LE GUERRE D’AFRICA
(1° Maggio 2021)
TUNISI. L’Africa, il continente nel quale la guerra, con tutte le sue tragiche conseguenze, è il pane quotidiano di milioni di persone, data la sua fragilità, vive qui e là forti tensioni che producono fiammate di violenza.
Corollario dei combattimenti, saccheggi, devastazioni, rapimenti, stupri, massacri, devastazioni ambientali, rapina delle risorse, profughi, sfollati…
Prima di far una rassegna dei principali conflitti in atto è indispensabile formulare alcune considerazioni preliminari che servono per contestualizzare il fenomeno bellico.
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L’ASSETTO TERRITORIALE.
Le guerre che si combattono in Africa, dalla decolonizzazione in poi sono raramente dovute a vertenze tra Stati per rivendicazioni territoriali. Se si osserva la mappa politica del continente si noterà come i confini degli Stati siano quelli definiti dalle potenze coloniali con pochissime variazioni: nel 1993 l’Eritrea si è staccata dall’Etiopia e nel 2011 il sudan meridionale si è separato dal Sudan.
Tutti gli altri tentativi di secessione (Katanga e Kasai [1960-1963], Biafra [1967-1970]) sono falliti; allo stesso modo non hanno avuto successo né le guerre di conquista, come quelle promosse dalla Somalia per impossessarsi dell’Ogaden (1964 e 1977), né le fusioni come quella tra Libia e Ciad (1979) o tra Senegal e Gambia (1983).
A questo quadro, fa eccezione l’unione tra Tanganika e Zanzibar, avvenuta nel 1964 dopo che sull’isola era avvenuto un colpo di stato contro il regime sultanale, che ha portato alla nascita della Tanzania; altra correzione dell’assetto territoriale l’unione dei due Camerun, quello francofono con l’anglofono (1961) che però, come vedremo più oltre , in anni recenti è stata fortemente messa in discussione.
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TRIBALISMO E REGIONALISMO.
Più spesso, allora, le guerre che si combattono in tutto il continente derivano dal manifestarsi di fenomeni come ribellioni interne,disfacimento dell’apparato statale o rivendicazioni di minoranze che si ritengon discriminate da chi è al potere.
Sovente la stampa mainstream classifica questi scontri come conflitti etnici o tribali, ma purtroppo le rivalità tra diverse etnìe sono solo una delle cause che provocano l’esplosione della violenza e in alcune precise circostanze i veri motivi per i quali si prendono le armi sono di natura economica.
Con ciò non si vuol sostenere che le rivalità etnico-tribali, anche secolari, non esistano, ma spesso esse vengono fomentate da politiche discriminatorie dei regimi al potere.
E’ accaduto in questi decenni nei diversi Stati nati dalla dissoluzione degl’imperi coloniali che si siano impadronite del potere élites costituite da specifici gruppi etnici (i Kikuyu in Kenya, gli Igbo in Nigeria, gli Hutu meridionali in Ruanda…): i governi per mantenersi al potere hanno gratificato i membri dell’élites alleate, conferendo cariche e sovvenzioni.
Ovviamente chi era escluso dal banchetto ad un certo punto ha tentato la strada del potere: nel 1966 i Nordisti si son impadroniti del potere in Nigeria e l’hanno detenuto per decenni, in ruanda nel 1973 gli Hutu settentrionali hanno detronizzato con la forza il regime sudista, in Kenya in più occasioni soprattutto dopo le elezioni presidenziali, sono scoppiati scontri tra Kikuyu e Lùo, come nel 2008, e gli esempi potrebbero continuare.
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I SIGNORI DELLA GUERRA.
Come s’è detto, la stragrande maggioranza dei conflitti che si combattono in Africa sono guerre per bande alimentate dai warlord, cioè i “signori della guerra”, personaggi senza scrupoli che si mettono in gioco in prima persona per impossessarsi con la forza di risorse di cui lo Stato in disfacimento dispone per alimentare lo scontro.
Tali individui contribuiscono al fenomeno dei cosiddetti “stati falliti”, quelle nazioni cioè che esistono sulla carta geografica, ma dove l’anarchìa e il sopruso sono generalizzati e la violenza pane quotidiano.
