ITALO SVEVO
(4 Dicembre 2016)
BOLOGNA. Pubblico il testo della relazione su Italo Svevo che ho illustrato ieri pomeriggio nell’ambito del ciclo
“La toponomastica, la scrittura, la lettura: le strade del Pilastro e gli scrittori alle quali sono intitolate”
…laddove urbanistica e letteratura si incontrano
Si trattava dell’ultimo incontro.
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ITALO SVEVO
«Nato nel 1861 a Trieste. Mio nonno era un impiegato tedesco dello Stato a Treviso; mia nonna e mia madre italiane.
A dodici anni fui inviato in Germania in una scuola commerciale dove studiai meno anche di quanto m’era offerto.
Tuttavia m’appassionai in quegli anni alla letteratura tedesca. A 17 entrai nella Scuola Commerciale Superiore
“Revoltella” di Trieste ove ritrovai la mia italianità. A 19 in una Banca, e in Una vita la parte dedicata alla
Banca e alla Biblioteca Civica è veramente autobiografica. A 36 ebbi la fortuna di entrare in un’impresa
industriale della quale faccio parte tuttora. Fino allo scoppio della guerra lavorai molto, precipuamente dirigendo
degli operai a Trieste, Murano (Venezia) e Londra. A 30 anni pubblicai Una vita e a 37 Senilità. Poi risolsi di
rinunziare alla letteratura ch’evidentemente attenuava la mia capacità commerciale e le poche ore libere dedicai al
violino, pur d’impedirmi il sogno letterario. La guerra mi tolse dagli affari e probabilmente fu causa il lungo
riposo che, nel 1919, mi misi a scrivere La coscienza di Zeno, che pubblicai nel 1923. Ecco tutto. Una vita che non
pare bella ma che fu adornata da tanti fortunati affetti che accetterei di riviverla».
È questa la prima autobiografia «ufficiale» di Svevo, l’immagine pubblica nella quale lo scrittore vuole
compostamente «cristallizzarsi».
Una seconda biografia sveviana, più frastagliata e problematica, può essere ricostruita, sulla base dei non molti
documenti giunti in nostro possesso. Da essa emergono:
• la formazione non umanistica di Svevo che riceve un’impostazione commerciale, ma si riserva ampi spazi per
letture guidate da gusti personali, subito urgenti e precisi;
• coltiva interessi letterari, ma si concede frequenti escursioni in terreno scientifico; è anzi persuaso che le
«teorie» scientifiche – che lo scrittore non perfettamente comprende, ma che gli danno emozioni nuove e gli aprono
misteriose prospettive di conoscenza – siano un indispensabile strumento di rinnovamento interiore: «un nuovo
fondamento di scetticismo, una parte misteriosa del mondo, senza della quale non si sa più pensare».
• inoltre si fa chiaro come questo scrittore in lingua italiana (lingua faticosamente appresa dai libri), che
conservò – unico della sua famiglia – la nazionalità austriaca fino al 1918, che fu sempre, anche se non
palesemente, solidale col suo gruppo ebraico d’origine, che ebbe accesso immediato alle opere più importanti della
cultura italiana, tedesca, francese, inglese nella versione originale, fu innanzi tutto un intellettuale europeo.
Nessun «miracolo» nella sua vita. La lettura di Freud e la conversazione con Joyce sono rese possibili da
verificabili premesse culturali. I «venticinque anni di silenzio», tra i primi romanzi e il terzo, sono
un’invenzione. Svevo semplicemente non pubblica e si dedica alla sua attività di industriale con ottimi risultati:
ma le novelle, i testi teatrali, gli appunti e le lettere dimostrano come l’abbandono della letteratura non sia «un
proposito ferreo».
Ed ecco i fatti: Aron Hector Schmitz nasce a Trieste il 19 dicembre 1861. (Trieste è alla fine del secolo una
fiorente borghese città dell’impero asburgico, il terzo porto del Mediterraneo e il primo dell’Impero.) Il padre
Franz – figlio di un «funzionario imperiale» austriaco di origine ebraica, è commerciante di vetrami. La madre,
Allegra Moravia, appartiene a una famiglia ebraica del Friuli, di lontana origine marchigiana. Ettore (con questo
nome il futuro scrittore è sempre chiamato in famiglia) è il sesto di otto figli. Frequenta, come i fratelli, la
scuola elementare israelita del rabbino Melli; passa nel 1872 alla scuola commerciale di Emanuele Edeles. Dal 1874
al 1877 è convittore A Segnitz presso Würzburg, insieme ai fratelli Adolfo ed Elio, per impararvi il tedesco e
completare la sua formazione commerciale. Si dedica intensamente alla lettura di autori tedeschi: Friedrich Richter
(Jean Paul), Schiller, Heine, Goethe. Legge Shakespeare e Turgenev in versione tedesca. Elabora anche una piccola
tesi filosofica in lingua tedesca.
