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EDITORIALE. SILVIA ROMANO
(18 Maggio 2020)

ROMA. Il 9 maggio scorso Silvia Romano è ritornata in Italia dopo un anno e mezzo di prigionia. era stata rapita nel novembre 2018 mentre svolgeva il suo compito di volontaria in Kenya.

Come avevano ipotizzato diversi osservatori fin dall’inizio la ragazza è stata condotta dal Kenya alla somalia e lì tenuta in cattività, finché, grazie all’impegno congiunto di diversi servizi segreti è stato possibile riaverla.

Non sappiamo con certezza se sia stato pagato un riscatto, ma se anche fosse, è stata giustamente salvata una vita.

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IL FUTURO DEL VOLONTARIATO INTERNAZIONALE.

La vicenda di Silvia pone però una serie di questioni sul volontariato internazionale e sul lavoro delle ONG: secondo dati che sono emersi in questi giorni in Italia vi sono circa 200 ONG registrate presso il Ministero per gli Affari Esteri e la Cooperazione, ma ve ne sono oltre 500 non registrate.

Le prime, quelle iscritte nel registro del MAE, notificano alle ambasciate l’arrivo e la partenza dei volontari, svolgono progetti in cooperazione con la Farnesina e così via. Le altre fanno per conto loro: tutto va bene finché qualche volontario non finisce nelle mani di bande criminali o gruppi di guerriglia che ovviamente considerano il bianco, l’europeo, come una fonte di finanziamento. L’obiettivo non è tanto ucciderlo, ma quello di farsi pagare per la sua liberazione.

Lavorare nei Paesi in Via di Sviluppo – per favore, smettiamo d’usare espressioni vecchie come Terzo Mondo, che risalgono all’epoca della guerra fredda), non può avvenire incompleta sicurezza, nemmeno per tecnici ed imprenditori: in Africa, in particolare, sono aperte troppe crisi, molti governi hanno uno scarso controllo del territorio e le frontiere sono quanto mai porose.

In più, in aree come il Sahel, il corno d’Africa, la Libia, la Repubblica Democratica del Congo,per citarne solo alcune, sono in atto guerre civili che, anche per responsabilità di diversi Paesi del Nord del mondo, non trovano soluzione, perché, com’è stato denunciato più volte, il traffico d’armi non si ferma mai e una guerra al giorno d’oggi la puoi fare anche con armamenti come granate, kalashnikov e machete.

Non è quindi possibile per le ONG assicurare la completa incolumità di chi si reca in Africa per anni di volontariato, ma non c’è dubbio che il fai-da-te è semplicemente rischioso per il volontario.

Se risultasse vero che l’ONG che ha inviato Silvia in Kenya in un orfanotrofio, le ha messo a disposizione solo due guardiani per tutelarne la sicurezza, saremmo di fronte ad un drammatico caso di superficialità e di sottovalutazione dei rischi.

Da anni, si sa che gli Al Shabab somali compiono incursioni in territorio kenyano, potendo evidentemente contare su appoggi in loco, oltre che sullo scarso controllo del Kenya nord-orientale da parte di Nairobi.

Se sei un dirigente d’un’ONG,che magari percepisce un finanziamento dal MAE o dalla Comunità europea per realizzare un progetto in un’area economicamente depressa, non puoi non conoscere il contesto in cui va a lavorare il volontario, o la volontaria.

Per la mia esperienza, è sempre bene essere inseriti in una comunità, appogiarsi magari ad una missione o comunque ad una struttura, sia religiosa che laica, che accompagni il volontario, l’aiuti e lo sostenga nei momenti di crisi, che interagisca con lui e che eventualmente abbia anche condiviso il progetto in cui quello deve inserirsi ed eventualmente proteggerlo dalle insidie del luogo.

Nessuno, da solo, salva il mondo, perché solo insieme ad altri è possibile salvarlo.

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MARYAM ISMAIL.

In questo complesso contesto, ha sicuramente senso ascoltare quanto ha da dire, a proposito della realtà somala, Maryam Ismail, antropologa e mediatrice culturale, d’origine somala che a seguito della liberazione di Silvia Romano ha scritto parole importanti su Facebook.

Sono parole di comprensione rivolte sia a lei, sia a noi e ci richiamano a non fermarci alla superficie ed a non dar ascolto ai nostri pregiudizi.

Dice Ismail:

«Quando si parla del jihadismo islamista somalo mi si riaprono ferite profonde che da sempre cerco di rendere una cicatrice positiva. L’aver perso mio fratello in un attentato e sapere quanto è stata crudele e disumana la sua agonia durata ore in mano agli Al Shabab mi rende ancora furiosa, ma allo stesso tempo calma e decisa.

Perché? Perché noi somali ne conosciamo il modus operandi spietato e soprattutto la parte del cosidetto volto “perbene”. Gente capace di trattare, investire, fare lobbing, presentarsi e vincere qualsiasi tipo di elezione nei loro territori e ovunque nel mondo.
Insomma sappiamo di essere di fronte a avversari pericolosissimi e con mandanti ancor più pericolosi.

