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GABRIELE D’ANNUNZIO

LA PIOGGIA NEL PINETO (1902)

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
***
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitío che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
***
Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce del mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
***
Piove su le tue ciglia nere
sìche par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.
***
(La pioggia nel pineto fu scritta da D’Annunzio nell’estate del 1902 mentre si trovava, insieme ad Eleonora duse, l’Ermione nominata nella lirica, alla Versiliana.

I due amanti stanno facendo una passeggiata quando improvvisamente scoppia un temporale estivo che li bagna.

D’Annunzio immagina che, a mano a mano che prosegue la passeggiata, i due, in particolare la donna, vengano assorbiti dalla verdura ed entrino a far parte integrante dell’ambiente.

Al poeta non interessa creare una lirica descrittiva, ma immaginare una metamorfosi della donna che, a mano a mano, diviene parte integrante dell’ambiente circostante.

Tutti i sensi sono coinvolti nella lirica: la caduta della pioggia, il suo rumore contro le foglie scatena una musica ed i suoni sono sempre diversi.

E’ questo un esempio del procedimento attraverso cui la realtà per d’Annunzio si trasfigura, ma è anche un esempio del linguaggio poetico del pescarese che usa tanti registri espressivi).
***
LA VITA.

Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863 da una famiglia borghese benestante. Terzo di cinque figli, vive un’infanzia felice, distinguendosi per intelligenza e vivacità.
Dalla madre eredita la fine sensibilità; dal padre, il temperamento sanguigno, la passione per le donne e la disinvoltura nel contrarre debiti, che porterà la famiglia da una condizione agiata ad una difficile situazione economica.

Nel 1879, quando Gabriele ha solo 16 anni, il padre gli finanzia la pubblicazione della prima opera letteraria: si tratta d’una raccolta di poesie intitolata “Primo vere”.
essa raggiunge presto un certo successo, anche perché la pubblicazione è Accompagnata da un’entusiastica recensione critica sulla rivista romana Il Fanfulla della domenica.

Lo stesso D’Annunzio contribuisce alla campagna pubblicitaria spargendo la notizia falsa della sua prematura morte in seguito ad una caduta da cavallo.

L’effetto sul pubblico romano è immediato: il libro ottiene una grande diffusione perché i lettori, colpiti dalla notizia della prematura scomparsa di questo giovane studente abruzzese, vogliono leggerne i versi.

Successivamente, sarà lo stesso D’Annunzio a smentire la notizia.

Ciò dimostra come il nostro autore avesse già ben chiaro che, per esser promossi, i libri, come qualunque altro prodotto della moderna industria, hanno bisogno di pubblicità.

Più avanti, farà in modo che la sua figura sia circondata d’una fama, d’un divismo fin allora sconosciuti e che precorrono quello star system che noi ben conosciamo.

Dopo aver concluso gli studi liceali, accompagnato da una notorietà in continua ascesa, giunge a Roma, dove si iscrive alla Facoltà di Lettere, anche se non si laureerà mai.

Il periodo romano (1881 – 1891)

Gli anni 1881 – 1891 sono decisivi per la formazione di D’Annunzio, nel rapporto con il particolare ambiente culturale e mondano di Roma, da poco divenuta capitale del Regno.

Comincia a forgiarsi il suo stile raffinato e comunicativo, la sua visione del mondo e il nucleo centrale della sua poetica.

La buona accoglienza che trova in città è favorita dalla presenza in essa di un folto gruppo di scrittori, artisti, musicisti, giornalisti d’origine abruzzese,
fra cui Francesco Paolo Tosti che più tardi metterà in musica la celebre canzone “A vucchella” scritta dallo stesso D’Annunzio.
***
‘A Vucchella

testo di Gabriele D’Annunzio (1892)

Musica di Francesco Paolo Tosti (1904)

Sì, comm’a nu sciorillo
Tu tiene na vucchella
Nu poco pocorillo
Appassuiliatella.

Meh, dammillo, dammillo,
comm’a na rusella
Dammillo nu vasillo,
Dammillo, cannetella!

Dammillo e pigliatillo.
Nu vaso piccerillo
Comm’a chesta vucchella.

Che pare na rusella
Nu poco pocorillo
Appassuliatella…
***
Per gl’intellettuali romani il circolo degli abruzzesi è un vero ciclone perché porta ad un profondo rinnovamento culturale nei temi e nello stile.

