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IL SINDACO D’ITALIA
(21 Febbraio 2020)

ROMA. Quando la politica italiana dimostra tutta la sua incapacità d’assicurare la governabilità al Paese ecco qualcuno che tira fuori dal cilindro una proposta che pare nuova, ma che in realtà è vecchia come il cucco: l’elezione diretta del Sindaco d’Italia.

L’ultimo a lanciare questa proposta è stato pochi giorni fa Matteo Renzi: in un’intervista televisiva ha suggerito di creare un governo istituzionale che abbia una sua maggioranza di riferimento, ma che allo stesso tempo consenta alle forze politiche, di maggioranza e minoranza, di rivedere la costituzione del 1948 in modo da arrivare all’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Inutile dire che la proposta non ha raccolto nessun consenso dalle forze parlamentari, anche se a livello popolare tutti i sondaggi indicano che la maggioranza degl’Italiani è favorevole all’elezione diretta o del Capo dello Stato o di quello del governo per far uscire l’Italia dalla situazione d’ingovernabilità in cui il Paese si trova da decenni.

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FRAGILITA’ DEI GOVERNI.

Già, perché quello della governabilità, o più esattamente della stabilità dei Governi, è il punto veramente debole della Costituzione del 1948: i padri costituenti, usciti dall’esperienza del dispotismo fascista (Mussolini con le leggi del 1925 disponeva del controllo assoluto del governo e del Parlamento, nominava e revocava i ministri e poteva esser deposto solo dal Re), crearono un sistema nel quale il Presidente del consiglio dei Ministri (un primus inter pares), nominato dal Presidente della Repubblica, poteva proporre i Ministri al Capo dello Stato, doveva sottostare al voto di fiducia d’entrambe le Camere e non aveva la facoltà di rimuovere né un ministro sgradito né un sottosegretario. Una situazione che in Europa non ha paragoni.

Quanto alla potestà di sciogliere le camere, in presenza di dissidi irrisolvibili all’interno della coalizione di governo, solo il Capo dello Stato poteva congedare le assemblee, mentre al Presidente del consiglio era conferita l’unica possibilità di rassegnare le dimissioni e rimettersi alla volontà del Quirinale e dei partiti.

Di qui il succedersi di oltre 70 Governi ed una trentina di Presidenti del Consiglio, mentre a livello locale, con le leggi del 1993 e del ’95, sindaci e presidenti di regione potevano nominare e revocare assessori (in alcuni casi le giunte sono state sciolte completamente e rifatte da capo), oppure, dimettendosi in anticipo, hanno provocato lo scioglimento anticipato dei rispettivi consigli.

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LA STORIA DEL SINDACO D’ITALIA.

Il primo a cimentarsi su questa questione fu Bettino Craxi nel 1979. Come reazione al parlamentarismo esangue di quegli anni, il leader socialista lanciò una Grande riforma che puntava a coniugare riformismo e governabilità. Per il segretario del PSI, che tra il 1983 e l’87 guidò due governi di Pentapartito, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica rappresentava il valore aggiunto della modernizzazione e creava una discontinuità rispetto al passato. Il PCI, all’opposizione e la DC al governo reagirono male: ne seguì una stagione di risse feroci, in cui Craxi veniva dipinto con gli stivali del Duce. Dopodiché, eliminato l’uomo di Hammamet dalla scena politica,, fu proprio la sinistra a raccoglierne il testimone, con la differenza che non si parlò più d’eleggere con voto popolare il Capo dello Stato, ma di sottomettere al vaglio degli elettori gli aspiranti alla Presidenza dell’esecutivo.

Con le elezioni politiche degli anni Novanta e Duemila, non essendo stata modificata la Costituzione, le due coalizioni in campo, centro-destra e centro-sinistra (i nomi utilizzati di volta in volta furono diversi) designarono prima del voto il loro candidato Premier.

All’indomani delle elezioni i Presidenti della Repubblica si limitarono sostanzialmente a prender atto dell’accaduto e chiamarono a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi (centro-destra) o romano Prodi (centro-sinistra).

Quando però all’interno della coalizione vincente si aprivano delle crisi e si doveva nominare un Premier, ecco riemergere dal nulla le prerogative del Capo dello Stato: per questo furono nominati Lamberto dini (1995-1996) Massimo d’Alema (1999-2000), Giuliano Amato (2000-2001) e poi Mario Monti (2011-2013).

Nel 1996 il Presidente Scalfaro affidò ad antonio Maccanico l’incarico di formare un esecutivo che potesse ottenere l’appoggio di tutte le principali forze parlamentari per fare le riforme istituzionali di cui il Paese necessitava. dopo due settimane di fitti conciliaboli, Maccanico rinunciò e furono indette le elezioni legislative del 21 aprile di quell’anno.

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RIFORME FALLITE.

La storia della Repubblica italiana è piena di riforme istituzionali fallite, di commissioni parlamentari che produssero montagne di documenti che però non portarono a nulla di concreto.