Rientrato nel 1878 a Trieste, si iscrive all’Istituto Superiore Commerciale «Revoltella». Rinunzia al sogno di un
soggiorno a Firenze per impararvi la lingua italiana (in casa Schmitz si parla il dialetto triestino). Comincia a
scrivere testi teatrali.
Nel 1883 si profila il fallimento dell’impresa commerciale avviata dal padre nel 1861 (il fallimento definitivo è
del 1884). Ettore Schmitz cerca un impiego. La ditta dei fratelli Mettel lo respinge, perché israelita. È assunto
come corrispondente tedesco e francese presso la filiale triestina della Banca Union di Vienna. Sempre appassionato
di lettura, frequenta la Biblioteca Civica. Legge i classici italiani (Boccaccio, Machiavelli, Guicciardini, De
Sanctis) e i naturalisti francesi (Flaubert, Daudet, Zola, Balzac). Conosce anche Stendhal, Renan. Tra i filosofi,
ha una predilezione per Schopenhauer.
Tra il 1880 e il 1890 inizia a scrivere novelle, studia violino e frequenta il Circolo musicale. Dal 1880 al 1890
collabora all’«Indipendente» con articoli letterari e teatrali. Segue l’intensa vita teatrale di Trieste (da
Alfieri a Giacosa, Sardou, Balzac, fino a Strindberg e Ibsen) e assiste alla rappresentazione in lingua originale
della Tetralogia di Wagner.
Nel 1886 si spegne prematuramente il fratello Elio, suo confidente e suo primo critico, autore di un Diario
prezioso per la ricostruzione della formazione sveviana. Conosce lo stesso anno il pittore Umberto Veruda,
proveniente dall’accademia di Monaco, impressionista secondo la scuola di Max Liebermann. Brillante, estroverso,
socialisteggiante, Umberto Veruda esercita un grande ascendente su Svevo e sarà il modello per il personaggio di
Stefano Balli in Senilità. È di questi anni anche una tempestosa passione per una ragazza del popolo, Giuseppina
Zergol, dalla quale nascerà il personaggio di Angiolina.
Nel 1890, sotto lo pseudonimo di «E. Samigli», Svevo pubblica sull’«Indipendente» una lunga novella, L’assassinio
di via Belpoggio: in essa cominciano a comparire i caratteri fondamentali della poetica sveviana
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L’ASSASSINIO DI VIA BELPOGGIO (1890)
In questa novella, simile ad un analogo racconto di Edgar A. Poe, si narra la storia di Giorgio, un facchino che
uccide con una coltellata al cuore e poi deruba di 30.000 fiorini Antonio, un occasionale compagno di sbornie.
All’inizio la fa franca, ma in seguito la stretta del rimorso, l’incertezza e l’incapacità di assumere cinicamente
il ruolo dell’innocente gli fanno commettere una tale quantità d’errori da insospettire chi gli vive accanto, il
collega di lavoro Giovanni.
a conclusione del brano sarà proprio quest’insieme di fattori a farlo arrestare e confessare il delitto.
Il brano si ispira chiaramente alle opere di scrittori come Emile Zola, che Svevo leggeva avidamente, ma l’aria che
vi circola dentro è già diversa, già inclinata sul versante dell’analisi e dell’introspezione psicologica.
L’analisi sveviana è appena agli albori: già, però, si avvertono senza equivoci i nuclei delle tematiche care al
triestino in certi momenti di riflessione e di scavo interiore.
Giorgio è un inetto che mette in moto una macchina drammatica che alla lunga non riesce a governare perché non ha
la freddezza d’un vero assassino professionista.
Nella sua mente s’innesca un crescente rimorso che alla fine lo travolge.
A titolo d’esempio, leggiamo proprio la parte conclusiva della novella.
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LETTURA N. 1 DA L’ASSASSINIO DI VIA BELPOGGIO (1890)
LA CONFESSIONE
Giovanni entrando alle sette di sera lo guardò con cipiglio comicamente serio: – Sai che si sospetta che tu
sii l’assassino di Antonio Vacci? – gli disse a bruciapelo.