D’Annunzio e gli altri sono eccitanti e trasgressivi, sia per il linguaggio che per le tematiche proposte e sono in grado di svecchiare profondamente l’ambiente culturale romano ancora molto chiuso e provinciale.

D’Annunzio, col suo stile nuovo per quell’epoca, così esuberante, raffinato e virtuosistico, sa affascinare lettori in cerca di novità.

Per guadagnarsi il pane, fa il giornalista, ma il suo gusto per l’esibizione della bellezza e del lusso lo porta a vivere al di sopra dei suoi mezzi.
E’ attratto in particolare dalla Roma “bene”, dalle feste, dai ricevimenti e dalle donne.

Il racconto di queste feste, fatto con stile ricercato rappresenta per il nostro quasi un rito d’iniziazione verso quel modo di narrare che lo caratterizzerà per tutta la vita.

Il grande successo letterario arriva con la pubblicazione del suo primo romanzo,
“Il piacere”, apparso a Milano, presso l’editore Treves, nel 1889.

Questo romanzo, incentrato sulla figura dell’esteta decadente, inaugura una nuova prosa introspettiva e psicologica
che rompe con i canoni estetici del naturalismo e del positivismo allora imperanti.

Ne’ “Il piacere”, il protagonista Andrea sperelli è un esteta che vive in una casa-museo piena di oggetti di varia provenienza: tappeti, arazzi, specchi, quadri, poltrone, tendaggi… in quest’ambiente vive le sue storie d’amore per nulla platoniche.

Se per il Manzoni nel rapporto amoroso, la componente fisica è praticamente assente, per D’annunzio la sensualità gioca un ruolo fondamentale, senza scadere nella volgarità.

«Pur non ammettendolo esplicitamente, – scrive Gianni Oliva – anzi negandolo, D’Annunzio proiettava in Andrea Sperelli almeno le sue aspirazioni. Ne scaturiva un uomo dalla coscienza priva di centro, che anteponeva il senso estetico a quello morale. Lo speciale rapporto con le cose costituisce una costante della complessa personalità sperelliana e la base per individuare i meccanismi segreti che l’alimentano. Ciò che egli vede e sente non è mai registrato fedelmente, ma ricreato, «reinventato» alla luce di un’attitudine straordinaria che conferisce significati inediti al mondo esterno.

Le sue facoltà percettive tendono, insomma, a interpretare la realtà adattandola al proprio essere.»

Leggiamo, a titolo d’esempio, questo passo che dà l’idea di ciò che stiamo tentando di dire:
***
da il piacere:

Andrea vide nell’aspetto delle cose intorno riflessa l’ansietà sua; e come il suo desiderio si sperdeva inutilmente nell’attesa e i suoi nervi s’indebolivano, così parve a lui che l’essenza direi quasi erotica delle cose anche vaporasse e si dissipasse inutilmente. Tutti quegli oggetti, in mezzo a’ quali egli aveva tante volte amato e goduto e sofferto, avevano per lui acquistato qualche cosa della sua sensibilità. Non soltanto erano testimoni de’ suoi amori, de’ suoi piaceri, delle sue tristezze, ma eran partecipi. Nella sua memoria, ciascuna forma, ciascun colore armonizzava con una imagine muliebre, era una nota in un accordo di bellezza, era un elemento in una estasi di passione. Per la natura del suo gusto, egli ricercava negli amori un gaudio molteplice: il complicato diletto di tutti i sensi, l’alta commozione intellettuale, gli abbandoni del sentimento, gli impeti della brutalità. E poiché egli ricercava con arte, come un estetico, traeva naturalmente dal mondo delle cose molta parte della sua ebrezza.
Questo delicato istrione non comprendeva la comedia dell’amore senza gli scenarii.
Perciò la sua casa era un perfettissimo teatro; ed egli era un abilissimo apparecchiatore. Ma nell’artificio quasi sempre egli metteva tutto sé; vi spendeva la ricchezza del suo spirito largamente; vi si obliava così che non di rado rimaneva ingannato dal suo stesso inganno, insidiato dalla sua stessa insidia, ferito dalle sue stesse armi, a somiglianza d’un incantatore il quale fosse preso nel cerchio stesso del suo incantesimo.

