DECLINA IL NAZIONALPOPULISMO, C’E’ BISOGNO D’UNA DESTRA COSTITUZIONALE E MODERATA
(11 Gennaio 2021)
Washington (D. C.). Il declino del nazionalpopulismo incarnato principalmente dalla figura di donald J. Trump che sta per uscir di scena, apre la questione da molto tempo elusa della necessità per le democrazie rappresentative moderne d’una destra costituzionale e moderata che si emancipi dagli estremismi.
L’attacco al Congresso degli Stati Uniti avvenuto il 6 Gennaio ha svelato quali rischi corra un sistema democratico basato sulla rappresentanza qualora l’egemonia sia assunta dalle frange più radicali ed irresponsabili della società.
E’ una sfida che attende non solo la politica americana, ma anche quella europea.
***
I FATTI.
Come narra the Atlantic «Decine di migliaia di sostenitori di Donald Trump si sono riuniti a Washington dove il presidente uscente li ha incoraggiati a partecipare a una manifestazione durante la seduta del congresso in cui veniva ratificata la vittoria di Joe Biden. […] i manifestanti hanno sopraffatto le forze di sicurezza del campidoglio, che sembravano impreparate all’assalto. Hanno abbattuto barricate, superato cordoni di ufficiali e rotto finestre. Alcuni portavano bandiere confederate mentre si avvicinavano al cuore del governo degli Stati Uniti più di quanto non abbiano mai fatto le stesse truppe confederate.»[1]
Più in dettaglio: il 6 Gennaio 2021, il 117o Congresso degli Stati Uniti è convocato all’una pomeridiana (ora di Washington) per ratificare, a norma della Costituzione, i verbali provenienti dai 50 Stati che certificano l’elezione dei candidati democratici alla Casa Bianca.
Normalmente, questo passaggio è di routine ed impegna i parlamentari per un paio d’ore, ma stavolta è diverso.
Per due mesi, Donald J. Trump si rifiuta di riconoscere il risultato delle elezioni del 3 Novembre 2020: non lo fa nemmeno dopo che il 14 Dicembre i 538 Grandi Elettori confermano l’esito dello scrutinio popolare. Nelle settimane successive preme sulle autorità degli Stati dove ha perso con più stretto margine, affinché mutino a suo favore il risultato elettorale, in modo da trasformare la sconfitta in vittoria.
Il 2 Gennaio, rivela il Washington Post, telefona al Segretario di Stato della Georgia per convincerlo a trovargli 11.780 voti che avrebbero sancito il suo successo in quello Stato. Il politico locale, pur essendo repubblicano come il Presidente si rifiuta.
Il 6 gennaio, alle 11 del mattino il Capo della Casa Bianca si presenta davanti a migliaia di supporter e li incita a marciare sul Congresso: «Cammineremo – proclama – fino al Campidoglio, e appoggeremo i nostri coraggiosi senatori e deputati. Non potremo mai riprenderci il nostro Paese con la debolezza, dobbiamo mostrare la forza e voi dovete essere forti». Nonostante prometta di unirsi a loro, poi, Trump torna alla Casa Bianca nel suo SUV e segue gli eventi in tv.
Quelli, incoraggiati da una polizia scarsa ed in parte complice (è in corso un’inchiesta giudiziaria che accerti eventuali connivenze), penetrano nel palazzo e devastano tutto ciò che trovano sul loro cammino.
Il Presidente, mentre gli scontri durano già da ore, registra un video messaggio su Twitter. Dopo aver ripetuto le accuse di brogli alle elezioni, invita i ribelli che definisce «patrioti» a tornare a casa in pace.
«Bisogna – dice – rispettare la legge e l’ordine».
Cade inascoltato l’appello di Joe Biden che in un breve intervento televisivo invita il Capo dello Stato a comparire sugli schermi per fermare l’assalto al Congresso.
