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EDITORIALE: TU, LEI, VOI
(16 Luglio 2020)

ROMA. Oggi il pronome personale «tu» è quasi generalizzato: non solo com’è ovvio in casa e fra amici,ma anche fra colleghi, sui media, sul web.

E’ un «tu» che ha fatto tabula rasa di tutti gli altri pronomi personali e modi di rivolgersi che si sono sviluppati nei secoli per distinguere le persone a seconda della posizione sociale che occupano, come accadeva nei secoli passati.

Anticamente, Greci, Romani, Egizi si davano del «tu» incondizionatamente salvo poi inserire nel parlato delle formule di cortesia per dimostrare rispetto all’autorità.

Così «in epoca imperiale – scrive Umberto Eco[1] – appare un Vos che permane per tutto il Medioevo (per esempio quando ci si rivolge a un abate) e nella Divina Commedia appare il Voi quando si vuole esprimere grande rispetto (“Siete voi, qui, ser Brunetto?”).
(incidentalmente va qui notato che il titolo di Ser usato nella firenze del XIII secolo ed oltre si dava a persone appartenenti alla nobiltà, le uniche che portavano anche un cognome come Dante degli Alighieri, ossia discendente da un capostipite, tal Alighiero, gli altri, i popolani, quelli che non potevano vantare alcun lignaggio, neanche usurpato, portavano oltre al nome personale, ed al patronimico, una denominazione che faceva riferimento all’origine geografica, ad un mestiere o ad una qualche caratteristica del proprio essere (es. Luca [nome personale], di Andrea [patronimico], della Robbia [origine geografica].

Il «tu», per secoli, è stato usato come pronome personale da un superiore verso un inferiore, cioè un servo: anche in casa, tra marito e moglie, tra figli e genitori, tra giovani ed anziani si usava il «voi», come segno di riguardo verso le persone più in là negli anni e, quindi meritevoli di rispetto per le esperienze maturate nel corso della vita.

In questo senso c’entra anche molto la demografia: un tempo era considerato un privilegio raggiungere età avanzate in buona salute, perché la maggioranza capitolava prima, non di rado anche nell’infanzia.

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NELLE ALTRE LINGUE.

Vediamo com’è la situazione nelle altre lingue, facendo alcuni esempi:

1. In inglese,com’è noto il pronome personale «you» vale sia per la seconda persona singolare che per la seconda plurale: quindi si dice che gli anglosassoni si danno sempre e comunque del «tu», ma non è così vero.

Un conto è, se rivolgendomi ad un amico, dico: «Hi, John, how are you» ed un altro è, se parlando ad un deputato al Parlamento dico «good morning, Mr. Smith: how are you?»

Nel primo caso, John è un amico, cui do del «tu», nel secondo, il mio interlocutore è una persona di rispetto ed è come se, parlando con lui, o al telefono o per lettera, gli dessi del »lei».

Ecco perché nelle traduzioni dei dialoghi dei film in originale inglese talvolta uno dei due personaggi dice all’altro: «Diamoci del”tu”.»

E’ vero, peraltro, che nel mondo anglosassone il passaggio da un rapporto “formale” ad una relazione “informale” è spesso molto rapido, tranne forse quando ci si riferisce alla Regina o al Primo Ministro.

2. In francese, ci si dà del «tu» principalmente in famiglia, ma sui luoghi di lavoro si usa il »vous» traducibile col «lei»: per rendersene conto basta ascoltare una qualunque trasmissione a Radio France per accorgersi che anche passandosi la parola tra colleghi ci si tratta col pronome di seconda persona plurale.

3. In spagnolo esiste il »lei» («usted») che si è diffuso dovunque ha dominato Madrid: (Italia, America Latina): se lo scambiano le persone che non si conoscono prima d’entrare in confidenza.

Presto subentrerà il «tu», peraltro ampiamente utilizzato dai giovani e dai media.

4. In tedesco, dove naturalmente si può usare la seconda persona singolare «du», esiste la formula di cortesia «Sie» che vale sia per il «lei» che per il «loro»: un’espressione come «kommen Sie, bitte» si può tradurre sia come “venga, per favore” o “vengano [loro] per favore”.
(anche in italiano, una volta s’usava il pronome loro per indicare una pluralità di persone con cui non si aveva nessuna confidenza, una specie di «lei» pluralizzato).

