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EDITORIALE.

IL CONGRESSO DEL PD: L’OSSESSIONE RENZIANA E IL VUOTO PROGRAMMATICO
(26 Febbraio 2023)

ROMA. Con l’elezione diretta da parte di iscritti e simpatizzanti si compie l’atto finale del “congresso nazionale” del partito Democratico.

Il 26 febbraio, dalle 8 alle 20 in oltre 5.000 seggi autogestiti in tutta Italia chi vuole può eleggere direttamente col proprio voto a scrutinio libero, diretto e segreto il nuovo Segretario Nazionale del principale partito d’opposizione.

Hanno diritto di votare, pagando due euro, non solo gl’iscritti, ma anche gli elettori che pur non avendo la tessera ritengono di dover dare un proprio contributo. Possono votare anche i ragazzi dai 16 anni in su, gli stranieri con regolare permesso di soggiorno e gli studenti fuori sede che non devono a differenza delle elezioni normali rientrare nel loro comune di residenza.

Questa metodologia di designazione del leader nazionale fu ideata nei primi anni duemila dopo che era entrato in crisi il modello tradizionale di partito costruito su una base più o meno solida di sezioni locali, strutture provinciali, regionali e dirigenza nazionale.

Una volta, i congressi erano sostanzialmente l’assemblea dei delegati che periodicamente (ogni tre-quattro anni) si riuniva in una località prescelta al termine d’un processo di selezione che iniziava dal livello più basso e si concludeva con l’assise finale. al termine di alcune giornate di discussione si procedeva all’elezione o degli organi dirigenti o del segretario politico.

Tra un congresso e l’altro i partiti erano gestiti da una congerie di organismi che comprendevano una giunta ristretta, un parlamentino più numeroso, il tutto coordinato da un apparato amministrativo che gestiva il giorno per giorno.

Alla fine del Novecento però questo modello di partito è entrato definitivamente in crisi e sono nate nuove formazioni politiche: o il partito personale, guidato da un leader carismatico, o una forza politica plurale nella quale il leader era eletto appunto a suffragio universale.

«Questa consultazione “aperta”, – scrive la politologa Sofia Ventura[1] – non limitata agli iscritti, è impropriamente chiamata “primaria”. Infatti, le primarie presuppongono delle “secondarie” e, dunque, il termine sarebbe da riservare a elezioni per scegliere il candidato a cariche elettive. Il Partito democratico ha tenuto primarie vere e proprie solo nel 2012, per la scelta del “candidato premier” della coalizione di centrosinistra.»

Le primarie, aggiungiamo noi, furono introdotte negli Stati Uniti per designare i candidati democratici e repubblicani alle diverse cariche elettive, dal Presidente, ai congressisti, dai governatori di Stato ai procuratori distrettuali, dai giudici, agli sceriffi di contea.

In molti Stati americani possono partecipare alle primarie sono gli iscritti ai partiti, in altri anche gli elettori indipendenti, ma si ttratta di porzioni piccole di elettorato.

In vincitore delle primarie, generalmente con l’appoggio di tutto il suo partito, ma possono avvenire imboscate, affronta il rivale arrivato primo nelle analoghe primarie tenutesi nell’altro partito.

Il modello delle primarie è stato introdotto anche in altri Paesi a regime presidenziale come in Sud America ed elezioni dirette del segretario generale avvengono anche in Spagna o Francia.

Nel caso del voto del 26 Febbraio il vincitore non avrà verosimilmente davanti a sé una competizione elettorale da affrontare, ma lunghi anni d’opposizione dal momento che dal 22 Ottobre 2022 è in carica un governo che ha i numeri per andare avanti fin al termine della legislatura.

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TORMENTATA STORIA

Qui sorge il primo problema: dalla “fusione a freddo” come Arturo Parisi chiamò la costituzione del PD che allora comprendeva gli aderenti ai Democratici di Sinistra (DS) e quelli della Margherita (DL) si sono succeduti nove segretari per una durata media di due anni circa per ciascuno.

Qualcuno di essi si è dimesso polemicamente col partito, qualcun altro se l’è presa con le correnti e sottocorrenti che sottraggono forza politica al segretario. Poi vi sono stati i traghettatori, uomini cioè incaricati di dirigere il PD per un mandato temporalmente ristretto. Su tutto ciò ha avuto buon gioco la propaganda di destra a dipingere il PD come un partito diviso ed in perenne lotta al suo interno.