Come nasce un Warlord? Ce lo spiega esaurientemente Ryszard Kapuscinski cui diamo volentieri la parola:
«Un warlord – scrive – è di solito un ex ufficiale, un ex ministro, un attivista di partito o qualsiasi altro individuo avido di soldi e di potere, forte, spietato e senza scrupoli che, approfittando del crollo dello stato (a cui ha contribuito e continua a contribuire in prima persona), vuole ritagliarsi uno staterello informale tutto suo dove spadroneggiare. Il più delle volte il warlord sfrutta allo scopo il clan o la tribù ai quali appartiene. I warlord sono i seminatori d’odio tribale e razziale dell’Africa, anche se non lo ammetteranno mai. Dichiarano sempre di capeggiare movimenti o partiti di portata nazionale: il Movimento di Liberazione tale, il Movimento in Difesa della Democrazia o dell’Indipendenza talaltro. Per quanto riguarda gli ideali, volano sempre molto alti. Scelta la propria denominazione, il warlord passa a reclutare l’esercito. Qui non ci sono problemi: non c’è paese o città che non pulluli di migliaia di ragazzi affamati e senza lavoro che sognano di entrare nelle formazioni di un warlord. Questi dà loro un’arma, ma soprattutto un senso di appartenenza. Il più delle volte il loro “caudillo” non li paga, limitandosi a dire: «Ora che avete le armi, sfamatevi da soli». Per loro è sufficiente, sanno perfettamente come fare.
Neanche trovare le armi è un problema. Costano poco e ce ne sono in abbondanza. Inoltre i warlord hanno denaro. O l’hanno razziato dalle istituzioni statali (in qualità di ministri o generali), oppure si arricchiscono occupando le parti del paese economicamente redditizie: miniere, fabbriche, boschi da tagliare, porti marittimi, aeroporti. Taylor[1] in Liberia o Savimbi[2] in Angola occupano i territori con le miniere diamantifere. Molte delle guerre africane sono, per così dire, guerre di diamanti. Una guerra per i diamanti si è svolta nella provincia del Kasai in Congo, un’altra dura da anni in Sierra Leone. Ma le miniere non sono le uniche fonti di soldi. Anche strade e fiumi rendono bene: basta piazzare posti di blocco ed esigere un dazio da chi passa.
Fonte inesauribile di guadagno è per i warlord l’aiuto internazionale alla popolazione povera e affamata. Da ogni trasporto in arrivo prelevano i sacchi di grano e i chili d’olio che gli servono. E’ la legge: chi ha le armi, mangia per primo. Agli affamati restano gli avanzi. Il problema delle organizzazioni internazionali è che se non danno la loro parte ai razziatori, questi non lasciano passare i trasporti di soccorso e gli affamati muoiono: si consente quindi che i capibanda prelevino quello che vogliono, nella speranza che almeno un rimasuglio arrivi a chi fa la fame.
I warlord sono al tempo stesso causa e prodotto della crisi nella quale, in epoca postcoloniale, versano molti paesi del continente. Quando corre voce che uno stato africano comincia a vacillare, possiamo star certi che i warlord sono vicini. In Angola, in Sudan, in Somalia, nel Ciad: sono ovunque, spadroneggiano ovunque. Che fa un warlord? In teoria combatte contro altri warlord, ma non necessariamente. Il più delle volte si dedica a saccheggiare la popolazione inerme del proprio paese. Il warlord è l’esatto contrario di Robin Hood. Robin Hood toglieva ai ricchi per dare ai poveri. Il warlord toglie ai poveri per arricchirsi e nutrire la sua banda. Ci troviamo in un mondo dove la miseria condanna gli uni a morte e trasforma gli altri in mostri. Vittime gli uni, carnefici gli altri. Non esiste altra scelta.