Ristabilita una calma relativa, mediante l’invio sulla scena dei disordini della Guardia nazionale, deciso dal Pentagono su richiesta del vice Presidente Mike Pence, nella notte, il legislativo riconosce la vittoria della coppia Biden-Harris, ma 120 deputati e 8 senatori irriducibili sollevano continue obiezioni sui voti espressi negli stati decisivi della pennsylvania, Arizona e Georgia, rallentando i lavori.
***
LA SINDROME DEL DECLINO.
Da almeno ottant’anni, gli Stati Uniti si sono abituati ad esser il Paese guida del mondo: se prima della Seconda Guerra Mondiale a Washington prevale l’ideologia isolazionista, in base alla quale all’America non interessa ciò che accade nel resto del mondo, dopo l’attacco di Pearl Harbour (7 dicembre 1941) da parte dell’aviazione giapponese, il Paese entra nel conflitto generale a fianco di Gran Bretagna e URSS.
Vinto lo scontro su Germania nazista e Giappone militarista, Washington diviene, insieme a Mosca, una delle due superpotenze globali.
L’egemonia della civiltà americana si concretizza tanto in campo politico e militare, quanto sul terreno economico e culturale: quando a fine anni ottanta del Novecento crolla l’impero sovietico, il predominio a Stelle e Strisce è globale, totalizzante, al punto che, secondo Francis Fukuyama, la storia finisce, perché tutto il mondo abbraccia la democrazia liberale e l’economia di mercato.
L’illusione, come si sa sarebbe durata poco perchè presto sarebbero comparsi sulla scena due nuovi nemici: l’integralismo islamico e la Cina Popolare.
L’anno fondamentale è il 2001:
• L’11 Settembre, tre aerei, dirottati da estremisti islamici, si abbattono sulle Twing Towers di New York e sul Pentagono di Washington: il molteplice attentato dimostra che anche l’America, che forse si riteneva immune, può sfuggire alla minaccia d’un terrorismo che sta investendo vaste aree del mondo;
• La Repubblica Popolare cinese, economia emergente dopo che Deng HsiaoPing ha cambiato i paradigmi ideologici del comunismo pauperista di Mao, incoraggiando i cinesi ad arricchirsi senza freni, è ammessa nell’Organizzazione Mondiale del commercio (WTO): ciò fa di Pechino uno degli attori fondamentali dell’economia mondiale e la pone in antitesi col modello americano.
Questi eventi d’importanza epocale, convincono Washington a mantenere intatto il proprio abnorme apparato di sicurezza che divora centinaia di miliardi di dollari l’anno: le guerre simultanee in Afghanistan ed Iraq, risoltesi in un duplice fallimento, l’ascesa economica dei paesi emergenti che approfittano dei vantaggi offerti dalla globalizzazione e lo scoppio della bolla speculativa dell’edilizia, che nel 2008 conduce al fallimento Lehman Brothers, innescano una crisi economica che comporta il progressivo impoverimento del ceto medio, vera spina dorsale delle moderne società industrializzate e diffonde la sindrome del declino del modello americano.
L’interconnessione fra paesi diversi mette a nudo le estreme divisioni politiche, razziali, economiche e sociali che dilaniano gli Stati Uniti e in certa misura anche le Nazioni collegate, come l’europa. Non va dimenticato, infatti, che i primi anni del secondo decennio del XXI secolo segnano anche il momento più critico della storia dell’Unione europea, col rischio che l’edificio comunitario, faticosamente costruito in decenni di cooperazione sprofondi nell’autodistruzione.
Evapora, quindi, sotto i colpi della crisi che morde, l’entusiasmo per la globalizzazione, milioni di persone si sentono escluse, emarginate dai suoi benefici, crescono le ansie sul futuro in un mondo sempre più disuguale, affollato ed inquinante.
Qualcuno rapidamente individua i capri espiatori: la Cina, gli immigrati, l’eccessiva apertura delle frontiere… In una parola alla politica è chiesta più protezione dalle minacce che vengon da fuori.
