ETIOPIA ED ERITREA FANNO LA PACE
(24 Settembre 2018)
GEDDA (ARABIA SAUDITA). Il 16 settembre scorso Etiopia ed Eritrea hanno firmato nella città saudita il trattato di
pace che pone fine ad un conflitto che durava fin dagli anni Novanta, quando i due Paesi si erano scontrati a mano
armata a causa delle reciproche rivendicazioni confinarie.
Da questa primavera, però, soprattutto dopo che ad Addis Abeba era divenuto Primo Ministro Abiy Ahmed si è fatta
strada una gran voglia di pace.
Conseguenza: avvio delle trattative, visita nelle due capitali dei massimi responsabili di governo, riapertura
dell’ambasciata eritrea nella capitale etiopica ed incontro delle famiglie spezzate dalla separazione dei due
Stati.
A luglio, in occasione della sua visita ad Addis Abeba, Isaias Afewerki, il Presidente dell’Eritrea, era stato
accolto trionfalmente, non solo dai governanti, maanche dalla popolazione in festa.
solo domenica scorsa, però, è arrivata la firma vera e propria in calce ai trattati che sanciscono la fine di uno
dei tanti conflitti che insanguinano l’Africa.
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Storia di una guerra. Si può dire che la guerra tra Eritrei ed Etiopici abbia origini lontane, in particolare la
si può far risalire all’occupazione del territorio costiero dell’impero abissino avvenuto nel XIX secolo ad opera
dei colonizatori italiani. Da allora ebbe origine la colonia dell’Eritrea, una pura invenzione dell’epoca coloniale
che rimase italiana anche dopo il disastro di Adua (marzo 1896) e la fine momentanea delle rivendicazioni italiane
sull’intero territorio etiope.
L’Etiopia, con l’amputazione dell’Eritrea, perdette anche l’unico sbocco sul Mar Rosso a cui teneva moltissimo.
La separazione fra i due territori fu superata nel 1936 quando l’Italia, in seguito alla nota guerra d’aggressione,
occupò l’Abissinia e creò l’impero, di cui si potè fregiare il Re d’Italia Vittorio Emanuele III.
Quando nel 1941, l’Etiopia riacqusì la piena indipendenza, sotto il governo del Negus Hailé Selassié (1926-1974)
l’Eritrea, per volontà del Negus, ne seguì i destini.
Nel 1961, però, sorsero in Eritrea diversi movimenti di guerriglia che rivendicavano la secessione da Addis Abeba:
il governo imperiale reagì con spietatezza all’insurrezione, attuando una dura repressione nei confronti della
popolazione, ritenuta connivente coi ribelli. Per anni le carceri si riempirono di giovani maltrattati, torturati
ed uccisi, secondo un cliché ampiamente praticato in molte parti del mondo.
Quando nel 1974 le forze armate rovesciarono Hailé Selassié, per un breve periodo si pensò che l’Eritrea avrebbe
acquisito l’indipendenza, ma il Derg, la giunta militare che prese il posto del Negus Neghesti, non cambiò
politica, anzi, la repressione, se possibile, fu inasprita.
Si dovette attendere il 1991 perché la lunga vertenza venisse regolata mediante la separazione tra le due parti:
mentre ad Addis Abeba cadeva il regime del “Negus rosso” Menghistu Hailé Mariam, ad Asmara veniva proclamata
l’indipendenza del nuovo Stato, realizzando, tra l’altro, la prima modificazione dei confini statuali dalla
decolonizzazione. Fino a quel momento, infatti, l’OUA (Organizzazione per l’Unità Africana), poi trasformatasi in
UA (Unione Africana), aveva ostacolato qualunque rivendicazione secessionistica, in nome del dogma
dell’intangibilità dei confini ereditati dall’era coloniale.
Tutto a posto, allora? Per nulla: pochi anni dopo nel 1998 Etiopia ed Eritrea sarebbero nuovamente scese in campo,
l’una contro l’altra armate, per modificare a proprio vantaggio il confine. Addis Abeba, inoltre, rivendicava il
diritto d’accesso al Mar Rosso.