Il warlord non deve cercare lontano le sue vittime, le ha sottomano: sono gli abitanti dei villaggi e delle cittadine limitrofe. Le sue bande di condottieri seminudi, calzati di Adidas sbrindellate, perlustrano senza sosta le terre del loro warlord alla ricerca di cibo e bottino. Per questi miserabili inferociti, affamati e spesso anche drogati tutto fa brodo: un pugno di riso, una vecchia camicia, un lembo di coperta, una pentola di terraglia sono oggetti di valore che danno i brividi, accendono gli occhi di bramosìa. Ma ormai la gente ha imparato: appena si sparge la voce che le bande di un warlord sono in arrivo, tutta la zona fa fagotto e scappa, formando appunto le famose code chilometriche di gente in cammino che gli abitanti dell’Europa e dell’America guardano alla televisione.
Guardiamola, questa gente in cammino. Sono principalmente donne e bambini. Le guerre dei warlord colpiscono infatti i più deboli, quelli che non hanno la forza e i mezzi per difendersi. Osserviamo anche quel che le donne portano con sé. Sulla testa recano un fagotto o una catinella contenenti le cose più indispensabili: un sacchetto di riso o di miglio, un cucchiaio, un coltello, un pezzo di sapone. Non possiedono altro. Quel fagotto, quella catinella sono tutto il loro tesoro, il guadagno di una vita, la ricchezza con la quale entrano nel ventunesimo secolo.
Il numero dei warlord è in continuo aumento. Sono la nuova forza, i nuovi padroni. Si prendono i bocconi migliori, le parti più ricche del paese, rendendo lo stato, ammesso che riesca a sopravvivere, debole, povero e malfermo. Gli stati tentano di difendersi, creano leghe e alleanze per resistere, per sopravvivere. […] Capita ogni tanto che i warlord debbano riconoscere che tutto quel che c’era da razziare è stato razziato e che le fonti di guadagno si sono esaurite. Allora danno inizio al cosiddetto processo di pacificazione. Convocano una conferenza delle parti in lotta (la cosiddetta “Warring Factions Conference”), firmano un’intesa e stabiliscono la data delle elezioni. In cambio la Banca mondiale concede loro prestiti e crediti a non finire. Ora i warlord si ritroveranno anche più ricchi di prima, poiché dalla Banca mondiale si può ottenere molto di più che dai compaesani affamati.»
(da R. Kapuscinski, Ebano, Feltrinelli, Milano, 2000)
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I BAMBINI SOLDATO.
I warlord, come detto, si servono nei propri eserciti di giovanissimi soldati, anche molto piccoli: negli ultimi anni in Nigeria Boko Haram ha utilizzato perfino bambine kamikaze che si fanno esplodere in mezzo ai mercati o nei pressi delle chiese.
Come nasce il fenomeno? Sentiamo ancora Kapuscinski:
«In Africa sono anni e anni che i bambini ammazzano in massa altri bambini. Oggi le guerre su questo continente sono praticamente tutte guerre tra bambini.
Nei luoghi dove le lotte si protraggono da decenni (come in Angola o in Sudan) la maggior parte degli adulti è stata uccisa o è morta di fame e per le epidemie. A continuare la guerra rimangono i bambini. Nel caos cruento che regna in vari paesi dell’Africa sono spuntate decine di migliaia di orfani affamati e senza casa, alla ricerca di qualcuno che li ospiti e li nutra. Il posto che offre più probabilità di trovare da mangiare è l’esercito. I soldati hanno le maggiori occasioni di procurarsi il cibo: in questi paesi l’arma non è solo uno strumento di lotta ma anche un mezzo per sopravvivere, spesso l’unico.
Soli e abbandonati, i bambini si trascinano dove stazionano i soldati: caserme, accampamenti, punti di sosta. Qui aiutano, lavorano, diventano una parte dell’esercito, i cosiddetti «figli del reggimento». Presto ricevono un’arma e passano il battesimo del fuoco. I loro colleghi più anziani (anche loro dei bambini) spesso sono pigri e quando tira aria di battaglia spediscono al fronte i più piccini. Questi scontri armati tra ragazzini sono particolarmente accaniti e cruenti, in quanto il bambino, non possedendo l’istinto di conservazione, non sente e non capisce il pericolo di morte, non conosce la paura, portato della maturità.
