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ELEZIONI LEGISLATIVE IN VENEZUELA
(6 dicembre 2015).

CARACAS. Quest’elettrizzante autunno elettorale ci riserva un nuovo appuntamento per domenica 6 dicembre:
il rinnovo dell’Assemblea Nazionale venezuelana.

Sia delle Regionali francesi che delle generali spagnole torneremo a parlare; oggi proviamo a disegnare un ritratto della situazione in Venezuela.

La rivoluzione Bolivariana. Dal Febbraio ’99 il Paese sudamericano è stato investito da un processo di profondo cambiamento, non privo d’interesse, ma pieno anche di contraddizioni.
da un lato, l’amministrazione Chávez ha introdotto
numerose riforme come istruzione e salute gratuite per tutti, riforma agraria con imposizione di limiti al latifondo, esproprio delle terre incolte e loro assegnazione ai contadini poveri, diffusi programmi di costruzione di case popolari ed assegnazione di titoli di proprietà nelle favelas, aumento di pensioni e salari, costituzione di cooperative di consumo e di produzione, controllo dei prezzi dei generi di prima necessità e programmi di promozione culturale dei giovani nelle baraccopoli.
Quest’interventi sono stati resi possibili dai considerevoli introiti ottenuti negli anni in cui il petrolio si vendeva tra i 100 ed i 120 dollari al barile.

Negli ultimi anni, però, le difficoltà sono aumentate sia per effetto del calo del prezzo del greggio, sia in seguito al passaggio dei poteri tra il carismatico Hugo Chávez, deceduto quell’anno, ed il suo successore Nicholás Maduro.

In più, negli ultimi anni le stesse conquiste della citata “rivoluzione”,
paiono oscurate dall’inflazione galoppante (160-200% nell’anno in corso),
dalla scarsità dei principali beni di consumo, dalle file chilometriche davanti ai negozi per l’acquisto dei beni a prezzo calmierato e dal dilagante mercato nero che domina su quello legale.
Per non parlar della corruzione e della violenza che fa di Caracas una delle città più infestate dalle bande criminali che compiono ogni genere di crimine.

In realtà, lo scontro in atto è tra coloro che ritengono che debba proseguire l’esperimento della “rivoluzione bolivariana”, molto simile a certo caudillismo, tipico della storia latino-americana, con le sue evidenti pulsioni autoritarie e la sua martellante retorica populista, e coloro che vorrebbero il ritorno alla situazione precedente al 1999, con la restaurazione del bipartitismo Copei-ADche ogni cinque anni si alternavano al potere, ma che aveva come inquietante corollario anche la corruzione politica e la concentrazione in poche mani delle notevoli ricchezze del Paese (petrolio, ferro e fertile terra coltivabile).

E’ indubbio, ad esempio, che i bolivariani abbiano commesso errori gravi, come la decisione di fissare un cambio predeterminato tra Bolívar e Dollaro USA.
Per reazione ad una massiccia fuga di capitali che ebbe inizio nel 2003, caracas, molto improvvidamente,
oppose l’uso delle riserve in dollari per acquistare bolivares, la moneta locale, nel tentativo di sostenerne la stabilità. Salvo imporre, solo pochi mesi più tardi, un tasso di cambio fisso, in seguito al rapido esaurirsi delle riserve di valuta pregiata.

Tutti capirono che il Governo era debole: infatti, iniziò subito il mercato nero, con un cambio bolivar-dollaro doppio o triplo, fino ad arrivare quest’anno ad un rapporto di 800 bolivares per un biglietto verde, mentre il cambio ufficiale fissa una quotazione irrealistica di 6,3 per uno.
Il sistema resse finché il prezzo internazionale del petrolio rimase alto od in crescita.
Per cinque anni il Venezuela, “drogato” dalle esportazioni di greggio, considerato tra i migliori al mondo, vide crescere il suo PIL a tassi “cinesi, (circa 10% all’anno).
Chávez, malgrado il boicottaggio organizzato dall’oligarchia, riuscì ad alimentare i suoi ambiziosi progetti a favore dei ceti popolari e promosse l’ALBA, alternativa all’ALCA, ossia l’alleanza delle economie bolivariane contro gli accordi di libero mercato promossi dagli Stati Uniti.

Non riuscì, invece, nel tentativo d’espandere e diversificare la base produttiva, lasciando il paese del Libertador Simón Bolivar in balìa delle fluttuazioni del mercato petrolifero. Così quando nel 2008 la crisi finanziaria globale causò una rapidissima discesa del prezzo del greggio (da 140 US$ per barile di metà 2008 a 40 di inizio 2009) alla “rivoluzione bolivariana” iniziò a mancare l’ossigeno.
E’ da un pezzo che, chiunque in Venezuela riesca ad entrare in possesso di dollari, li cambia al mercato nero, per comprare i beni sussidiati, realizzando enormi guadagni e contribuendo all’inflazione. Oppure, riesporta le merci ottenute in questo modo in Colombia dove, ad esempio, per un pieno di 40 litri di benzina si spendono circa 26 dollari contro gli 80 centesimi necessari in Venezuela.
In base alla legge, si possono ottenere dollari
al cambio ufficiale per viaggi e studi all’estero e per importare merci consentite: chi fa uso di quest’opportunità sono soprattutto le classi agiate e coloro che trafficano con l’estero.