Giorgio era nell’oscurità, sul suo giaciglio. Egli sentì che se non fosse stato così, l’altro, alla sola
vista della sua fisonomia, che doveva essersi alterata orribilmente, avrebbe compreso che quel sospetto di cui
parlava scherzosamente era ben fondato. Ove erano iti i suoi propositi di freddezza e di disinvoltura? – Chi? –
balbettò. Non si poteva movere una domanda più sciocca ma l’aveva preferita a tutte le altre perché la più breve
che gli fosse venuta in mente.
Giovanni rispose che tutti i loro amici ne parlavano. A quanto raccontava il Piccolo Corriere della Sera una
donna aveva veduto fuggire l’assassino dal luogo del delitto, anzi quasi ne era stata gettata a terra, e aveva
saputo dare sul suo aspetto dei particolari abbastanza precisi: Intanto dei capelli ricci neri, abbondantissimi, e
un cappello a cencio.
In quelle ore in cui s’era cullato nel sogno di fingere al suo delitto uno scopo nobile e guadagnarsi nel caso in
cui fosse stato preso la commiserazione dei suoi simili, egli non aveva pensato al difficile compito di sfuggire
alla pena. Perduta questa speranza la paura lo aveva guadagnato di nuovo del tutto ed egli fuggiva anche adesso che
ritornando in città si avvicinava maggiormente al pericolo.
[…]
In piazza della Barriera per la quale dovette ripassare vide Giovanni con altri tre operai. Si avvicinò loro
esitante, sapendo allora per esperienza che ogni sua parola ogni suo gesto sarebbe stato tanto strano da destare
sospetto.
L’accolsero con saluto glaciale e lo guardarono con diffidenza. Non era un inganno della sua paura; così non
lo avevano trattato mai. Lo guardavano con curiosità e nessuno gli rivolse la parola.
A mezzo ubbriaco dal terrore egli ebbe un ultimo tentativo di disinvoltura:
– Si va all’osteria? Pagherò io per questa sera.
Giovanni gli disse: – Essi sospettano che tu sii l’assassino di via Belpoggio e finché non ti sei nettato di
questo sospetto non vogliono venire con te! – Egli comprese che se fosse stato innocente avrebbe dovuto atterrare
chi per primo elevava un simile sospetto. Ma che cosa poteva fare con quel tremito che gl’invadeva le membra e
gl’impediva persino la parola?
I quattro operai si allontanarono inorriditi da lui. Il loro sospetto era divenuto certezza.
Barcollando egli si allontanò.
Aveva fatto pochi passi quando si sentì preso con violenza per ambedue le braccia e udì qualcuno che
vicinissimo al suo orecchio gridò: “In nome della legge”.
Ebbe una violenta allucinazione mentre gli rimaneva abbastanza di coscienza per capire che non era altro che
un’allucinazione. Intese un enorme fragore, il rumore di cose che crollavano, le imprecazioni di una folla armata e
vide dinanzi a sé Antonio che rideva sgangheratamente, le mani nelle tasche, nelle quali certo aveva riposto il suo
tesoro riconquistato. Poi più nulla.
Si ritrovò adagiato sul suo giaciglio. Nella stanza v’era una sola guardia.
Due uomini vestiti in borghese, di cui uno, piccolo e tarchiato, con un volto grasso e dolce sembrava il
superiore, contavano i denari che già avevano trovati sotto il giaciglio di Giovanni.
Costui li aveva aiutati e stava in posizione rispettosa in un canto della stanza. Alla porta vi era un’altra
guardia, che tratteneva la folla che si spingeva innanzi.
– Assassino! – gli gridò una vecchia alla quale era riuscito di giungere fino sul limitare della porta, e
sputò.
Era perduto! Non poteva negare, ma quello ch’era peggio non avrebbe mai trovato le parole per descrivere le
torture da lui sofferte e che avrebbero attenuato la sua colpa. Per tutti costoro egli era una macchina malvagia di
cui ogni movimento era una mala azione o il desiderio di farla, mentre egli sentiva di essere un miserabile
giocattolo abbandonato in mano capricciosa.
Con voce dolcissima l’uomo dal volto dolce gli chiese se stesse meglio, poi il nome. In quella faccia non vi
era segno di odio o di disprezzo e Giorgio dicendo il proprio nome lo guardò fisso per non vedere la folla alla
porta.