Il conflitto che fu armato, soprattutto tra il 1998 ed il 2000, costò la vita a parecchi soldati dall’una e
dall’altra parte, servì come giustificazione per le due parti per l’imposizione di regimi sempre più autoritari
nell’uno come nell’altro Paese. Deriva autoritaria, quindi, sia in Etiopia che in Eritrea ed elevate spese militari
da entrambe le parti: una situazione che alla fine ha pregiudicato le prospettive di crescita economica di ambedue
i Paesi ed ha indotto, soprattutto molti eritrei, ad emigrare per sfuggire alle grinfie del regime di Afewerki.
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I termini della pace. Quella che viene chiamata “Intesa di Gedda” prevede, fra l’altro, l’apertura di ambasciate
nelle rispettive capitali, il ripristino dei collegamenti tra i due paesi e l’uso dei porti eritrei da parte
dell’Etiopia. «L’accordo – si legge in un comunicato diramato dai sauditi, mediatori del negoziato – prevede il
ripristino di normali relazioni fra i due Paesi, sulla base degli stretti legami geografici, storici e culturali
fra le nazioni e i rispettivi popoli».
RE Salman, elogiando i due capi per aver esercitato una vera leadership, non ha mancato di sottolineare
che Ahmed ed Afewerki sono sati coraggiosi per aver ristabilito relazioni fraterne fra i due Paesi, superando
antichi attriti.
Anche l’Italia, ex potenza coloniale nella zona, attraverso un tweet della Farnesina, il Ministero per gli Affari
Esteri di Roma, ha espresso «i più vivi rallegramenti […] per la firma a Gedda dello storico accordo di pace tra
Eritrea e Etiopia, passo decisivo per assicurare la stabilità e la sicurezza» nella regione del Mar Rosso
meridionale – aggiungiamo noi – dove sono in corso conflitti irrisolti come le guerre civili in somalia e Yemen,
alimentate tra l’altro dal traffico illegale del khat, lo stupefacente che si coltiva in tutta quest’area, la cui
vendita frutta lauti profitti.
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Prosegue la repressione. Tutto a posto, allora? Assolutamente no: all’indomani della firma degli accordi di Gedda –
scrive Avvenire – in Eritrea, un ex Ministro di Afewerki, divenuto suo acerrimo avversario, è stato prelevato per
strada ad Asmara, la capitale eritrea, ed arrestato.
Berhane Abhere Kidane, 74 anni, alcune settimane fa, aveva pubblicato un libro “Eritrea, il mio Paese”, in cui
aveva mosso diverse accuse, anche molto pesanti, sulla gestione economica di Isaias Afewerki, invitandolo a
ripristinare la Costituzione del 1997, sospesa a causa della guerra con l’Etiopia, a convocare i superstiti membri
dell’Assemblea Nazionale, sfuggiti alle periodiche purghe del regime per spiegare loro i contenuti degli accordi di
Gedda ed infine dimettersi per evitare lo scoppio d’una guerra civile.
In un video caricato su Youtube, aveva rafforzato il concetto, sfidando il Presidente ad un confronto televisivo:
Berhane Abhere ha fatto tutto ciò dall’Asmara, rifiutandosi d’espatriare, come invece hanno fatto altri oppositori
del tiranno.
«Non sono note le accuse contro l’ex ministro – spiega Kibron Dafla, 70enne ex vice di Abhere ed ex responsabile
economico del Pfdj, il partito unico al potere in Eritrea – ma lì è normale. Anche se è stata firmata la pace con
l’Etiopia, anche se la gente sembra libera, non c’è democrazia. Mentre il premier etiope Abiy Ahmed libera gli
oppositori, Isaias continua a imprigionarli.»
Anche la moglie di Kidane, nel febbraio scorso, fu arrestata – si dice – come ritorsione per la fuga all’estero del
figlio primogenito della coppia: in Eritrea vige il servizio militare permanente, per cui i maschi dai 16 anni in
poi sono tenuti a servire nell’esercito a tempo praticamente indeterminato. Di conseguenza, molti giovani fuggono
all’estero per sottrarsi alla macchina repressiva del regime.
Anche dall’Etiopia giungono notizie poco incoraggianti: il 15 e 16 settembre – scrive Africa News – proprio mentre
si festeggiava il rientro in patria dei dirigenti del Fronte di Liberazione Oromo, irparati quarant’anni fa
all’estero per sfuggire alla repressione del regime, ventitré abitanti di Burayu, villaggio situato nei pressi di
Addis Abeba, sono morti a causa di aggressioni compiute da bande armate di giovani oromo.
