GRAN BRETAGNA. LA VITTORIA MUTILATA DEI CONSERVATORI
(12 Giugno 2017)
LONDRA. Le elezioni generali dell’8 giugno 2017 saranno ricordate come quelle in cui i conservatori hanno ottenuto
una “vittoria mutilata”: per la seconda volta in sette anni, infatti, il partito “azzurro” ha conseguito la
maggioranza relativa dei seggi e per mantenersi al potere deve formare una coalizione.
Altro dato interessante, che si era già in parte proposto nelle elezioni del 2015: il voto nel Regno Unito tende a
regionalizzarsi, cioè ad essere la somma delle singole situazioni politiche locali.
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I dati generali. Innanzitutto, in queste elezioni, più che in passato, si è assistito ad una forte polarizzazione
dell’elettorato: i conservatori hanno infatti ottenuto il 42,4% dei voti, mentre i laburisti, in prepotente
crescita, hanno raggiunto il 40% delle preferenze. In sostanza, è tornato il bipartitismo, perché il mercato
elettorale si è ristretto. Fino a qualche anno fa sembrava, difatti, che si fossero consolidati quattro poli:
accanto a Laburisti e conservatori, in perdita di velocità, era cresciuto il consenso per i Liberaldemocratici e
per l’UKIP, il partito più radicalmente isolazionista ed antieuropeo, ma il voto di giovedì segnala una forte
marginalizzazione di queste ed altre forze.
I liberaldemocratici, pur in ripresa rispetto al disastro del 2015, si son dovuti accontentare d’un magro 7%,
mentre il Partito dell’Indipendenza del regno Unito è crollato dal 13 all’1,8%.
In termini di seggi, hanno guadagnato terreno i Laburisti (+30), per un totale di 262, ed i libdems (+4), per un
totale di 12. Tutti gli altri han perduto terreno, se si eccettuano, come vedremo più oltre, DUP e Sinn Féin in
Irlanda del Nord.
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Inghilterra. Sui 533 deputati eletti nell’Inghilterra vera e propria, i conservatori hanno conquistato 297 mandati,
contro i 227 laburisti e gli 8 liberaldemocratici. Completa il quadro l’unica deputata verde rieletta per la terza
volta.
Questo conferma che il conservatore è un partito soprattutto inglese, cioè una forza regionale che fonda la propria
preminenza sulla scena politica nazionale sui molti collegi vinti nella regione più popolosa del Paese. I laburisti
sono in ripresa, rispetto ai magri risultati del 2010 e soprattutto del 2015, ma ancora non riescono a scalfire la
supremazia degli “azzurri”.
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Scozia. Le elezioni di giovedì scorso hanno ridimensionato la forza del Partito nazionale scozzese: nel 2015 si era
impadronito di 56 dei 59 seggi spettanti alla regione. Il relativo declino di questa forza politica regionale era
già emerso in occasione delle elezioni per il Parlamento di Holyrood del maggio 2016: in esse l’SNP aveva perso la
maggioranza assoluta ed aveva formato un governo di minoranza appoggiato dall’esterno dai Verdi.
Ora il crollo è verticale: l’SNP scende da 56 a 35 mandati e permette ai partiti nazionali di riprendere quota: i
conservatori conquistano 13 seggi, i laburisti 7, i liberaldemocratici 4.
Per effetto di questo risultato, per ammissione del Ministro principale scozzese, Nicola Sturgeon, esce di scena,
almeno per un po’, la rivendicazione dell’indipendenza della Scozia, anche perché il 60% dell’elettorato regionale
ha votato per i partiti nazionali, facendo capire, quindi, di non esser interessato alla disunione del Regno.
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Galles. La vera “regione rossa” della Gran Bretagna è il Galles. Dei 40 seggi spettanti al territorio, ben 28 son
stati vinti dai laburisti. I conservatori si son aggiudicati 8 mandati, mentre il partito regionale Plaid Cymru
(Partito del Galles) ha vinto 4 seggi.
Questo risultato rafforza la posizione del Ministro principale gallese Carwyn Jones, ma deve anche esser tenuto in
attenta considerazione anche a livello nazionale, perché i seggi gallesi superano il 10% della forza d’urto
laburista nella nuova Camera dei Comuni.
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Irlanda del Nord. Tradizionalmente, i partiti britannici non si propongono al giudizio degli elettori nordirlandesi
e tradizionalmente il voto in questa regione è fortemente tribalizzato: i protestanti votano per i partiti
unionisti, i cattolici per le liste separatiste.
Questo scenario si è riproposto anche stavolta, con un elemento in più: la forte polarizzazione su due schieramenti
radicali: il DUP, protestante, collocato molto a destra, e lo Sinn Féin, cattolico, collocato molto a sinistra.
Il DUP ha conseguito 10 dei 18 seggi spettanti all’Ulster, lo Sinn Féin ne ha vinti 7. L’ultimo seggio va ad un
indipendente.
Escono sconfitti sia l’UUP, unionista moderato, sia L’SDLP, cattolico moderato.