Le guerre tra bambini sono state rese possibili anche grazie allo sviluppo della tecnica. Oggi una pistola automatica è corta e leggera, le sue ultime generazioni ricordano sempre di più un giocattolo. La vecchia Mauser era grossa, lunga e pesante: la mano di un bambino era troppo corta per raggiungere il grilletto, il mirino troppo distante per il suo occhio. Tutti problemi e sproporzioni risolti dall’arma moderna. Le sue dimensioni si adattano perfettamente alle fattezze di un ragazzino, anzi è tra le mani di un soldato grande e grosso che queste pistole sembrano giocattoli infantili.
La circostanza che un bambino sia in grado di servirsi unicamente di armi a mano e a breve gittata (non potendo ovviamente far funzionare un cannone o pilotare un bombardiere) ha fatto sì che in queste guerre di ragazzi le battaglie assumessero la forma di scontri ravvicinati, quasi di corpo a corpo dove i piccoli si sparano addosso alla distanza di un passo. Il frutto di questi duelli è quasi sempre spaventoso. Date le condizioni in cui si svolge la guerra, non muore solo chi cade sul campo, muoiono anche i feriti: per dissanguamento, per infezione, per mancanza di medicine.
(da R. Kapuscinski, op. cit.)
I bambini sono anche ferocissimi: durante le guerre civili in Liberia e sierra Leone (anni 80 e 90) i loro capi li incitavano a mutilare i prigionieri e questi lo facevano senza batter ciglio.
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I MERCENARI.
Le guerre d’Africa sono anche il terreno in cui operano i mercenari, professionisti della guerra che si mettono a disposizione di chi paga meglio. Nel 1960 la secessione del Katanga, fomentata dall’Unione Minière du Haut Katanga (UMHK) fu combattuta prevalentemente da mercenari bianchi provenienti dalla Rhodesia e dal Sud Africa. l’obiettivo era mantenere sotto controllo europeo, grazie alla connivenza del governo fantoccio di Moyses Ciombé, le ingenti riserve di rame presenti nel sottosuolo della provincia.
L’avversario di Ciombé era Patrice Lumumba, che commise l’imprudenza di non assegnare, nel governo che formò a ridosso dell’indipendenza congolese un numero adeguato di ministri e sottosegretari katanghesi: Lumumba aveva però bisogno come l’aria dell’appoggio dei Bakongo e di altri partiti a base etnica e ritenne di poter far a meno del sostegno dell’uomo di Stanleyville.
Ciombé se la legò al dito e quando Lumumba fu rimosso dal Presidente Kasavubu, partecipò al complotto per eliminarlo. Con la complicità di Joseph Désiré Mobutu, s’impadronì della persona di Lumumba, lo torturò atrocemente, l’uccise e ne sciolse il cadavere nell’acido.
(17 gennaio 1961).
In altri momenti, i mercenari furono attivi nelle isole Comore, dal 1979 al 1995, e nelle guerre che dilaniarono Angola E Mozambico dopo l’indipendenza ottenuta dal Portogallo, dopo la “rivoluzione dei garofani” (25 Aprile 1974).
Celebre, in questo senso, è la figura di Bob Denard che operò in diversi teatri di guerra africani dagli anni 70 ai 2000, mettendosi al servizio di tutti e tradendo tutti.
Nelle guerre che dilaniano ai nostri giorni la Libia e il Centrafrica è rilevante l’azione della Wagner, un’organizzazione di reclutamento di mercenari che ha la sua base in Russia.
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PANORAMICA DELLE GUERRE D’AFRICA IN CORSO.
Le regioni del continente africano dove sono in atto conflitti apparentemente inestinguibili sono il Sahel, il corno d’Africa, i grandi laghi: tuttavia, altre realtà son in fase d’evoluzione: ad esempio, si segnalano dal 2017 crescenti attacchi jihadisti a Cabo Delgado nel Mozambico del Nord e nuovi fronti di guerra possono esplodere dovunque.
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1. LIBIA: SPERANZE PER UNA PROSSIMA PACE.
Dopo l’insorgere, il 17 febbraio 2011 d’una ribellione popolare contro il duro regime del colonnello Gheddafi, nell’ex colonia italiana si è sviluppata una guerra per bande che si è trascinata fin ad oggi.