Sono queste le distorsioni che fomentano il fenomeno dei bachaqueros (contrabbandieri),
che trafficano merci con la Colombia.
Sono, però, anche la dimostrazione che nell’epoca della globalizzazione e della libera circolazione dei capitali non è possibile per un Governo nazionale, con basi socioeconomiche fragili, far fronte da solo alle notevoli turbolenze internazionali, come quelle degli ultimi anni che hanno travolto economie ben più solide di quella venezuelana.
Perché, ci si domanda, Caracas non svaluta il Bolivar collocandolo ad un tasso di cambio più realistico?
Essenzialmente per due motivi:
1. per non aumentare il prezzo dei beni importati, perché, in assenza di adeguamenti salariali, che causerebbero ulteriore inflazione, diventerebbero inaccessibili al popolo e aumenterebbero il tasso di povertà sceso sotto il 25% negli anni di Chávez;
2. per non ammettere la sconfitta nei confronti di chi conduce la “guerra economica” contro il Venezuela.

Si vedrà dopo domenica prossima se caracas abbandonerà la sua politica e procederà ad una svalutazione che nei fatti è già avvenuta.

Le opposizioni. Il cartello delle opposizioni, che aggrega partiti d’orientamento diverso, come i democristiani del Copei e i socialdemocratici di AD, sperano stavolta d’infliggere una sonora sconfitta al partito “oficialista”.
Secondo alcuni sondaggi, sulla cui credibilità è lecito dubitare, oggi gli avversari di Maduro disporrebbero di venti punti di vantaggio.

L’opposizione venezuelana, fin dal fallito golpe del 2002, ha provato in tutti i modi di destabilizzare il Paese. Dopo il maldestro golpe rientrato in pochi giorni, ci fu la serrata di Pdvsa, l’impresa petrolifera di Stato, allora controllata dagli oligarchi, poi l’esportazione massiccia di capitali e strutture produttive. Fino ad arrivare alle “guarimbas” del febbraio 2012, quando centinaia poi migliaia di oppositori (in prevalenza studenti delle classi agiate) convocati dal Foro General Venezolano bloccarono Caracas con incendi e barricate, scontrandosi a volto coperto con la polizia e la Guardia nazionale. Fu in questo contesto che spuntarono le armi e numerosi cecchini, mai identificati, spararono sulla folla colpendo indistintamente oppositori, sostenitori e poliziotti, creando il caos e causando la morte di 43 persone e il ferimento di almeno altre 486.
La sommossa durò dieci giorni e mise a ferro e fuoco diverse città in tutto il Paese. Il senso di instabilità che ne derivò favorì ancor più l’incremento del valore del dollaro al mercato nero e alimentò la spirale inflazionistica. Anche l’assassinio lo scorso 25 novembre del leader oppositore Luis Manuel Díaz presenta lati oscuri e almeno una delle tre persone appena arrestate ha implicazioni con un gruppo criminale noto come Los Picures.

Il principale oppositore di Maduro, Leopoldo López, un economista di 44 anni con un master ad Harvard, è stato condannato a tredici anni e nove mesi di carcere con l’accusa di essere stato il fomentatore di quei gravissimi fatti di violenza. La sentenza è stata criticata come montatura politica anche da Amnesty International e certamente per il modo in cui è stato condotto il processo rimarrà una pagina nera della storia giudiziaria venezuelana. Non è, però, corretto far passare López come un oppositore pacifico e centrista. Partecipò al tentato golpe del 2002 e si è distinto per l’estremismo dei suoi attacchi al governo, per gli espliciti inviti a “liberarsi della dittatura chavista, anche con atti illegali” e per l’organizzazione di manifestazioni violente.
Una “dittatura”, quella di Chávez e Maduro, che è stata confermata innumerevoli volte dal voto liberamente espresso dal popolo, anche con alte percentuali.
Va notato, tra l’altro, che nemmeno gli oppositori hanno mai potuto accusare l’esecutivo di brogli elettorali: il sistema di voto in vigore nel Paese, totalmente elettronico,
è quasi interamente al riparo dai ballottini che avvengono in altri Paesi latino-americani.
Le macchine con cui si vota sono protette da un triplice sistema di chiavi, di cui una è detenuta appunto dai partiti all’opposizione.

Questa volta, però, sembrerebbe proprio che i nemici della “rivoluzione bolivariana” possano farcela, e se il Partito socialista unificato di Venezuela, Psuv perdesse la maggioranza parlamentare, per Maduro, eletto presidente il 14 aprile 2013 con l’esiguo margine dell’1,5% sul candidato dell’opposizione Enrique Capriles, sarebbe molto più arduo, per non dire impossibile, continuare il processo iniziato nel lontano 1998 con l’elezione di Hugo Chávez. Anzi, non v’è dubbio che il successivo obiettivo di un’opposizione vittoriosa sarebbe la destituzione dello stesso Presidente della Repubblica. La costituzione bolivariana, fatta approvare da Chávez con un referendum popolare, prevede, infatti, che tutte le cariche pubbliche possano esser revocate con plebiscito a metà mandato.

Il Venezuela, quindi, si avvia a scrivere un’altra pagina della sua storia drammatica, affascinante e convulsa.
Il suo quadro socioeconomico è talmente polarizzato che non si possono del tutto escludere esiti drammatici, una volta noti i risultati dello scrutinio.

PIERLUIGI GIACOMONI

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