Queste elezioni giungono nell’Irlanda del Nord in un momento politicamente molto complesso: a gennaio è entrato in
crisi il governo regionale guidato dal Ministro principale Arlene Jones (DUP) in seguito alla decisione dello Sinn
Féin di ritirare il suo appoggio all’esecutivo. In marzo si sono tenute le elezioni regionali per la nuova
assemblea, ma da allora non si è riusciti a costituire una nuova amministrazione a Belfast. I dati emersi dalla
consultazione di giovedì fanno emergere una radicalizzazione del quadro politico locale che potrebbe anche metter a
rischio gli accordi di pace del 1998.
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Il sistema elettorale britannico. Come è noto, in Gran Bretagna per le elezioni generali si usa il sistema di voto
noto col nome di First-Past-the-Post (FPTP): tale meccanismo, molto semplice, fa sì che il candidato più votato in
ciascuna delle 650 circoscrizioni sia eletto anche senza il raggiungimento della maggioranza assoluta. Questa legge
elettorale avvantaggia o i partiti a forte vocazione nazionale o quelli molto radicati in uno specifico territorio.
Se in passato, l’FPTP consentiva la formazione di solide maggioranze parlamentari, oggi sembra mettere più in
evidenza le differenze regionali e quindi sembra prefigurarsi un quadro di futuri governi di coalizione tra partiti
nazionali e locali.
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L’affluenza alle urne. Un dato interessante, messo in risalto dagli osservatori all’indomani dello scrutinio, è
rappresentato dalla relativa crescita dell’affluenza alle urne. Pare che il relativo successo dei laburisti dipenda
dalla mobilitazione dell’elettorato giovanile che non aveva partecipato il 23 giugno 2016 al referendum sulla
Brexit e si era astenuto nelle elezioni del 2010 e del ’15.
Stavolta, la percentuale media è cresciuta sfiorando il 69%, mentre nelle tornate precedenti superava di poco il
60%.
Ad esempio, nel collegio di Canterbury, ritenuto sicuro dai conservatori, perché lo vincevano da cent’anni, giovedì
scorso ha vinto un candidato laburista, proprio grazie alla mobilitazione dei ragazzi che hanno sostenuto il loro
beniamino portandolo all’insperato successo finale.
Da un esame dettagliato degli esiti elettorali collegio per collegio, condotto da politologi britannici
interpellati dalla BBC, risulta anche che una parte consistente dell’elettorato che tra il 2015 ed il ’16 aveva
sostenuto l’UKIP e la Brexit nel referendum anti-UE è tornato a sostenere i “reds” perché ritenuti gli unici che
possano fermare la politica economica conservatrice tesa a trasformare il Regno Unito in un grande paradiso
fiscale. E’ la tesi portata avanti da Jeremy Corbyn durante la campagna elettorale che ha trovato orecchie attente
in aree che pochi anni fa avevano voltato le spalle ai Labours.
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considerazioni generali conclusive. Quando il 20 aprile scorso theresa May, il Primo Ministro britannico
attualmente in carica, ma fortemente contestato oggi anche dai suoi, propose al Parlamento la mozione che, aprovata
massicciamente, le ha permesso l’indizione delle elezioni generali anticipate, i sondaggi preconizzavano una
vittoria a mani basse dei conservatori. si parlava d’un partito laburista alle corde, d’un Jeremy Corbyn destinato
a fare una brutta fine e così via. La stessa May aveva annunciato che non avrebbe partecipato a nessun dibattito
televisivo, mentre avrebbe girato tutto il Paese per convincerlo a votarla. Era sicura della vittoria ed era certa
che avrebbe annientato il Parrtito Laburista.
Sarebbe stata una campagna elettorale condotta sul velluto perché priva d’una vera competizione.
Sette settimane di campagna elettorale, contrassegnate da due attentati (Manchester Arena e London Bridge) e da una
serie di passi falsi del Primo Ministro hanno cambiato le carte in tavola, mentre il suo avversario laburista
Jeremy Corbyn ha acquisito una credibilità inattesa. I suoi stessi contestatori interni, coloro che volevano
metterlo da parte l’anno scorso, dopo l’incerta campagna referendaria, ora sono silenziosi ed accettano la sua
leadership.
Theresa May potrebbe avere i giorni o le settimane contate, questo potrebbe essere un “corto parlamento” e potrebbe
prefigurarsi un quadro politico inedito. soprattutto, rispetto a quanto avevano immaginato gli strateghi della
politica conservatrice, gli effetti della crisi socioeconomica che non ha risparmiato il Regno Unito, le incertezze
che pesano sul futuro dei giovani britannici ed il disastro che sta investendo i servizi sociali in quel Paese
hanno finito per pesare sul risultato finale della consultazione.
In più, è sempre più evidente che la classe politica britannica ha affrontato il capitolo brexit con preoccupante
dilettantismo, senza calcolare tutti gli aspetti di questa complessa questione: un conto è dire a parole che ci si
vuole separare dall’Unione Europea, un altro è far fronte a tutte le innumerevoli conseguenze che questo passo
produce e che è destinato a ripercuotersi su un tessuto economico che si fonda quasi esclusivamente sul settore
finanziario, mentre son divenuti secondari tutti gli altri settori produttivi, come industria ed agricoltura.
PIER LUIGI GIACOMONI