Poche settimane fa, è stato raggiunto un accordo di massima tra le fazioni in lotta per cui è stato formato un governo d’unità nazionale che dovrebbe condurre il Paese ad elezioni politiche generali il 24 dicembre 2021. Nel frattempo le armi tacciono, anche se gli attori sulla scena sono sempre lì.
Da una parte il governo d’unità nazionale di Tripoli, sostenuto dalla Turchia, e le milizie del Generale Khalifa al haftar, appoggiate dalla Russia che agisce attraverso i mercenari della Wagner, un organizzazione molto vicina al Kremlino.
Haftar, appoggiato anche da Egitto e emirati Uniti, controlla la Cirenaica, mentre il governo nazionale la Tripolitania.
In palio per tutti i contendenti il petrolio libico, ma la guerra è stata anche finanziata dai migranti subsahariani, trasportati nel Paese nordafricano, in vista d’un eventuale trasbordo su fatiscenti barconi nella ricca europa.
Chi non paga o non dà cifre ritenute sufficienti è rinchiuso in campi di concentramento,soggetto a maltrattamenti e financo ucciso.
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2. SAHEL.
Uno dei fronti più caldi, come si diceva, è il Sahel, ossia quella fascia di territorio semidesertico, che si trova a sud del Sahara e che è occupato, daovest a est, da Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad.
In quest’ampia regione operano quasi indisturbate milizie jihadiste che attaccano villaggi ed anche singole persone, sfruttando la porosità delle frontiere e l’inefficienza dei governi che hanno uno scarso controllo del territorio.
Mali e Niger devon anche fronteggiare frequenti ribellioni dei Tuareg che non voglion intromissioni degli eserciti governativi nelle loro aree d’influenza.
Per evitare il collasso degli Stati della regione saheliana la Francia, ex potenza coloniale dell’area, ha lanciato nel 2014 il progetto Barkhane che prevede l’invio di 5.000 soldati di Parigi a sostegno delle nazioni investite dal movimento qaedista.
Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e niger hanno inoltre creato il G5 Sahel che ha l’obiettivo di coordinare tutte le forze disponibili per bloccare l’espansionismo jihadista.
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3. BOKO HARAM.
Qualcosa d’analogo a ciò che avviene nel Sahel è pane quotidiano nella Nigeria settentrionale: qui da anni è attivo Boko Haram, una sètta salafita che combatte l’istruzione dei giovani, sia maschi che femmine e si oppone a qualunque modernizzazione. Ovviamente sono vittime di BH i cristiani, ma anche i musulmani ritenuti non allineati alle posizioni estremiste della sètta.
BH compie attacchi contro le chiese e le moschee ritenute infedeli, fa esplodere giovani kamikaze, anche bambine nei mercati, rapisce studenti dai collegi: i suoi militanti si muovono facilmente tra le frontiere e fanno sentire la loro presenza anche negli Stati vicini.
Nel 2014 Boko Haram balzò sulle prime pagine della stampa internazionale per il rapimento di oltre 270 ragazze da un collegio di Cibok: molte delle rapite hanno riguadagnato la libertà, altre son sparite.
La società civile nigeriana, soprattutto i movimenti che si battono per i diritti delle donne, protesta energicamente contro BH, ma le autorità non riescono assolutamente ad annientare questa sètta, anche per le connivenze su cui I salafiti posson contare in seno all’amministrazione e all’esercito.
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4. CENTRAFRICA.
Il territorio della Repubblica Centrafricana è tuttora per un terzo della sua estensione occupato da una serie di movimenti di guerriglia che da un lato si battono l’uno contro l’altro, dall’altro conducono una lotta contro le autorità di Bangui.
Nell’area operano anche i caschi blu della MINUCA, la forza onusiana che dovrebbe favorire la pacificazione nelPaese: è presente anche un contingente ruandese che si batte contro i diversi gruppi guerriglieri.
Finora la guerra di tutti contro tutti va aavanti da anni a singhiozzo con momenti di aspro scontro e cessate il fuoco temporanei che servono alle diverse milizie per ricostituire le forze in vista di nuovi scontri.
Per ora tutti i tentativi per porre fine alle violenze sono stati vani.