5. In svedese dagli anni Sessanta ci si dà sempre del «tu»: solo quando ci si rivolge ad una persona meritevole di molto rispetto, ad esempio il re, si usa il »lei».

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IN ITALIA.

La letteratura italiana offre diversi esempi di una certa varianza nell’uso dei pronomi personali.

Salimbene de Adam, (1221 – 1288) nella sua cronaca[2] sostiene che «i Pugliesi, i Siciliani, i Romani […] danno del tu all’imperatore e al papa, e nello stesso tempo gli danno anche del signore […] I Lombardi[3], invece danno del voi, e non solo a un bambino, ma anche a una gallina, a un merlo, a un albero.»

Nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni (1785 – 1873), ad esempio, «Si danno del Voi – scrive ancora Eco – Agnese e Perpetua, Renzo e Lucia, Il Cardinale e l’Innominato, ma in casi di gran rispetto come tra Conte Zio e Padre Provinciale si usa il Lei. Il Tu viene usato tra Renzo e Bortolo o Tonio, vecchi amici. Agnese da del Tu a Lucia che risponde alla mamma con il Voi. Don Abbondio da del Voi ad Agnese che risponde per rispetto con il Lei. Il dialogo tra Fra Cristoforo e don Rodrigo inizia col Lei, ma quando il frate s’indigna passa al Voi (“la vostra protezione…”) e per contraccolpo Rodrigo passa al Tu, per disprezzo (“come parli, frate?”).

Il regime fascista aveva giudicato il Lei capitalista e plutocratico e aveva imposto il Voi. Il Voi veniva usato nell’esercito, e sembrava più virile e guerresco, ma corrispondeva allo You inglese e al Vous francese, e dunque era pronome tipico dei nemici, mentre il Lei era di origine spagnolesca e dunque franchista. Forse il legislatore fascista poco sapeva di altre lingue e si era arrivati a sostituire il titolo di una rivista femminile, Lei , con Annabella, senza accorgersi che il Lei di quel titolo non era pronome personale di cortesia bensì l’indicazione che la rivista era dedicata alle donne, a lei e non a lui. Bambini e ragazzi si davano del Tu, anche all’università, sino a quando non entravano nel mondo del lavoro.»

Da tempo invece, a un giovanotto sui quarant’anni che entra in un negozio, il commesso o la commessa della stessa età apparente, cominciano a dare del Tu.»

E’ un po’ ciò che è accaduto dopo il ’68 in cui si è cercato in un certo senso di rendere meno formali i rapporti interpersonali.

Quand’ero piccolo, mio padre mi sgridò perché mi ero rivolto ad un estraneo col pronome di seconda persona singolare: «alla gente di casa – mi disse – si dà del «tu», agli estranei del «lei.» Lo stesso discorso valeva per la gente di rispetto: il parroco, il vescovo, la maestra a scuola, il direttore, la prof. ciò m’indusse ad imparare a costruire le frasi col «lei». divenuto ragazzetto imparai che anche ai coetanei che non conoscevo era logico dar del «tu», ma in alcuni libri di narrativa, scritti nei primi decenni del Novecento, ho trovato che dei personaggi in età molto giovane, di primo acchito, si dan l’un l’altro del «lei».

Anche oggi, rivolgendomi a persone che non conosco uso il «lei», anche se nei partiti, nelle parrocchie, tra colleghi, alla radio, in TV, sul web, negli stessi programmi di computer o nelle pubblicità si usa il «tu».

Un «tu» generalizzato, straripante che da un lato avvantaggia nettamente chi non riesce a costruire delle frasi col «lei», non solo gli stranieri, ma anche quegli italiani che han scarsa padronanza della lingua, ma che dall’altro la impoverisce sia dal punto di vista lessicale che da quello sintattico e banalizza le relazioni interpersonali.

Proviamo a fare alcuni esempi nei due ambiti, quello linguistico e quello del rapporto più o meno facile tra le persone.

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L’AMBITO LINGUISTICO.

Quand’insegnavo in prima media, i bambini che arrivavano dalle elementari facevano fatica, chi più, chi meno, chi mai, a dar del «lei» ai professori: spiegavo loro, che non era una questione di buona o cattiva educazione, ma era importante che acquisissero la capacità di costruire delle frasi col «lei» perché prima o poi nella vita avrebbero avuto a che fare con qualcuno che l’avrebbe esigito.

