EDITORIALE. PRESIDENZIALISMO, PREMIERATO, CANCELLIERATO
(7 Novembre 2023)
ROMA. Presidenzialismo, premierato, cancellierato… attorno a queste tre parole magiche ruota l’eterno dibattito italiano sulla forma di governo.
L’attuale regime voluto dalla Costituzione del 1948 ha provocato una forte instabilità governativa: dalla proclamazione della Repubblica si son succeduti 68 governi e una trentina di presidenti del Consiglio.
Altrove, invece la longevità degli esecutivi è stata maggiore, ma non dappertutto.
In Germania Federale, dopo l’amara esperienza della Repubblica di Weimar, dove i governi duravan poco ed anche i parlamenti venivan sciolti frequentemente, il sistema creato con la “legge fondamentale” (1949) ha garantito finora 9 cancellieri e solo tre elezioni anticipate.
Nel Regno Unito, sempre dal 1945 ad oggi, vi son stati 17 primi ministri e 21 elezioni generali. Tuttavia, nel 2022 Liz Truss rimase al N. 10 di Downing Street dal 6 settembre al 25 ottobre e negli ultimi 7 anni si son succeduti 4 premier.
In Spagna, dalla restaurazione democratica (1975) si sono avuti 8 premier e 15 elezioni generali: negli ultimi otto anni vi son state quattro consultazioni a distanza ravvicinata e mentre scriviamo non è ancora sicuro che non si voti di nuovo a gennaio 2024.
In Francia, dopo il varo della costituzione della quarta repubblica (1946), vi furono 21 governi in dodici anni, finché nel ’58,nel momento più acuto della crisi causata dalla guerra d’Algeria, Charles de Gaulle impose in tre mesi una costituzione che trasformava il paese in una repubblica semipresidenziale. Da allora Parigi ha ritrovato la stabilità politica agognata e ha fatto la pace con gli algerini.
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LA RIFORMA MELONI
In questi giorni, il governo Meloni ha varato una riforma della seconda parte della Costituzione che mira a modificarne 5 articoli per istituire il premierato elettivo.
In pratica, se il testo di legge che ora affronterà il complesso esame delle camere secondo quanto disposto dall’art. 138, con le prossime elezioni saremo chiamati ad elegger non solo il Parlamento, ma anche il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Il candidato che otterrà il maggior numero di voti sarà incaricato dal Presidente della Repubblica di formare il nuovo governo.
Alla coalizione che sosterrà il vincitore sarà assegnato il 55% dei seggi (220 su 400 alla camera, 110 su 200 al senato).
Se durante la legislatura il governo dovesse presentare le dimissioni, al Capo dello Stato è data facoltà di reincaricare l’uscente o nominare un altro parlamentare a condizione che questi s’impegni a realizzare il programma proposto dal suo predecessore. Si tratta della cosiddetta norma antiribaltone.
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PUNTI CRITICI
A nostro modestissimo avviso questo modello di premierato non risolve alcuni dei problemi più gravi del nostro assetto istituzionale e presenta diversi punti critici.
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1. BICAMERALISMO PARITARIO
In quasi tutti i paesi a democrazia parlamentare le due camere han prerogative e compiti diversi, in Italia, come sappiamo non è così. La riforma Meloni non realizza l’obiettivo d’un bicameralismo complementare, assegnando ad esempio alla Camera dei Deputati il ruolo di vero motore politico del paese ed al Senato il compito di rappresentanza delle regioni (come era nel progetto Renzi caduto nel 2016).
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2. IL PREMIER NON E’ UN PRIMO MINISTRO
Anche se i media, per esigenze di brevità, definiscono il Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, Primo ministro o Premier, in realtà la sua funzione ora ed anche in futuro sarà quella d’un primus inter pares all’interno del gabinetto.
Anche il futuro capo del governo eletto a suffragio universale non potrà esonerare un ministro non all’altezza dei compiti assegnati o coinvolto in uno scandalo e non potrà proporre al Capo dello Stato di congedare le camere di fronte ad una grave crisi in seno alla maggioranza.
A livello locale, invece, se un sindaco o un presidente di regione sono sfiduciati dal rispettivo consiglio, o se la metà più uno dei consiglieri si dimette, si scioglie tutto e si va ad elezioni anticipate.
Non solo, un qualunque sindaco o presidente regionale può sciogliere la giunta e vararne un’altra: è già accaduto in Puglia ai tempi di Nicola Vendola e in Sicilia con Rosario Crocetta.
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3. IL SECONDO E’ PIU’ FORTE DEL PRIMO
Nella proposta governativa si stabilisce che se il premier eletto cade può esserne nominato un altro, a condizione che:
1. sia un parlamentare della maggioranza del momento;
2. prometta di realizzare il programma annunciato in campagna elettorale.
Se anche questo ministero cade si va alle elezioni.
Facciamo allora l’ipotesi che il primo PCM eletto trionfalmente, dopo un anno sia costretto a dimettersi;
lo sostituisce un altro che, dopo un altro anno, cade vittima delle congiure ordite da qualcuno nella maggioranza.