Anche in questo conflitto agisce la Wagner coi suoi mercenari.
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5. ITURI E KIVU.
Scendendo verso l’Africa equatoriale emerge la complessa situazione delle province orientali della Repubblica Democratica del Congo. In una zona relativamente ampia caratterizzata dalla presenza di frontiere estremamente permeabili operano circa 120 milizie che compiono sistematicamente attacchi contro la popolazione civile in un’area notevolmente popolata. i miliziani guidati da “signori della guerra” si muovono senza problemi tra Congo, uganda e Ruanda in una regione nota in tutto il mondo per le sue ingenti risorse minerarie che possono essere facilmente oggetto di traffici illeciti.
Ultimi arrivati, gruppi di miliziani jihadisti che attuano modalità simili a quelle di Boko Haram o degli al Sahabaab somali.
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6. CABO DELGADO.
Dal 2017 è in atto nel Mozambico settentrionale la guerriglia di Al shabaab, un movimento islamista radicale simile a quelli già attivi in altri paesi.
Gli al Shabaab mozambicani vogliono metter le mani sulle ingenti risorse petrolifere reperibili nella zona: il movimento pare organizzato molto bene ed in grado di mettere in seria difficoltà sia le autorità di Maputo che i sistemi di sicurezza delle multinazionali degli idrocarburi che hanno interessi nell’area.
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7. SOMALIA.
La Somalia è il tipico “stato fallito”: sulla carta esiste, nella realtà no.
A Mogadiscio si è installato un governo somalo riconosciuto a livello internazionale, in realtà il Paese è percorso da diverse milizie che si combattono l’una contro l’altra.
Il dogma dell’intangibilità delle frontiere, predicato dall’Unione africana, è stato di fatto poi infranto dalla secessione del somaliland che, pur non essendo riconosciuto dalla comunità internazionale, è uno stato perfettamente funzionante, dove non opera nessuna milizia.
Questa situazione si trascina da trent’anni, ossia da quando cadde il regime dittatoriale di Mohamed siad Barre che col pugno di ferro riusciva a tener unito un paese a forte rischio di disintegrazione.
Particolarmente attivi sul territorio somalo, ma con incursioni anche in quello kenyano, sono gli al Shabaab, che compiono attentati dinamitardi contro le sedi governative di Mogadiscio, provocando decine di morti.
Gli al Shabaab vorrebbero estendere la loro egemonia anche all’area islamizzata del Kenya comprendente il porto di Mombasa, ma finora Nairobi ha impedito che ciò accadesse.
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8. TIGRAY.
Il 4 Novembre 2020, è scoppiata la guerra del tigray tra le forze governative etiopiche e quelle vicine al TPLF, il partito più forte nella regione nordorientale. I Tigrini sono accusati dalle autorità di Addis Abeba d’aver tentato di separare la regione dal resto della federazione etiopica.
questa è solo una parte della verità: tra le diverse etnìe che popolano lo stato etiopico è diffuso il rancore per la lunga egemonia esercitata dai tigrini tra il 1991 ed il 2018. Pur essendo solo il 6% della popolazione, i dirigenti del Tigray detennero per quasi trent’anni il potere per aver guidato con successo la lotta contro Menghistu Hailé Maryam, il “negus rosso” che dal ’74, per 17 anni, aveva imposto la sua brutale dittatura.
Gli anni di leadership dei tigrini furono vissuti dagli altri come un sopruso con continue accuse di discriminazioni a danno di tutte le altre popolazioni che abitano l’Etiopia.
La guerra in Tigray si è svolta nel più totale isolamento poiché Addis Abeba ha impedito alle organizzazioni umanitarie e alla stampa d’aver accesso alla regione durante l’infuriare dei combattimenti, cui hanno partecipato anche soldati eritrei, responsabili di numerosi massacri di massa.
Centinaia di migliaia di persone, poi, sono fuggite nel vicino sudan per sfuggire agli orrori del conflitto.
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ALTRI FOCOLAI.
Nel continente si segnalano altre situazioni di tensione che potremmo definire “minori” o “latenti”, perché, pur in atto, attraversano una fase armistiziale.