Quindi, era importante già in quella fase preadolescenziale impadronirsi di alcune formule linguistiche che sarebbero state utili in età più adulta, per esempio, quando si sarebbe ricercato un posto di lavoro.

***

L’AMBITO RELAZIONALE.

1. L’ambiguità del «tu» generalizzato può autorizzare a pensare che non ci siano più barriere comunicative tra individui e che tutti siamo uguali: è falso e profondamente ingannevole.

In una scuola, dove venni trasferito negli anni Novanta, quand’andai a parlar con la Preside che la governava da oltre un decennio, quasi fosse una monarca assoluta, lei mi disse che a tutti dava del «tu» e che gli altri erano tenuti a far altrettanto.

Un collega, che non la sopportava, le si rivolgeva dandole del «lei», cosa che la faceva infuriare.

Quel «tu» intendeva significare che non c’era differenza tra capo d’istituto, docenti e personale ATA?
Assolutamente no, perché a tutti era chiaro chi comandava e chi doveva ubbidire.

Era il «tu» che il signore feudale usava quando si rivolgeva ai servi della gleba.

2. Quando giro per strada in maglietta o con uno zaino sulle spalle qualcuno mi si rivolge col «tu» perché o la ti-shirt o lo zaino fanno supporre l’altro ch’io sia un ragazzo, non certo un adulto. Quasi che, ad una certa età, sia poco appropriato indossare certi capi di vestiario,soprattutto quando fa caldo, o non si possano portar con sé certi oggetti, adatti agli studenti.

3. Ricordo d’esser stato presente, soprattutto negli anni 70, a degl’incontri tra giovani da una parte ed un adulto dall’altra: quando uno di noi ragazzi gli si rivolgeva dandogli del «lei» quello invariabilmente reagiva scompostamente gridando “per favore, datemi del «tu», altrimenti mi fate sentire vecchio!”).

4. Ad una festa, in spiaggia, quando si sfiora un incidente stradale ci si dà del «tu»: lo stesso avviene quando si litiga furiosamente.

5. Nella radio televisione d’una volta il «tu» era raro: m’è capitato d’ascoltare interviste realizzate negli anni 50 o 60 e non ho potuto far a meno di notare che il giornalista che poneva le domande usava il «lei» non solo se parlava al Presidente del Consiglio, ma anche ad una persona incontrata per strada o ad un atleta.

6. E’ vero, ha ragione salimbene: noi diamo del «tu» agli animali. Del resto sarebbe ridicolo rivolgersi loro col «lei»!

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CONCLUSIONE.

forse che siamo tornati all’antico senza volerlo e senza averne coscienza? forse che il «tu» universale dei Greci e dei Romani ha avuto ed avrà definitivamente la meglio su tutte le altre formule di cortesia?

Se hanno ragione gli svedesi che dan del «tu» a tutti, re escluso, loro che in parecchie cose sono all’avanguardia da decenni, o gli anglosassoni che nella relazione interpersonale superano rapidamente certi formalismi a cui noi latini siamo ancora in parte legati, il futuro è quello: «tu» a tutti fuorché alle massime autorità, come facevano, secondo Salimbene, i «pugliesi, i siciliani e i romani» che davano del «tu» a tutti, compresi Papa e Imperatore, salvo aggiungere, per rispetto dell’età e della carica, l’appellativo «signore».

PIER LUIGI GIACOMONI
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NOTE:

[1] Ho tratto molte informazioni da Umberto Eco, “Così il darci del Tu rischia di impoverire la nostra memoria e il nostro apprendimento” La Repubblica, 14 settembre 2015.

Ringrazio l’amico Santo Graziano che me l’ha fornito.

[2] Salimbene de Adam da Parma (1221 – 1288), frate minore francescano, discendente di famiglia nobile, è autore d’una ponderosa cronaca in cui sono descritti molti avvenimenti accaduti in Italia nel XIII secolo.

Umberto Eco ne ha tratto grande spunto per scrivere il romanzo «Il nome della rosa».

[3] Nel Medioevo i «lombardi» erano gli abitanti della Val Padana, ossia la Longobardia (poi trasformatasi in Lombardia).

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