Tutto, intorno, aveva assunto per lui quella inesprimibile apparenza di vita che acquistano, ad esempio, gli arnesi sacri, le insegne d’una religione, gli strumenti d’un culto, ogni figura su cui si accumuli la meditazione umana o da cui l’imaginazione umana poggi a una qualche ideale altezza. Come una fiala rende dopo lunghi anni il profumo dell’essenza che vi fu un giorno contenuta, così certi oggetti conservavano pur qualche vaga parte dell’amore onde li aveva illuminati e penetrati quel fantastico amante. E a lui veniva da loro una incitazione tanto forte ch’egli n’era turbato talvolta come dalla presenza d’un potere soprannaturale.

Pareva, in vero, ch’egli conoscesse direi quasi la virtualità afrodisiaca latente in ciascuno di quegli oggetti e la sentisse in certi momenti sprigionarsi e svolgersi e palpitare intorno a lui. Allora, s’egli era nelle braccia dell’amata, dava a sé stesso ed al corpo ed all’anima di lei una di quelle supreme feste il cui solo ricordo basta a rischiarare una intiera vita. Ma s’egli era solo, un’angoscia grave lo stringeva, un rammarico inesprimibile, al pensiero che quel grande e raro apparato d’amore si perdeva inutilmente.
***
Il romanzo si sviluppa tutto in un piccolo ambiente nobiliare tra feste, divertimenti, amori. La realtà sociale è quasi del tutto assente e quando l’autore vuol ritrarre il popolo, lo raffigura come se fosse una massa indistinta, quasi brutale, primitiva, capace solo, come nel passo che stiamo per leggere di cantar a squarciagola una canzone licenziosa.
***
da il piacere:

Venivano giù per la discesa carri tirati da due o da tre cavalli messi in file e torme d’operai tornanti dalle opere nuove. Alcuni, allacciati per le braccia, si dondolavano cantando a squarciagola una canzone impudica.

Egli si fermò, per lasciarli passare. Due o tre di quelle figure rossastre e bieche gli rimasero impresse. Notò che un carrettiere aveva una mano fasciata e le fasce macchiate di sangue. Anche, notò un altro carrettiere in ginocchio sul carro, che aveva la faccia livida, le occhiaie cave, la bocca contratta, come un uomo attossicato. Le parole della canzone si mescevano ai gridi gutturali, ai colpi delle fruste, al rumore delle ruote, al tintinnio dei sonagli, alle ingiurie, alle bestemmie, alle aspre risa.
***
D’Annunzio, qui lo si comprende bene, prende le distanze dal verismo di Verga o dal naturalismo francese, che pure facevano parte delle sue letture: non vuole rappresentare la società, la realtà, l’infelicità dei poveri e dei sofferenti, ma tracciare una netta separazione tra la società “bene” che sa elevarsi ed il popolo abrutito dal lavoro e dalla fatica.

Ciò non significa che in seguito non si avvicini alle istanze popolari e non adotti, come quando scriverà la Carta del Carnaro, una legislazione sociale che all’epoca muoveva i suoi primi passi.

D’Annunzio e Nietzsche.

Successivamente alla pubblicazione del Piacere, D’Annunzio si avvicinerà al pensiero di Nietzsche ed alla teoria del superuomo.

In un articolo apparso sul Mattino nel 1892 scrive:
«Le plebi restano sempre schiave e condannate a soffrire tanto all’ombra delle torri feudali quanto all’ombra dei feudali fumaioli nelle officine moderne. Esse non avranno mai dentro di loro il sentimento della libertà. Su l’uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia socialista e non socialista, si andrà formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza; e questo gruppo a poco a poco riuscirà a impadronirsi di tutte le redini per domare le masse a suo profitto, distruggendo qualunque vano sogno di uguaglianza e di giustizia».

D’Annunzio e la politica.

Nel 1897 si fa eleggere alla Camera dei Deputati. In un primo momento aderisce al gruppo della destra, ma poi passa alla sinistra, giustificandosi con la celebre affermazione «vado verso la vita».

D’Annunzio si schiera contro la politica autoritaria del Primo Ministro Luigi Pelloux che ha imposto lo stato d’assedio per reprimere le manifestazioni popolari contro il rincaro del prezzo del Pane.
Quando Nel maggio 1898 il generale Fiorenzo Bava Beccaris aprirà il fuoco sulla folla riunita in piazza a Milano, il poeta prenderà posizione a favore dei dimostranti.