A quel punto il secondo premier di legislatura è più forte del primo perché ha in tasca la “pistola fumante” delle elezioni anticipate.
Anzi, potrebbe persino convenir ad uno che nutre l’ambizione d’esser premier, causare la caduta del primo ministero al fine di formar il secondo.
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4. PERCHE’ LA FIDUCIA?
Nel progetto di legge che porta la firma del ministro per le riforme Maria Elisabetta Alberti Casellati, già presidente del Senato, si prevede che il governo, una volta nominato, si presenti alle camere per ottenere la fiducia.
Questa norma appare illogica: se sei stato eletto dal popolo ed hai una maggioranza del 55% dei seggi perché devi avere anche la fiducia?
A livello locale non è così: i sindaci o i presidenti regionali una volta eletti giurano e formano la giunta.
Semmai, nel corso della legislatura, ove emergessero gravissimi dissensi all’interno della maggioranza l’opposizione potrà presentare una mozione di sfiducia.
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POCO CORAGGIO
In conclusione, ci pare che il governo abbia dimostrato poco coraggio nel predisporre questa riforma: al momento della sua costituzione e presentazione alle Camere l’esecutivo Meloni aveva annunciato che avrebbe proposto una riforma costituzionale in senso semipresidenziale, secondo il modello francese.
Poi son passati i mesi, il governo non si è sempre dimostrato all’altezza della situazione, son emersi alcuni scandali e scandaletti, mentre giganteggiava la figura del Presidente della Repubblica.
Ora è arrivato questo progetto di legge costituzionale in cui sembra esserci più il non detto che l’apertamente dichiarato: il non detto, è il ridimensionamento delle prerogative del Capo dello Stato, che vien trasformato in un notaio senza alcuna possibilità d’intervento, soprattutto quando la crisi delle istituzioni si fa dura e c’è bisogno d’un atto che eviti cortocircuiti istituzionali.
Un Presidente così indebolito da non poter nemmeno nominare i senatori a vita o esser impedito di sceglier un PCM esterno all’élite parlamentare, nel caso in cui le circostanze lo richiedano.
Insomma, invece del semipresidenzialismo alla francese avremmo una repubblica con al vertice uno che può solo firmare o andarsene.
Se Meloni e i suoi avessero avuto il coraggio di proporre una repubblica semipresidenziale alla francese avrebbero dimostrato molto più coraggio.
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MAI PIU’ TECNICI
Nel presentare la “riforma” alla stampa la premier ha detto che non vi saranno più in futuro governi tecnici, eppure:
1. anche i governi tecnici sono politici perché per andar avanti han bisogno della fiducia parlamentare;
2. son stati proprio i tecnici a realizzare quelle riforme che i partiti non volevan fare perché avrebbe significato perder dei voti, come quella delle pensioni del 2011.
Inoltre, è stato un governo semitecnico, come quello presieduto da Mario Draghi, ad ottenere 209 miliardi di finanziamenti dall’UE molto utili per l’economia italiana dopo il terribile triennio della pandemia.
purtroppo, il vento della demagogia soffia ancora troppo forte, mentre i politici quando parlan al pubblico pensan d’essere dei tribuni della plebe, anche se occupan incarichi dirigenziali.
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GRANDE DEBOLEZZA
Se passerà questa pseudoriforma istituzionale, frutto della grande debolezza di questo ceto politico, non avremo la stabilità che invano cerchiamo, ma forse ancora più instabilità, perché proprio la leggina Casellati mette nelle mani dei possibili futuri congiurati il “pugnale” per colpire alla schiena il Presidente del Consiglio dei Ministri eletto dal popolo ed acclamato con le fanfare.
Anche le opposizioni però mostran debolezza: finora han semplicemente detto che non va bene, dimostrando di sperare che sia il popolo, quando il disegno di legge gli verrà sottoposto, a dir di no, come fece nel 2006 e nel ’16.
E se la maggioranza dei votanti dicesse di sì, malgrado tutti gli ammonimenti?
La conseguenza sarebbe aver adottato un modello istituzionale che non garantisce quella governabilità che vien promessa.
Non sarebbe meglio se le opposizioni formulassero un progetto alternativo capace magari d’esser accettato anche da una parte della maggioranza attuale?
Non ci sembra che la coalizione di destra che appoggia il gabinetto Meloni sia così solida e infrangibile!
Finora la sinistra sembra più interessata a difendere l’esistente, anche se per decenni ha fatto convegni, scritto libri e documenti in cui s’immaginava di “riformare lo Stato”.
Per ora parlan solo gli oltranzisti: quelli che difendon lo status quo. Eppure, una volta la sinistra voleva cambiar il mondo, oggi è la vestale dell’immobilismo, del “la costituzione non si tocca”, del “va tutto bene, madama la marchesa”.
Forse è per questo che da tempo non vince e non riesce a proporre un progetto veramente innovativo.
PIER LUIGI GIACOMONI