Mentre la sinistra mondiale balbetta e non sa bene che pesci pigliare, ci vorranno Papa Francesco e Greta Thunberg per ridare qualche prospettiva di lungo periodo ad un’area ideologica priva d’idee, di queste ansie si fa interprete a modo suo Trump nella campagna elettorale del 2016 aggiudicandosi a sorpresa tanto la nomination repubblicana, quanto la Casa Bianca.
Per quattro anni, il Presidente è divisivo: bianchi contro neri, poveri contro ricchi, americani contro immigrati. anche sulla scena internazionale la sua condotta approfondisce le divergenze: incoraggia la Brexit, si schiera senza se e senza ma per Israele contro palestinesi e Iraniani, eleva dazi contro le merci dei rivali degli USA, pretende la rinegoziazione del NAFTA perché dice favorisce messicani e canadesi, dimenticandosi che le imprese nordamericane delocalizzano nel vicino meridionale le proprie produzioni per superare i vincoli ecologici imposti a nord del rio Grande, risparmiare sul costo del lavoro e far più profitti, rendendo contenti gli azionisti di wall Street.
Vezzeggia i dittatori, criminalizza i musulmani impedendo loro l’accesso negli aeroporti statunitensi, isola i figli degli immigrati centramericani, incoraggia la polizia a sparare sui dimostranti che protestano contro gli omicidi commessi dagli agenti contro i neri, spende denaro per costruire un muro sul confine col Messico.
Il Medio Oriente e l’Africa, inoltre, divengono le “polveriere del mondo” dove divampano conflitti irrisolvibili in siria, Yemen e Libia, per non parlar del sahel e del Corno d’Africa. Tutta colpa di Trump? in un certo senso sì, perché il nazionalismo americano da lui alimentato, con la sua retorica, fomenta quello degli altri, come le mire espansionistiche della Turchia o della Russia o di altri attori presenti sulla scena internazionale.
***
FALLIMENTO DEL NAZIONALPOPULISMO.
L’assalto al Congresso di Washington che qualcuno ha definito l’evento più vicino ad un colpo di Stato che gli USA abbiano mai conosciuto è fallito e si sta tramutando col passare dei giorni in un passo falso:
«L’epilogo shakespeariano dell’avventura presidenziale di Donald Trump rappresenta – scrive Beppe Severgnini – la fine di un esperimento: quello del populismo aggressivo, condito di negazionismo e ossessioni.»
rimane un problema politico grosso come una casa sia in America, sia in Europa: il quadriennio nazionalradicale, come lo definisce Mario Del Pero, ha aperto un vuoto: quello di una destra liberalconservatrice, moderata,costituzionale che raccolga il consenso della borghesia e di quel ceto medio che non s’identifica con la sinistra.
Negli Stati Uniti, il partito Repubblicano è stato progressivamente colonizzato dall’estrema destra: nelle sue memorie Barack Obama[2] ricorda che fino ad un certo punto era possibile per democratici e repubblicani stipulare degli accordi bipartisan o varare norme condivise nell’interesse del Paese. nell’ultimo decennio lo scontro tra i due partiti è divenuto frontale e gli avversari son diventati nemici.
La stessa cosa è accaduta in diverse nazioni europee: i conservatori britannici sono stati colonizzati dai brexiteers, in Francia il Fronte nazionale ha guadagnato terreno a spese dei Repubblicani, Alternative für Deutschland condiziona da destra la politica della CDU-CSU in Germania, specialmente nei Länder orientali, dove ha largo seguito.
In Italia, fin dal suo esordio, il trumpismo ha fatto proseliti, come dimostra il disagio con cui la destra nostrana ha preso commiato dal leader nordamericano ed ha valutato i fatti di washington: dopo la sua elezione Lega e Fratelli d’Italia, per non parlare di fette consistenti del Movimento 5 Stelle hanno vagheggiato l’Italexit, l’abbandono dell’Euro, il ripristino della Lira in chiave antitedesca ed eurofobica.