Tra il 1900 ed il 1906 è vicino al Partito socialista, mentre nel 1910 aderirà all’Associazione Nazionalista Italiana di Enrico Corradini.

Si fa iniziare alla massoneria e massoni saranno diversi legionari dell’esperienza di Fiume nel 1919 – 1920.

Nel 1910 fugge in Francia per sottrarsi alle richieste dei creditori a cui deve parecchio denaro: malgrado ciò non farà mancare la sua presenza sulla scena culturale italiana con articoli e versi in cui celebra la guerra italo-turca, o editoriali, apparsi soprattutto sul Corriere della Sera, nei quali si schiera per una politica di potenza contro l’«Italietta meschina e pacifista».

Partecipazione alla prima guerra mondiale (1915 – 1918)

Nel 1915, ritorna in Italia e partecipa con ardore alla campagna per l’entrata in guerra dell’Italia al fianco dell’Intesa. Nei suoi infiammati discorsi, si richiama ai miti della romanità e del Risorgimento.

Un esempio dell’oratoria dannunziana di quel periodo lo ritroviamo in questo passo tratto dal discorso celebrativo che il pescarese pronuncia il 5 maggio 1915 dallo scoglio di Quarto dove erano partiti i Mille nel 1860 per unire all’Italia il regno delle Due sicilie.
***
dal discorso del 5 maggio 1915:

Italiani d’ogni generazione e d’ogni confessione…

perché siete oggi qui convenuti, su questa riva?

Voi non udivate se non il romore cittadinesco, se non il clamore delle dissensioni, delle dispute, delle risse.

Voi tendevate l’orecchio al richiamo dei corruttori.

Consumavate i giorni senza verità e senza silenzio.

Ma i lontani scorgevano, di sotto alle discordie degli uomini,la patria raccolta nelle suerive, la patria profonda, sola con la sua doglia, sola col suo travaglio, sola col suo destino.

Si struggevano di pietà filiale divinando il suo sforzo spasimoso, conoscendo quanto ella dovesse patire, quanto dovesse essa affaticarsi per generare il suo futuro.

Come dunque ti serviremo?

Uomini siamo, piccoli uomini siamo; e tu sei troppo grande.

Ma farti sempre più grande è la tua sorte.
***
D’Annunzio partecipa alla guerra in prima persona, malgrado abbia più di cinquant’anni, un’età avanzata per quei tempi. Vola su Trieste e vienna, prende parte a battaglie sull’Isonzo, sale sui MAS, i sommergibili che coi loro siluri affondano le navi austriache alla fonda nei porti dell’Adriatico.

Al termine del conflitto, però, conia l’espressione “vittoria mutilata” riferendosi alla mancata attribuzione dei territori di Fiume e della Dalmazia,promessi all’Italia da Francia ed Inghilterra col patto di Londra del 1915.

L’impresa di Fiume (1919 – 1921)

Perciò nel settembre 1919 D’Annunzio insieme ad un gruppo paramilitare, guida una spedizione di “legionari”, partiti da Ronchi di Monfalcone (ribattezzata nel 1925 Ronchi dei Legionari), per l’occupazione della città di Fiume, che le potenze alleate vincitrici non avevano assegnato all’Italia.

Con questo gesto, D’Annunzio raggiunge l’apice del processo di edificazione del proprio mito personale e politico.

A Fiume, occupata dalle truppe alleate, già nell’ottobre 1918 si era costituito un Consiglio nazionale che propugnava l’annessione all’Italia.

D’Annunzio, con una colonna di volontari, occupa Fiume e v’instaura il “Comando dell’Esercito italiano in Fiume d’Italia”.

Successivamente, scrive la Carta del Carnaro: una specie di costituzione
nella quale vengono riconosciuti diritti come le pensioni di invalidità, l’habeas corpus, il suffragio universale maschile e femminile, la libertà di opinione, di religione, la funzione sociale della proprietà privata, le autonomie locali e il risarcimento degli errori giudiziari.

Accanto a questo viene introdotto anche il corporativismo.