Poi la medesima persona comandò alla guardia di far entrare per il confronto quella donna e il cappellaio.
– No! – pregò Giorgio, e abbondanti lagrime gl’irrigarono il volto. – Ella mi sembra buono e non mi torturerà
inutilmente; le dirò tutto, tutta la verità.
Poi indugiò alquanto quasi per attendere una ispirazione che lo portasse a tacere, a salvarsi, ma bastò un
piccolo movimento d’impazienza del suo interlocutore per far cessare ogni esitazione. – Sono io l’assassino di
Antonio – disse con voce semispenta.
***
«Una vita»
Nel 1888 inizia a scrivere un romanzo che dovrebbe intitolarsi Un inetto.
Rifiutato da Treves, il libro esce presso Vram col titolo Una vita, nel 1892 (con data 1893). L’autore sceglie per
la prima volta lo pseudonimo di Italo Svevo. Scarsissimo l’interesse della critica.
In quest’opera viene ritratta la figura di un altro inetto: Alfonso Nitti, un provinciale inurbato che non sa
adattarsi alla situazione in cui si trova.
Ama, non riamato, Annetta la figlia del suo datore di lavoro, il dottor Maller, vorrebbe scrivere con lei un
romanzo, ma lei, ben più disinvolta di lui,preferisce fidanzarsi con un altro.
Alfonso non lo sa, ma Maller è a conoscenza dei tentativi del Nitti di mettersi insieme alla figlia e appena può lo
degrada nella gerarchia bancaria.
Il fratello di Annetta,nelle fasi conclusive dell’opera, gli ingiunge di non farsi più vedere e la ragazza,
incontrandolo per strada, lo ignora, come se non l’avesse mai conosciuto.
Alfonso è geloso, insoddisfatto, vorrebbe reagire, ma finisce per entrare in una depressione senza via d’uscita.
Alla fine decide di togliersi la vita, convinto che un giorno Annetta lo amerà proprio perché ha saputo compiere
questo supremo gesto.
Per la banca Maller, però, la sua morte, apparentemente inspiegabile, non è altro che una pratica burocratica come
un’altra.
***
«Senilità»
Ultimato nel 1897, il secondo romanzo, Senilità – Svevo aveva progettato in un primo momento, come comunica in una
lettera alla moglie Livia Veneziani del 14 maggio 1897, d’intitolarlo Il carnevale di Emilio – è pubblicato a
puntate sull’«Indipendente» tra il giugno e il settembre 1898. Il volume esce presso Vram nello stesso anno.
L’interesse della critica è anche inferiore di quello che aveva accolto il primo romanzo.
Nell’opera, quasi un romanzo da camera, si muovono quattro personaggi: due deboli e due forti.
I deboli sono i fratelli Brentani: Emilio e Amalia, che morrà di consunzione verso la conclusione dell’opera; i
forti sono Stefano Balli ed Angiolina.
In un certo senso queste due coppie sono speculari l’una all’altra.
Emilio, colto, borghese, vorrebbe instaurare una relazione d’amore con angiolina, ragazza del popolo, molto più
disinvolta di lui.
Fin dall’inizio le dichiara d’amarla, ma di voler instaurare una relazione debole, non impegnativa, perché per lui,
lei è semplicemente un «giocattolo».
In realtà, Emilio rimane vittima del meccanismo da lui stesso messo in moto,perché presto scopre che lei non ha
problemi a darsi ad altri, soprattutto se da questo ne potrà ricavare una promozione sociale.
Emilio ingelosisce sempre più, finché scopre che angiolina e lo scultore Stefano Balli, uno che dice di sé che
l’unico insuccesso avuto nella vita è quello artistico, ma che con le donne ci va forte, sono andati a letto
insieme.
Del resto era stato lo stesso Emilio a fornire la materia all’amico: Angiolina infatti viene convinta a far da
modella per la realizzazione d’una scultura.
Alla fine, dopo la morte di Amalia, emilio cade in una depressione che lo porta a perder interesse per la vita e lo
conduce ad un progressivo ed ineluttabile isolamento.
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l’amicizia con James Joyce e laconoscenza delle opere di Freud.
Nel periodo che va dal 1898 al 1923, Svevo non pubblica nulla,disgustato per il mancato successo dei suoi due primi
romanzi.
Nel privato di casa sua continua a scrivere articoli per quotidiani, novelle, racconti e opere teatrali che
verranno scoperte solo più tardi.