Se all’inizio della sua storia il Partito Democratico aveva l’ambizione d’unire sotto un’unica bandiera politica diverse culture, quelle che si erano date battaglia nel Novecento, negli ultimi anni è maturato il progetto di trasformarlo in un vero partito di sinistra: tale linea è stata incoraggiata dagli ultimi segretari nazionali che non hanno impedito l’emarginazione della componente riformista: si ripropone in codesto modo l’antica lotta tra massimalisti e riformisti che già dilaniò il Partito Socialista un secolo fa e i cui esiti hanno favorito l’avvento del fascismo.

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L’INCUBO RENZI

«Alla fine di una estenuante e non tonicissima corsa alla segreteria del Pd – scrive acutamente Mattia Feltri[2] – si può dire che il cuore del dibattito è stato Matteo Renzi: quanto rimane di renzismo nei candidati, quanto furono compromessi col renzismo, quanto collaborarono col renzismo, quanto renzismo resta da far fuori e così via. Dentro il più autorevole partito della sinistra, il renzismo ha preso il posto del berlusconismo come categoria del male, probabilmente per la tendenza a dire chi non si è, non sapendo dire chi si è. Il problema è che Renzi non è stato un gerarca nazista o un liberista del Britannia, ma il segretario. Il loro segretario. Fu eletto nel dicembre del 2013 dopo essere arrivato primo sia nel voto degli iscritti sia nel voto degli elettori. Due mesi dopo, febbraio 2014, convocò una direzione per sfiduciare Enrico Letta, presidente del Consiglio, e prendere il suo posto. Votarono a favore della mozione di Renzi in centotrentasei, sedici i contrari, due gli astenuti. Così, a occhio, un partito piuttosto compatto, e compattamente renziano. Nel 2017, dopo aver perso il referendum e lasciato Palazzo Chigi, Renzi si ricandidò alla segreteria, rivinse nel voto degli iscritti, rivinse nel voto degli elettori, e in entrambi i casi col settanta per cento delle preferenze. Di nuovo a occhio, fra chi lo ha votato o sostenuto la prima volta, chi la seconda, chi nella direzione del letticidio, chi ha incassato incarichi di governo, parlamentari, ruoli nel partito, candidature ed eurocandidature, ne saranno rimasti forse due o tre autorizzati a dirsi non renziani. E l’allucinazione collettiva non mi sembra tanto di allora, ma di oggi.»

Se i precedenti hanno un valore, questo antirenzismo è solo di buon auspicio per Renzi e le sue idee: l’antiberlusconismo, infatti, non ha impedito all’uomo di Arcore d’essere il deus ex machina della politica italiana per un ventennio abbondante ed ancora oggi conta qualcosa in un governo in cui sono presenti dei suoi ministri.

Non solo, lo stesso PD ha in diverse occasioni governato con Forza Italia, il partito personale del Cavaliere,o suoi transfughi (2013-2018).

E allora torna buona la puntuta affermazione pronunciata da Feltri: nel PD c’è «la tendenza a dire chi non si è» che nasconde l’incapacità a «dire chi si è».

Se prima del congresso del 2007 si erano stesi documenti importanti tra cui la “carta dei valori” scritta da intellettuali di valore come Alfredo Reichlin e Pietro Scoppola, durante questa campagna congressuale si è cercato di costruire una confusa “fase costituente”, o ricostituente, gestita, si fa per dire, da 87 saggi che alla fine hanno prodotto un documento che nei fatti contraddice quello del 2007, rinnegando la politica seguita dal PD come forza di governo negli ultimi dieci anni.

E’ chiaro: essere all’opposizione ti dà la libertà di dire qualunque cosa, fare anche promesse mirabolanti che sai in partenza che non potrai mantenere quando, e se, un giorno andrai al governo, ma ciò che è scaturito da questo “congresso” è quasi il nulla: si dice ciò che non si è, ma non si ha il coraggio di dire, prima di tutto a se stessi, cosa si è.

E questa è una pesante ipoteca per chiunque diventi segretario, ammesso e non concesso che duri abbastanza per contendere all’attuale Premier Palazzo Chigi.

PIER LUIGI GIACOMONI

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NOTE:

[1] S. Ventura, Il popolo Pd e la prova dei gazebo. Ma le primarie non sono la salvezza, quotidiano Nazionale, 26 Febbraio 2023;
[2] M. Feltri, I polli di Renzi, La Stampa, 25 Febbraio 2023.

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