Le violenze, che hanno costretto centinaia di persone alla fuga dalle loro case, hanno provocato il 17 settembre
una manifestazione popolare nella capitale dove diverse persone sono scese in piazza per protestare contro
l’atteggiamento ambibalente del governo, guidato da un Oromo che da un lato promette il superamento dei rancori tra
le diverse etnìe che compongon l’enorme Etiopia, ma dall’altro non sembra in grado di garantire la sicurezza della
popolazione che vive nei villaggi ed è vittima delle bande armate.
Da decenni, anche a causa della politica intrapresa dai governi che si sono succeduti, le tensioni tra le diverse
comunità etnico-religiose che vivon nel Paese sono a fior di pelle e possono sfociare in una serie di conflitti
dall’esito imprevedibile.
Questo sarà il banco di prova per il Primo Ministro Abiy Ahmed che finora ha contribuito al superamento di antiche
ruggini nella complessa regione del corno d’Africa: si tratta di vedere se riuscirà ad evitare che gli antichi
risentimenti travolgano la costruzione d’una nuova società etiopica.
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Le ragioni geopolitiche per una pace. Per comprendere appieno le ragioni per le quali si è arrivati a stipulare
l'”intesa di Gedda” occorre ricordare che essa s’inserisce nella più complessa partita in atto per il controllo del
Mar Rosso, ed in particolare dello stretto di Bab-el-mandeb che separa questo mare dall’Oceano Indiano. Il fatto
che alla firma degli accordi fossero presenti nientemeno che l’anziano Re saudita Salman bin Abdulaziz, il dinamico
Principe ereditario Mohammed bin Salman, oltre al Ministro per gli Affari Esteri degli Emirati Uniti, Abdullah bin
Zayed Al Nahyan, insieme col Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, fa comprendere quale sia
l’importanza dell’intesa raggiunta.
L’accordo è importante in ragione del posizionamento dell’Eritrea sul Mar Rosso, attraverso cui transita oltre un
terzo dell’export mondiale di greggio e dei suoi prodotti raffinati.
Si tratta di un posizionamento che ben spiega l’interesse dell’Arabia Saudita in primis, ma anche degli Emirati, ad
essere gli sponsor dell’accordo ed evitare che Etiopia ed Eritrea possano scivolare nell’orbita di una potenza
avversa, (l’Iran ad esempio), le cui ambizioni su questo quadrante sono ben dimostrate dal coinvolgimento nella
guerra civile in Yemen.
Per l’Arabia Saudita, poi, c’è una ragione in più per impegnarsi a favore dell’accordo: la volontà di non
pregiudicare la realizzazione di un megaprogetto da 500 miliardi di dollari per un parco turistico-tecnologico-
ecologico che ha cominciato a realizzare proprio lungo le coste del Mar Rosso.
Inoltre, per Riyadh ed Dubai, il Corno d’Africa va inserito in quell’area geopolitica che comprende anche lo yemen,
dove il Regno dei Saud è impegnato in prima persona a bloccare l’espansionismo sciita, sponsorizzato da Teheran,
rappresentato dagli Houthi che si battono contro il Presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi.
Per i Sauditi, che possono insieme al Premier etiopico Ahmed esser definiti a buon diritto i trionfatori della
giornata di Gedda, questa regione, così conflittuale può essere potenzialmente ricca di opportunità economiche, ma
anche di crescita d’influenza regionale, a condizione di rimuovere tutte le cause che fomentano il terrorismo e le
tensioni tra Paesi ed etnie.
Si vedrà se le speranze saudite vedranno la luce, come anche la legittima aspirazione per etiopici ed eritrei di
ottenere maggiori spazi di libertà dopo anni di repressione e di militarizzazione della vita quotidiana.
Anche l’Occidente dovrebbe guardare con interesse a questa pace perché potrebbe rimuovere alcune delle cause che
generano l’emigrazione e l’aberrante traffico d’esseri umani: non va dimenticato, infatti, che la vera origine
degli spostamenti di popoli in atto in Africa sono le interminabili guerre che devastano un continente
potenzialmente ricchissimo, ma impoverito dal malgoverno, dal dispotismo e dalla violenza provocata da gente senza
scrupoli.
PIER LUIGI GIACOMONI