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(31 Maggio 2019)

1.

Fin da piccolo, Andrea sentiva un’attrazione irresistibile per la bicicletta: quando suo padre verso i nove anni gliene regalò una, visse l’episodio come il più bello della sua ancor breve vita.

Tutte le volte che poteva ci saliva sopra e faceva dei giri: la usava tutto l’anno, ma ovviamente il periodo in cui la sfruttava di più era l’estate, quando non c’era scuola e le giornate permettevano di stare all’aria aperta ore e ore.

Si era fatto degli amici a cui piaceva muoversi in bici: con loro andava nei parchi a giocare, a correre, a gridare fino a quando, a sera, tornava a casa felice e stanco.

Un giorno, però, scoprì amaramente che la sua bicicletta non c’era più: l’aveva lasciata fuori casa e qualcuno gliel’aveva rubata. Pianse, si disperò, avrebbe voluto morire lì subito.

suo padre quando lo seppe lo sgridò:

«Sei il solito superficiale: è ovvio che se lasci una bici fuori di notte qualcuno te la porta via. Per un po’ – soggiunse suo padre – rimarrai senza, così impari a custodire meglio le tue cose.»

Andrea ci rimase male, ma poi, a mente fredda riconobbe che papà, dopo tutto, aveva ragione nell’infliggergli quell’amara punizione: le biciclette – si disse – costano caro e la gente non trova i soldi per la strada, ma se li guadagna col sudore della fronte.

Quell’estate, pur essendo in punizione, ogni tanto, salì sulla bici di Federico, il suo migliore amico, o di Davide, buon compagno di scuola che ne aveva una, ma che non usava perché preferiva stare sul divano.

Ovviamente, sia Fede che Davy si raccomandarono con Andre che non si facesse rubare anche quella.

Il ragazzino, ammaestrato dalla triste esperienza fatta, a sera, chiudeva il velocipede in garage e nessuno ebbe occasione di rubarglielo.

***

2.

In occasione del Natale, suo padre che era burbero, ma gli voleva molto bene, regalò al figlio una nuova fiammante bici: non era da corsa, forse il babbo non se la sarebbe potuta permettere col suo modesto stipendio di operaio, ma per Andrea era come se lo fosse.

Nei mesi successivi, tutte le volte che poteva, faceva chilometri sulle strade, sia d’inverno che d’estate, come se fosse stato un ciclista vero. In quello stesso periodo conobbe un anziano meccanico riparatore di biciclette che gl’insegnò com’era davvero fatto quell’oggetto che lui amava tanto.

Anzi, Enzo, insegnò ad Andrea a riparare le bici.

Coi chilometri fatti pedalando e con le ore passate nell’officina di Enzo, Andrea comprese che proprio quel mezzo di trasporto fragile, insicuro, ma anche non inquinante, poteva far parte del suo futuro. Infatti, un bel giorno di aprile Enzo gli disse:

«Avresti voglia di partecipare ad una gara ciclistica qui in provincia di Bologna? Oh, se arrivi primo ti regalano un salame o un prosciutto, però penso che per te potrebbe essere un buon inizio, se davvero vuoi fare il ciclista da grande.»

Andrea, che non stava più nella pelle dall’entusiasmo, tornò a casa da suo padre e gli chiese il permesso d’iscriversi alla gara: il papà gli diede il consenso ed aggiunse:

«Alla partenza ti ci accompagno io con la macchina e poi ti aspetto al traguardo.»

La domenica riservata alla gara, Andrea e suo padre partirono: la bici si trovava sul portapacchi ben legata.
Purtroppo, come capita spesso in primavera da noi, non era una giornata di sole: anzi il cielo era cupo e si temeva che avrebbe piovuto. Andrea, però, dall’entusiasmo, quasi quasi non si rendeva conto della situazione.

Al punto d’incontro, gli atleti erano più di 40: alcuni sfoggiavano delle vere attrezzature da ciclista professionista, altri, come il nostro protagonista, erano più alla buona: siccome erano tutti ragazzi adolescenti il percorso non superava i 50 chilometri, ma a metà gara c’era una salita insidiosa e poi una discesa. L’arrivo era previsto in volata. Ovviamente gli organizzatori avevano bloccato il traffico per cui non c’era pericolo d’esser investiti dalle auto.

quando tutto fu pronto, fu dato il via.

***

3.

Per i primi chilometri, i ragazzi erano tutti in gruppo, poi la strada cominciò a salire e i meno preparati rimasero staccati. Andrea era nel gruppo di testa e, a mano a mano che si saliva il gruppo dei battistrada si sgranava. Arrivati in cima c’era lui e Fabio, un ragazzo che Andrea conosceva di vista perché l’aveva già incontrato nelle sue scorribande in bici. I due ragazzi cominciarono a scendere: Fabio andava molto forte, mentre Andrea, che aveva paura di cadere, rallentò un po, tanto – si disse lo riprendo quando torneremo in piano.

Fabio andava sempre più forte e ad un certo punto perse il controllo della bicicletta e finì per terra. andrea si fermò per dargli aiuto:

«Ti sei fatto male?» gli domandò.

«Ho paura d’essermi rotto un braccio perché sono caduto molto male.»

Andrea prese il suo telefonino e chiamò il direttore della corsa:

«Qui – disse allarmato – c’è Fabio che è caduto e si è fatto male!»

Poco dopo arrivarono anche altri ciclisti che videro cos’era successo e si fermarono: fortunatamente presto giunsero anche i soccorsi. Fabio fu caricato su un’ambulanza e condotto ad un vicino ospedale.

La gara fu vinta da un certo Francesco, ma ormai a nessuno interessava chi si sarebbe aggiudicato il prosciutto.

Andrea, ch’era un ragazzo sensibile e di buon cuore tornò a casa triste: durante il viaggio in macchina col padre non aprì bocca.

Il desiderio di divenire un ciclista professionista, di fare il Giro, il Tour, il sogno d’essere un big delle due ruote, come Nibali, si era come dissolto di fronte all’immagine di quel Fabio dolorante a terra.

Il giovane non perse il gusto di muoversi in bici, d’uscire con gli amici, d’andare con loro nei parchi a giocare, ad urlare e sudare non gli passò, ma decise che la bicicletta per lui sarebbe stata solo un mezzo di trasporto.

PIER LUIGI GIACOMONI

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