Dopo le commissioni Bozzi e Iotti, nel 1997 venne costituita la bicamerale: una commissione presieduta da Massimo d’Alema che avrebbe dovuto riscrivere la seconda parte della Costituzione.

I lavori della bicamerale andarono avanti per oltre un anno: la commissione propose il «premierato forte», ma l’approvazione di un emendamento proposto dal deputato di Alleanza Nazionale Giuseppe Tatarella che introduceva l’elezione popolare del Capo dello Stato, fece saltare gli equilibri faticosamente raggiunti.

Contribuirono alla disfatta dalemiana un paio di franchi tiratori della sinistra: a questo punto saremmo già in una repubblica presidenziale o parzialmente presidenziale, come la Francia, se, sul più bello, Berlusconi non avesse mandato tutto all’aria quando si accorse che, in cambio dell’appoggio a D’Alema, non ne avrebbe avuto in cambio la riforma della giustizia, l’unica cosa che davvero gl’importava.

Curiosamente, in seguito, fu proprio il Cav a sventolare la bandiera del premierato. Lui e l’intero centrodestra approvarono nel 2005 una riforma costituzionale, la cosiddetta “Costituzione di Lorenzago” che prevedeva un capo di governo che faceva il bello e cattivo tempo: poteva nominare e revocare i Ministri e sciogliere le camere.

Le prerogative del Presidente della Repubblica erano ridotte al lumicino: la riforma berlusconiana fu cestinata dal popolo nel 2006 con un referendum confermativo.

L’anno dopo, il centro-sinistra provò nuovamente a reintrodurre il «premierato forte»: la «Bozza Violante» prevedeva però che il potere di dissolvere le Camere rimanesse nelle mani del Capo dello Stato.

La fine traumatica della legislatura nel 2008 determinò l’archiviazione del progetto.

Nel 2014 il Governo Renzi caldeggiò una profonda riforma della costituzione che prevedeva una revisione profonda del Parlamento: una camera elettiva di 630 membri ed un Senato composto di rappresentanti regionali e locali.

Il Governo avrebbe dovuto ottenere la fiducia dei soli deputati e in diverse circostanze i disegni di legge sarebbero stati esaminati dalla camera bassa con la possibilità per l’alta d’introdurvi emendamenti.

discusso e sviscerato il testo, emendato e riemendato venne approvato in via definitiva ad aprile 2016: il capo del governo commise l’errore di provocare il referendum confermativo raccogliendo 500mila firme e soprattutto ancorò la propria sopravvivenza politica alla vittoria del sì.

si andò a votare il 4 dicembre 2016 e quasi il 60% dei votanti respinse il progetto.

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DAL BIPOLARISMO AL TRIPOLARISMO.

Se negli anni Novanta e Duemila la scena parlamentare era tutto sommato dominata da due poli contrapposti, con le elezioni del 2013, condotte tra l’altro con un sistema prevalentemente proporzionale, fece irruzione in Parlamento il MoVimento 5 Stelle, un partito che rifiutava di schierarsi con la destra o la sinistra e non voleva saperne d’allearsi con questo e con quello.

Il M5S, ottenendo oltre il 25% dei voti mandò in crisi il bipolarismo perché nessuna delle due coalizioni era in grado di governare autonomamente. Nel ’13, dopo una laboriosa trattativa, fu varato il governo Letta, esponente del PD, che si teneva in piedi con l’appoggio di Forza Italia. Caduto il Ministero Letta si formò il gabinetto Renzi che poteva contare sul sostegno di gruppi fuorusciti dal centro-destra (il NCD di Angelino Alfano): in qualche modo la XVII Legislatura arrivò alla fine, ma prima di chiudere i battenti venne approvata una nuova legge elettorale che prevedeva l’elezione delle Camere con un sistema misto proporzionale-maggioritario. Le elezioni del ’18 diedero la vittoria al M5s che prima formò una coalizione con la Lega e poi, dopo il voltafaccia del Papeete, col PD: dopo la nascita del secondo Ministero Conte si formò Italia Viva, il partito personale di matteo Renzi che ora ripropone l’elezione diretta del sindaco d’Italia.

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I PRECEDENTI STORICI.

La questione di passare da una democrazia della rappresentanza ad una decidente è stata più volte affrontata in diversi Paesi e risolta in diversi modi: molti stati autenticamente democratici hanno attraversato fasi nelle quali i governi sono stati molto deboli e i parlamenti troppo caotici e frammentati.