Ora la giovane cooperante Silvia Romano, che è bene ricordare NON ha mai scelto di lavorare in Somalia, ma si è trovata suo malgrado in una situazione terribile, è tornata a casa.

Non è un caso che per mesi ho tenuto la foto di Silvia Romano nel mio profilo fb. Sapevo a cosa stava andando incontro.

Si riesce soltanto ad immaginare lo spavento, la paura , l’impotenza, la fragilità e il terrore in cui ci si viene a trovare?

Certamente no, ma bastava leggere i racconti delle sorelle yazide, curde, afgane, somale, irachene, libiche , yemenite per capire il dolore in cui si sprofonda.

Comprendo tutto di Silvia.
Al suo posto mi sarei convertita a qualsiasi cosa pur di resistere, per non morire. Mi sarei immediatamente adeguata a qualsiasi cosa mi avessero proposto, pur di sopravvivere.
E in un nano secondo.

Attraversare la savana dal Kenya e fin quasi alle porte di Mogadiscio in quelle condizioni non è un safari da Club Mediterranee… Nossignore è un incubo infernale, che lascia disturbi post traumatici non indifferenti.

Non mi piacciono per nulla le discussioni sul suo abito (che per cortesia non ha nulla di SOMALO, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza), né la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura.

La sua non è una scelta di LIBERTA’, non può esserlo stata in quella situazione.
Scegliere una fede è un percorso così intimo e bello, con una sua sacralità intangibile.

E poi quale Islam ha conosciuto Silvia?

Quello pseudo religioso che viene utilizzato per tagliarci la testa? Quello dell’attentato di Mogadiscio che ha provocato 600 morti innocenti? Quello che violenta le nostre donne e bambine? Che obbliga i giovani ad arruolarsi con i jihadisti? Quello che ha provocato a Garissa 148 morti di giovani studenti kenyani solo perché cristiani? Quello che provoca da anni esodi di un’intera generazione che preferisce morire nel deserto, nelle carceri libiche o nel Mediterraneo pur di sfuggire a quell’orrore? Quello che ha decimato politici, intellettuali, dirigenti, diplomatici e giornalisti?

No, non è Islam questa cosa.
E’ NAZI FASCISMO, adorazione del MALE.
E’ puro abominio.
E’ bestemmia verso Allah e tutte le vittime.

I simboli, sopratutto quelle sul corpo delle donne hanno un grande valore. E quella tenda verde NON ci rappresenta.

Quando e se sarà possibile, se la giovane Silvia vorrà , mi piacerebbe raccontarle la cultura della mia Somalia. La nostra preziosa cultura matriarcale, fatta di colori, profumi, suoni, canti, cibo, fogge, monili e abiti.
Le nostre vesti e gioielli si chiamano guntino, dirac, shash, garbasar, gareys, Kuul, faranti, dheego,macawis, kooffi.

I nostri profumi si chiamano cuud, catar e persino barfuum (che deriva dall’italiano).
Ho l’armadio pieno delle stoffe, collane e profumi della mia mamma. Alcuni di essi sono il mio corredo nuziale che lei volle portarsi dietro durante la nostra fuga dalla Somalia.

Adoriamo i colori della terra e del cielo.
Abbiamo una lingua madre pieni di suoni dolci , di poesie, di ninne nanne, di amore verso i bimbi, le madri, i nostri uomini e i nonni.

Abbiamo anche parti terribili come l’infibulazione (che non è mai religiosa, ma tradizionale) , ma le racconterei come siamo state capaci di fermare un rito disumano.
Come e perché abbiamo deciso di non toccare le nostre figlie, senza aiuti, fondi e campagne di sostegno.

Ma soprattutto le racconterei di come siamo stati, prima della devastazione che abbiamo subito, mussulmani sufi e pacifici, mostrandole il Corano di mio padre scritto in arabo e tradotto in somalo..

Di quanti Imam e Donne Sapienti ci hanno guidato.
Della fierezza e gentilezza del popolo somalo.

E infine ho trovato immorale e devastante l’esibizione dell’arrivo di Silvia data in pasto all’opinione pubblica senza alcun pudore o filtro.

In Italia nessun politico al tempo del terrorismo avrebbe agito in tal modo nei confronti degli ostaggi liberati dalle Br o da altre sigle del terrore.

Ti abbraccio fortissimo cara Silvia, il mio cuore e la mia cultura sono a tua disposizione.»

***

Ora è bene che su questa vicenda cali il silenzio, che silvia ritrovi se stessa, riesamini ciò che le è accaduto, viva lontano dai riflettori: se poi tra un po’ di tempo vorrà davvero esser musulmana, sarà una scelta sua,non un’imposizione di chi l’ha rapita.

Noi invece dovremmo ripensare fin in fondo in che mondo stiamo vivendo e in quale vorremmo vivere: ad esempio, ci va bene di respirare tutto questo odio? Non sentiamo che questa logica degli uni contro gli altri ci acceca e non ci fa capire la complessità in cui siamo immersi? E soprattutto non crediamo, soprattutto dopo l’esperienza della pandemia, che o ci salviamo tutti insieme, a prescindere dalla nostra origine geografica, o affondiamo tutti insieme?

PIER LUIGI GIACOMONI

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