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A. IL SAHARA OCCIDENTALE.
Nel territorio, già possedimento spagnolo fino al 1975 e successivamente passato sotto il controllo del Marocco, opera da decenni il Frente Polisario che ha proclamato la Repubblica del Sahara riconosciuta da diversi Paesi, ma non da tutta la comunità internazionale.
Il Polisario rivendica l’indipendenza del sahara occidentale, ma il Marocco rifiuta di concederla considerando l’area facente parte integrante del Regno: per questo nel 1975, quando la Spagna si ritirò dal paese, Rabat organizzò la “marcia verde”, una grande manifestazione popolare volta a riconquistare ciò che Hassan II e il suo successore han sempre considerato di proprietà marocchina.
Quando l’Organizzazione per l’Unità Africana, (OUA), oggi Unione Africana, riconobbe lo Stato dei Saharawi, Rabat congelò i suoi rapporti con l’organizzazione che raggruppa tutti gli Stati del continente.
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B. L’AMBANZONIA.
Nelle province anglofone del Camerun si è sviluppato nel 2016 un movimento di protesta contro il governo di Yaoundé. Le zone interessate dal conflitto sono il Nord-ovest e il Sud-ovest che appartenevano al Camerun britannico e furono unite al resto del Paese nel 1961.
Gli anglofoni accusano il governo centrale di gravi discriminazioni e di mancato rispetto della propria autonomia giuridica ed istituzionale.
La protesta, all’inizio pacifica, è poi degenerata in violenza, a causa della politica della “terra bruciata” praticata dall’esercito inviato nella zona per schiacciare la rivolta.
Oltre 400.000 profughi sono emigrati nella vicina Nigeria per sfuggire alle brutalità.
Nel 2020 son stati avviati colloqui per comporre il conflitto, ma per ora non si è giunti ad una soluzione soddisfacente per nessuna delle parti in causa.
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C. SUDAN DEL SUD.
Nel 2013, a soli due anni dalla proclamazione dell’indipendenza è scoppiata nel Paese una guerra civile che ha provocato vittime e profughi. Il tutto è partito da un dissidio tra il Presidente Salva Kiir e il vice Presidente Riek Machar. Il primo è esponente dei Dinka, il secondo dei Nuar.
Machar accusava Kiir di favorire la sua etnìa d’origine a scapito dei Nuar.
Sono stati firmati diversi cessate il fuoco, sempre violati ed annunciati accordi per una cogestione del potere, ma finora la guerra non può dirsi risolta.
Sul piatto c’è il controllo delle ingenti risorse petrolifere presenti nel territorio.
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D. L’ESERCITO DI RESISTENZA DEL SIGNORE (LRA).
Dagli anni ottanta agisce in Uganda, soprattutto nel Nord del paese, l’Esercito di Resistenza del signore (Lord’s Resistance Army). All’inizio il suo leader era una donna, Alice Lakuena, che sosteneva che i suoi guerriglieri erano invulnerabili ed avevano avuto da Dio l’ordine di stabilire in Uganda un regno dove sarebbero state applicate le leggi bibliche.
Successivamente la guida del LRA è stata assunta da Joseph Kony, un uomo che si è reso responsabile d’orribili massacri.
Contro di lui la Corte penale internazionale istituita per giudicare i crimini di guerra, ha spiccato un mandato di cattura.
al momento, nessuno sa se Kony, un tipico esempio di signore della guerra, sia ancora in vita o già deceduto: di fatto la guerriglia del LRA è tuttora attiva e questo è motivo sufficiente per giustificare la politica autoritaria del Presidente Yoweri Museveni.
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E. GUERRA PER L’ACQUA.
Molti esperti ritengono che in futuro una delle cause di conflitto sarà il controllo dell’acqua dolce, fonte essenziale per la sopravvivenza del genere umano.
Uno degli esempi di ciò che potrebbe accadere in futuro è lo scontro in atto tra Etiopia, Sudan ed Egitto: sul tavolo c’è il controllo dell’acqua del Nilo Azzurro che soprattutto verso la fine di maggio diviene molto ricco a causa delle piogge che investono tutta l’Africa orientale.