Non solo, rimane ancora forte una destra pericolosamente antisistema, con venature razziste, pericolosamente nazionalista.
Eppure, osserva sul Corriere Antonio Polito[3] «La democrazia rappresentativa ha bisogno di una destra moderata, conservatrice, costituzionale. Per difendersi dall’attacco dell’estremismo populista, la democrazia ha bisogno di una forza liberale di massa che l’avvolga e lo contenga, fondata sugli interessi e la cultura della borghesia.
Ci sono cause concrete, economiche e culturali, che allontanano masse di «forgotten men», in Arizona come nella Germania orientale o nel Nord dell’Inghilterra, dalla democrazia, e la fanno apparire ingannevole e deludente.»
La spinta e la rabbia dell’ondata populista non si possono domare – conclude l’editorialista solo coi bei discorsi: occorre che le forze democratiche aggiornino la loro offerta programmatica.
Allo stesso modo, secondo noi, una democrazia matura ha necessità d’una sinistra democratica, moderata e riformista che sia in grado di proporre programmi realizzabili, emarginando il populismo che anche da questo lato della barricata ha avuto molti, troppi consensi.
Di questo aspetto della questione democratica che investe le società moderne e tecnologicamente avanzate torneremo a parlare molto presto in questo blog.
PIER LUIGI GIACOMONI
***
NOTE:
[1] Truppe confederate: erano i soldati della Confederazione degli Stati americani (CSA), ossia quella parte del paese che si distaccò dall’Unione nel 1861 dopo l’elezione di Abraham Lincoln.
Capeggiate dal generale Robert lee daranno del filo da torcere alle milizie unioniste fino all’aprile 1865, quando lo scisma sarà superato.
[2] Ho trovato particolarmente illuminanti le considerazioni sull’evoluzione storica del partito repubblicano sviluppate da Barack Obama, Presidente statunitense dal 2009 al 2017 nel suo libro “Una terra promessa”, garzanti, Milano 2020.
In molte pagine, Obama chiarisce che se in un lontano passato era possibile per democratici e repubblicani raggiungere accordi bipartisan, negli ultimi anni la distanza fra le due formazioni politiche è aumentata fin a trasformare la normale dialettica elettorale tra partiti diversi in un continuo “giudizio di Dio”, anche per l’influsso esercitato da certe sètte cristiane evangeliche oltre che da ideologie complottiste diffuse da vari media vecchi e nuovi.
[3] Antonio Polito, oltre che sulle colonne del Corriere, ha sviluppato le tesi sopracitate anche nel libro “In fondo a destra
Cent’anni di fallimenti politici”, RCS Libri, Milano 2013.
Polito, in sintesi, afferma che è grave che in una democrazia matura, come quella italiana, ma il discorso si può agevolmente allargare anche ad altre Nazioni, manchi una destra moderata costituzionale che si ponga a garanzia degli interessi della borghesia e che sia anche una alternativa praticabile per chi, deluso dalla sinistra, voglia cambiare voto, senza per questo metter in discussione il sistema democratico e l’assetto costituzionale.
Trovo queste tesi convincenti, perché credo che le democrazie moderne debban vivere sull’alternanza al potere di forze diverse evitando continui scossoni alla struttura istituzionale, un po’ come avviene, fin ad ora senza traumi da decenni, nei Paesi anglosassoni.
Fra l’altro, proprio l’alternanza è l’antidoto più sicuro alla corruzione che diviene sistemica, quando un partito diventa prevalente per decenni.
(si vedano a questo proposito, a titolo esemplificativo, i casi della DC in italia e del PLD in Giappone: entrambi i partiti sono stati a lungo sempre al potere, alimentando un clientelismo che presto si è trasformato in pratiche corruttive più volte denunciate).
PLG