo di governo.
***
Tutto sbagliato, tutto da rifare? Alla fine di quest’avventura sembra che rimangan solo macerie: un partito ridotto ai minimi termini, dilaniato da conflitti inestinguibili, alla ricerca d’un segretario, magari da far fuori tra qualche anno.

Eppure, secondo noi, nell’amarezza della sconfitta, rimane un’eredità importante: i governi della XVII legislatura, soprattutto quelli presieduti da Renzi e gentiloni, han realizzato riforme importanti che attendevamo da tempo ed

han dimostrato che una sinistra riformista con cultura di governo è possibile o addirittura necessaria. Se oggi l’opinione pubblica si fa sedurre da parole d’ordine come “flat tax” o “reddito di cittadinanza” non è

detto che in un futuro anche prossimo non torni a riconsiderare il lavoro degli esecutivi appena menzionati sotto una luce maggiormente positiva.

Però il PD deve, a nostro sommesso avviso, divenire un partito capace di rielaborare il lutto per la scomparsa definitiva dei partiti e delle ideologie del Novecento ed in grado di offrire idee e progetti nuovi adeguati al XXI

secolo. Se poi qualcuno vorrà continuare ad aver nostalgia dei vecchi riti e miti del Novecento, liberissimo di farlo, magari però in un luogo diverso dal partito di via del Nazareno.

PIER LUIGI GIACOMONI

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