L’etiopia ha fatto costruire una serie di dighe per divenire un paese esportatore d’elettricità: la più grande di queste è la GERB.
Egitto e Sudan temono però che il riempimento degli invasi della GERB provochi una drastica riduzione dell’afflusso d’acqua ai loro territori pregiudicando i raccolti di cereali e foraggi.
Da mesi son in corso negoziati tra i tre paesi per risolvere la vertenza: l’Egitto ha minacciato di far ricorso alla forza se Addis Abeba agirà unilateralmente.
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LE PROTESTE.
Accanto a tutto questo ci sono le proteste che periodicamente scoppiano in diversi Paesi contro la corruzione, il malgoverno, il dispotismo… è ad esempio questo il caso dell’Algeria dove da due anni i giovani delle città scendono settimanalmente in piazza per denunciare le malefatte del regime.
anche altrove si esprime il malcontento popolare che in questo anno di pandemia si è accentuato in diverse nazioni: i regimi, anche quelli più spiccatamente democratici, in vero abbastanza rari in Africa, han utilizzato la diffusione del Coronavirus per limitare fortemente le libertà ed imbavagliare le voci critiche.
Potrebbe l’epidemia essere l’origine di nuove guerre e nuovi rivolgimenti?
PIER LUIGI GIACOMONI
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NOTE:
[1] Charles McArthur Ghankay Taylor, 22o Presidente della Liberia, in carica dal 2 Agosto 1997 all’11 Agosto 2003.
Nato nel 1948, fa parte del governo di Samuel Kanyon Doe, presidente dal 1980 al ’90: rimosso dall’incarico perché accusato d’appropriazione indebita, si reca in Libia, dov’è addestrato alle tecniche di guerriglia.
Rientrato in patria nel 1989, assume la guida del National Patriotic Front of Liberia (NPFL), movimento di guerriglieri che si batte contro il regime dittatoriale di S. K. doe.
Dopo la tragica morte di questi, Taylor diventa padrone della Liberia, estendendo i propri interessi alla sierra leone, dove infuria la ribellione del RUF.
Nel ’97 Taylor è eletto Presidente della Repubblica: la campagna elettorale al termine della quale risulta eletto è una delle più sanguinose della storia dal momento che le bande tayloriste terrorizzano la popolazione con massacri e violenze d’ogni genere per indurre gli elettori a sostenere il loro capo.
Costretto alle dimissioni dalla presidenza nel 2003, nel 2006 è arrestato e si trova in detenzione nei Paesi Bassi a disposizione della Corte penale internazionale, creata per giudicare coloro che hanno compiuto gravi crimini contro l’umanità.
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[2] Jonas Malheiro Savimbi, soprannominato O mais velho (Munhango, 3 agosto 1934 – Lucusse, 22 febbraio 2002), è stato un uomo politico ed un leader guerrigliero angolano.
Nel ’61, mentre l’Angola è ancora una colonia portoghese, aderisce all’UPA, movimento guerrigliero guidato da Holden Roberto, che successivamente darà vita al FNLA.
Savimbi fa parte del governo angolano in esilio, ma poi lo lascia e nel ’66 fonda l’UNITA: dopo l’indipendenza, conseguita dall’Angola nel ’75, s’allea col FNLA contro il MPLA (Movimento Popular de Libertação de Angola), rompendo gli accordi con cui i tre movimenti che avevano combattuto la dominazione portoghese, avevano deciso di cooperare insieme in un governo d’unità nazionale.
Sconfitto il FNLA, l’UNITA rimane l’unica milizia ad opporsi al regime del MPLA: Savimbi conduce ancora per decenni un’incessante guerriglia finanziandola col traffico di diamanti e ricevendo l’appoggio di Stati Uniti, Sud Africa, Cina, mentre a fianco del governo di Luanda scendono in campo l’URSS e Cuba.
Il leader guerrigliero Firma più volte accordi, partecipa anche alle elezioni presidenziali in Angola, ma dopo esser stato sconfitto,riprende le armi: muore in combattimento nel 2002.
Contro di lui son state mosse accuse d’aver perpetrato gravi crimini contro l’umanità.
LE GUERRE D’AFRICA