Nel 1905 incontra James Joyce che si trova a Trieste. I due stringono una profonda amicizia: Svevo impara l’inglese
e Joyce, che è in grado d’esprimersi in 18 lingue, legge gli scritti dell’amico.
Una vita non gli piace molto,ma rimane colpito da Senilità.
Tra il 1908 e il 1910 Svevo conosce l’opera di Freud e rimane colpito dalle teorie psicanalitiche del viennese,ciò
prepara il terreno per il vero e proprio capolavoro del triestino:la Coscienza di Zeno.
Tra l’altro traduce dal tedesco in collaborazione con un parente l’opera di Freud sull’interpretazione dei sogni.
Nel 1919 traccia «all’improvviso» il disegno della Coscienza di Zeno (alla quale lavora per tre anni).
«La coscienza di Zeno»
La coscienza di Zeno (1923), della quale si deve parlare ormai come di una pietra miliare della nostra cultura, è
un romanzo in prima persona, che elimina la necessità degli interventi correttivi di un’intrusa voce narrante ed è
scopertamente la storia di una malattia: il protagonista Zeno afferma di stendere le sue memorie per prepararsi ad
una terapia psicanalitica (e anche per dimostrare, alla fine, l’inutilità di qualsiasi «cura»).
La trovata di base più originale è la messa in scena della coscienza: cioè l’idea di farsi un’autoanalisi per
ricostruire, attraverso la propria autobiografia, che proprio la coscienza è uno strumento che possiamo manipolare
come vogliamo a nostro uso e consumo.
In un certo senso, Svevo si avvicina alle posizioni di Pirandello che sostiene che non vi è una realtà oggettiva,
ma la realtà è ciò che noi vediamo, sono i fatti come li interpretiamo e li rielaboriamo.
Alla fine siamo sempre noi che decidiamo se assolverci o condannarci.
A titolo d’esempio leggiamo l’episodio legato al rapporto tra Zeno cosini, il protagonista-narratore, e la
sigaretta.
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LETTURA N. 2 DA “LA COSCIENZA DI ZENO” (1923)
ZENO COSINI ED IL FUMO.
Le prime sigarette ch’io fumai non esistono più in commercio. Intorno al ’70 se ne avevano in Austria di quelle che
venivano vendute in scatoline di cartone munite del marchio dell’aquila bicipite. Ecco: attorno a una di quelle
scatole s’aggruppano subito varie persone con qualche loro tratto, sufficiente per suggerirmene il nome, non
bastevole però a commovermi per l’impensato incontro.
Una delle figure, dalla voce un po’ roca, era Giuseppe, un giovinetto della stessa mia età, e l’altra, mio
fratello, di un anno di me più giovine e morto tanti anni or sono . Pare che Giuseppe ricevesse molto denaro dal
padre suo e ci regalasse di quelle sigarette. Ma sono certo che ne offriva di più a mio fratello che a me. Donde la
necessità in cui mi trovai di procurarmene da me delle altre. Così avvenne che rubai. D’estate mio padre
abbandonava su una sedia nel tinello il suo panciotto nel cui taschino si trovavano sempre degli spiccioli: mi
procuravo i dieci soldi occorrenti per acquistare la graziosa scatoletta e fumavo una dopo l’altra le dieci
sigarette che conteneva, per non conservare a lungo il compromettente frutto del furto.
Ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano. Io, con una sfacciataggine che ora non avrei
e che ancora adesso mi disgusta gli dissi che m’era venuta la curiosità di contarne i bottoni. Mio padre rise delle
mie disposizioni alla matematica o alla sartoria e non s’avvide che avevo le dita nel taschino del suo panciotto.
Mio padre lasciava per la casa dei sigari virginia fumati a mezzo, in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse
il suo modo di gettarli via e credevo anche di sapere che la nostra vecchia fantesca, Catina, li buttasse via.
Andavo a fumarli di nascosto. Già all’atto di impadronirmene venivo pervaso da un brivido di ribrezzo sapendo quale
malessere m’avrebbero procurato. Poi li fumavo finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori freddi e il mio
stomaco si contorcesse. Non si dirà che nella mia infanzia io mancassi di energia.
So perfettamente come mio padre mi guarì anche di quest’abitudine.