Queste Nazioni, di fronte all’inadeguatezza degli esecutivi, soprattutto in presenza di crisi molto gravi, hanno dato le loro risposte: qui faremo un paio d’esempi,

La Germania federale, dopo l’esperienza della Repubblica di Weimar (1919-1933) e il totalitarismo nazista (1933-1945) varò una costituzione che prevedeva l’elezione da parte della camera bassa, il Bundestag, del Cancelliere che nominava e revocava i ministri, con l’assenso del Presidente federale. Il Bundestag poteva sostituire il Cancelliere mediante una mozione di “sfiducia costruttiva”: nel testo proposto si doveva indicare il nome della persona che, in caso d’approvazione della mozione, sarebbe stato fatto Cancelliere.

Questo sistema politico ha funzionato molto bene: dal 1949 ad oggi vi sono state solo tre elezioni anticipate (1972, 1983 e 2005) e due mozioni di sfiducia, di cui una andata a segno ed una no.

tuttavia, la bundesRepublik ora deve confrontarsi di nuovo con la seria minaccia dell’estrema destra e negli ultimi tempi i governi federale e regionali appaiono molto più deboli che in passato.

In Francia, dopo la seconda Guerra Mondiale fu varata la costituzione della quarta Repubblica: tra il 1946 e il ’58 si succedettero ben 21 governi, alcuni in carica per pochi giorni o settimane.

Di fronte all’esplodere della crisi algerina, il Presidente della repubblica nominò Presidente del Consiglio Charles de Gaulle, l’uomo che con l’appello di Londra del 18 giugno 1940 aveva fatto nascere la “Francia libera”, il primo movimento di liberazione anti nazista dell’Europa occidentale.

De Gaulle pretese che fosse riveduta completamente la costituzione in modo da istituire un Presidente della Repubblica con ampi poteri: poteva nominare e revocare il Primo Ministro, dissolvere il parlamento quando voleva, poteva indìre referendum popolari per chiedere ai cittadini d’esprimere la propria opinione su questioni di interesse generale…

Era la quinta Repubblica: la costituzione gollista fu approvata dal popolo e de Gaulle divenne inquilino dell’Eliseo. François Mitterrand, leader dei socialisti, criticò la scelta fatta dal Generale, ma più tardi divenne per 14 anni Capo dello Stato dimostrando d’adattarsi benissimo al ruolo di vero leader del Paese.

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PRESIDENZIALISMO, SEMIPRESIDENZIALISMO, PREMIERATO FORTE.

Tra i diversi modelli di Stato repubblicano, La repubblica presidenziale più vicina geograficamente all’Italia è la Turchia: con la riforma costituzionale approvata nel 2016 il Presidente del paese è anche capo dell’esecutivo. E’ stata soppressa la carica di Primo Ministro.

Nel continente americano la maggior parte degli Stati sono delle repubbliche presidenziali: in america Latina, in parecchi casi, i Presidenti eletti devono però formare delle coalizioni per far approvare dai legislativi i propri disegni di legge; negli Stati Uniti, unico caso al mondo, il Presidente, eletto da un collegio di 538 grandi elettori, costituisce la sua amministrazione ed è controllato da un Congresso bicamerale.

Può darsi il caso d’un Presidente repubblicano ed un congresso democratico o viceversa: questa situazione che si è verificata di frequente, richiede ad entrambe le parti di raggiungere dei compromessi onde evitare la paralisi della complessa macchina federale.

Il Capo della Casa Bianca dispone d’ampi poteri, come quello d’emanare ordini esecutivi, ma il Legislativo si riserva di controllare le spese di bilancio e molto altro ancora.

Si parla invece di semipresidenzialismo quando un Capo dello Stato coabita con un primo ministro: in Francia, dal 1959 vi è un Presidente che può nominare e revocare il Premier, sciogliere l’Assemblea Nazionale,ma non il Senato, adottare ordinanze con valore di legge. Il governo però deve ottenere la fiducia dell’Assemblea nazionale.

Dal ’59 ad oggi all’Eliseo si sono succeduti otto presidenti e una ventina di Primi Ministri.

infine vi è il premierato forte incarnato soprattutto dalla persona che abita al N. 10 di Downing Street: il Primo Ministro britannico è capo del governo e della maggioranza parlamentare alla Camera dei Comuni. Nominato dal sovrano del Regno Unito dopo le elezioni generali, sceglie e destituisce i ministri e può sciogliere la camera. Inoltre, fissa l’ordine del giorno degli argomenti di cui si occupa Westminster.

Anche il Cancelliere tedesco ha forti prerogative, ma il bundestag si scioglie in anticipo solo quando è impossibile formare un governo alternativo a quello caduto, oppure l’esecutivo in carica dispone d’un’esigua maggioranza.

Questi ed altri sono i modelli in circolazione: dappertutto si è affrontata la questione su chi abbia il potere di decidere, soprattutto nei momenti di crisi quando c’è poco spazio per le speculazioni filosofiche e i tatticismi politici: solo in Italia non si è ancora trovata la strada più soddisfacente per tutti gli attori sulla scena.

si riuscirà, prima che si sciolgano i ghiacci polari, a risolvere una volta per tutte quest’annoso problema?

PIER LUIGI GIACOMONI

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