Ne leggiamo insieme il preambolo.
***
dalla Carta del Carnaro:

Fiume, libero comune italico da secoli, pel voto unanime dei cittadini e per la voce
legittima del Consiglio nazionale, dichiarò liberamente la sua dedizione piena e intiera
alla madre patria, il 30 ottobre 1918.

Fiume è l’estrema custode italica delle Giulie, è l’estrema rocca della cultura
latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco.

E questo è il suo diritto storico.

Fiume sorge e si stende di qua dalle Giulie. È pienamente compresa entro quel
cerchio che la tradizione, la storia e la scienza confermano confine sacro d’Italia.

E questo è il suo diritto terrestre.

Fiume, con tenacissimo volere, eroica nel superare patimenti, insidie, violenze d’ogni sorta, rivendica da due anni la libertà di scegliersi il suo destino e il suo compito, in forza di quel giusto principio dichiarato ai popoli da taluno dei suoi stessi avversari ingiusti.

E questo è il suo diritto umano.

Le contrastano, il triplice diritto, l’iniquità, la cupidigia e la prepotenza straniere;
a cui non si oppone la trista Italia, che lascia disconoscere e annientare la sua propria
vittoria.

Per ciò il popolo della libera città di Fiume delibera di rinnovellare i suoi
ordinamenti, non limitandoli al territorio che era assegnato alla Corona ungarica, ma offrendoli alla fraterna elezione di quelle comunità adriatiche le quali desiderassero di rompere gli
indugi, di scuotere l’opprimente tristezza e d’insorgere e di risorgere nel nome della
nuova Italia.

Così, nel nome della nuova Italia, il popolo di Fiume fa giuramento di combattere con tutte le sue forze, fino all’estremo, per mantenere contro chiunque la contiguità della sua terra alla madre patria, assertore e difensore perpetuo dei termini alpini segnati da Dio e da Roma.
***
Col cosiddetto “natale di sangue” del 26 dicembre 1920 la reggenza di fiume viene soffocata dall’esercito italiano e D’Annunzio rientra in Italia.

Successivamente, nel 1924, lo Stato libero di Fiume sarà annesso all’Italia e poi verrà consegnato alla Iugoslavia coi trattati di pace del 1947.

D’Annunzio e il fascismo.

In un primo momento, Gabriele aderisce ai Fasci di combattimento, ma poi, forse per mantenere la sua autonomia intellettuale, non s’iscrive al PNF.

Il Fascismo fa suo il linguaggio dannunziano e molti dei miti rilanciati dal Vate entrano a far parte di diritto della propaganda fascista, ma Mussolini non si fida del pescarese, lo fa spiare e lo ricopre di onorificenze soprattutto per neutralizzarlo.

Nel 1925, D’Annunzio firma il manifesto degli intellettuali fascisti, contrapposto a quello degli intellettuali antifascisti, ma poi si ritira sempre di più a vita privata. Nel 1937 è eletto alla Presidenza dell’Accademia d’Italia, ma non parteciperà mai a nessuna riunione di tale organismo.

Gli ultimi anni.

Deluso dall’esperienza di Fiume, D’annunzio si ritira a Gardone riviera dove
acquista una villa che ribattezzerà il Vittoriale degli Italiani. Lì trascorrerà gli ultimi anni della vita, curando la pubblicazione delle proprie opere, intrattenendo relazioni con diverse donne, trasformando la propria residenza in una specie di mausoleo pieno di ricordi e di simboli mitologici.

La sua stessa persona è al centro di quest’autocelebrazione: è qui che riappare, come un fiume carsico, Andrea Sperelli. Il Vate vive in mezzo ai suoi mille oggetti, riceve le donne in vestaglia da camera, in penombra, per non mostrare i segni dell’invecchiamento.
Assume farmaci, droghe, cocaina soprattutto, ed ha momenti di depressione.

Poco prima di morire all’amica Ines Pradella scrive:
«Fiammetta, oggi patisco uno di quegli accessi di malinconia mortali, che mi fanno temere di
me; poiché è predestinato che io mi uccida. Se puoi, vieni a sorvegliarmi.»

Gabriele d’Annunzio si spegne per emorragia cerebrale al vittoriale il 1° marzo 1938:
la morte lo coglie al tavolo da lavoro: sullo scrittoio era aperto il Lunario Barbanera,
con una frase da lui sottolineata in rosso, che annunciava la morte di una personalità.

PIER LUIGI GIACOMONI

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