Un giorno d’estate ero ritornato a casa da un’escursione scolastica, stanco e bagnato di sudore. Mia madre m’aveva
aiutato a spogliarmi e, avvoltomi in un accappatoio, m’aveva messo a dormire su un sofà sul quale essa stessa
sedette occupata a certo lavoro di cucito. Ero prossimo al sonno, ma avevo gli occhi tuttavia pieni di sole e
tardavo a perdere i sensi.
Egli [il padre] era entrato e non m’aveva subito visto perché ad alta voce chiamò:
– Maria!
La mamma con un gesto accompagnato da un lieve suono labbiale accennò a me, ch’essa credeva immerso nel sonno su
cui invece nuotavo in piena coscienza. Mi piaceva tanto che il babbo dovesse imporsi un riguardo per me, che non mi
mossi.
Mio padre con voce bassa si lamentò:
– Io credo di diventar matto. Sono quasi sicuro di aver lasciato mezz’ora fa su quell’armadio un mezzo sigaro ed
ora non lo trovo più. Sto peggio del solito. Le cose mi sfuggono.
Pure a bassa voce, ma che tradiva un’ilarità trattenuta solo dalla paura di destarmi, mia madre rispose:
– Eppure nessuno dopo il pranzo è stato in quella stanza.
Mio padre mormorò:
– E’ perché lo so anch’io, che mi pare di diventar matto!
Si volse ed uscì.
Io apersi a mezzo gli occhi e guardai mia madre. Essa s’era rimessa al suo lavoro, ma continuava a sorridere. Certo
non pensava che mio padre stesse per ammattire per sorridere così delle sue paure. Quel sorriso mi rimase tanto
impresso che lo ricordai subito ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia moglie.
Non fu poi la mancanza di denaro che mi rendesse difficile di soddisfare il mio vizio, ma le proibizioni valsero ad
eccitarlo.
Ricordo d’aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito da un forte disgusto fisico,
ricordo un soggiorno prolungato per una mezz’ora in una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui non
ritrovo nella memoria altro che la puerilità del vestito: due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro
c’è stato un corpo che il tempo eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo vedere chi ne sapesse bruciare di più
nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente celai il malessere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al
sole e all’aria. Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito. Mi rimisi e mi vantai della vittoria. Uno dei
due piccoli omini mi disse allora:
– A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m’occorre.
Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch’essa che a me doveva essere rivolta in quel momento.
Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva.
Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi a vent’anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di
un violento male di gola accompagnato da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l’assoluta astensione dal fumo.
Ricordo questa parola “assoluta”! Mi ferì e la febbre la colorì: un vuoto grande e niente per resistere all’enorme
pressione che subito si produce intorno ad un vuoto.
Quando il dottore mi lasciò, mio padre con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi
compagnia. Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante, mi disse:
– Non fumare, veh!
Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: «Giacché mi fa male non fumerò mai più, ma prima voglio farlo per l’ultima
volta». Accesi una sigaretta e mi sentii subito libero dall’inquietudine ad onta che la tosse forse aumentasse e
che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone ardente. Finii
tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte
altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:
– Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!
Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia
sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima.
Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono
coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono
ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia. Meno violento è il
proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di
ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette… che non sono le ultime.
Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato:
«Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!».
Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. M’ero arrabbiato col
diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta
in un matraccio. Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno
pensiero sobrio e sodo.
Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge. Pur troppo! Fu un
errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu
importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori
propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la
mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco?
Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter
riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e
forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di
credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza
una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta
a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi?
***
Il testo fece fatica a circolare, soprattutto in Italia, ma attraverso l’opera di James Joyce che lo lesse e se ne
entusiasmò fu dapprima tradotto in francese e poi si diffuse da noi, per opera di Eugenio Montale.
Dal 1925 Italo Svevo divenne una specie di caso letterario: le sue opere vennero riscoperte, ristampate tradotte.
Lui stesso viene invitato a Parigi ed a Londra a tenere conferenze.
Purtroppo, però, proprio nel momento del massimo successo,la malasorte lo colpisce: nel settembre 1928 ha un
incidente stradale.
In un primo momento appaiono più gravi la moglie, Livia Veneziani ed un figlio che vengono soccorsi, mentre lui
riceve aiuto dopo troppo tempo.
si spegne per le ferite riportate il 13 settembre 1928 a Motta di Livenza.
Dopo la sua morte le sue opere riscuoteranno un notevole successo e saranno studiate da molti critici sia in Italia
che all’estero e ciò ne ha fatto uno dei più importanti narratori del nostro Novecento letterario.
PIER LUIGI GIACOMONI