DAL DAHOMEY AL BENIN
(13 Maggio 2020)
PORTO-NOVO. L’odierno Benin è uno degli Stati africani che dopo l’indipendenza cambia nome: quando il 1° Agosto 1960 diventa uno Stato sovrano, infatti, si chiama Repubblica del Dahomey. Poi negli anni settanta il Presidente mathieu Kérékou impone il cambiamento del nome che tuttora porta.
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IL REGNO DEL DAHOMEY.
Il Dahomey è un regno africano situato nel territorio dell’attuale Benin: dura dal 1600 circa fin al 1904: la sua superficie si estende sull’altopiano di Abomey e diviene una potenza regionale nel XVIII secolo, conquistando le città chiave sulla costa atlantica poste sul golfo di Guinea.
Per gran parte dei secoli XVIII e XIX, il regno è uno dei luoghi dove è più fiorente la tratta degli schiavi: il re rifornisce i trafficanti europei di quasi il 20% di coloro che sono trapiantati nelle americhe a coltivare nelle piantagioni.
Amministrazione centralizzata, efficiente sistema fiscale, esercito organizzato, questi i punti di forza dello Stato nell’era precoloniale.:
Nel 1894, però, la Francia mette le mani sul paese nell’ambito d’un più vasto programma espansionistico: trasforma il territorio in una colonia, integrandolo nell’Africa Occidentale Francese (AOF).
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LA COLONIZZAZIONE.
Con la colonizzazione, il regno autonomo cessa d’esistere: il territorio è suddiviso in circoli diretti da amministratori francesi e cantoni assegnati a capi locali di cui la francia si fida.
Durante la prima guerra mondiale (1914-18), però scoppiano disordini nel Nord: la potenza coloniale vuole che i giovani dahomeesi facciano il servizio militare e partecipino al conflitto in europa.
La gente si oppone alla coscrizione obbligatoria sia perché sottrae manodopera contadina, sia perché la guerra europea non è sentita dalle popolazioni autoctone, che vivono la misura come un sopruso.
Terminato il conflitto, il territorio è riorganizzato: i mezzi di comunicazione sono maggiormente sviluppati, la produzione agricola riparte, la scolarizzazione aumenta.
Sotto l’influsso da un lato di missionari sia cattolici che protestanti, e dall’altro d’insegnanti laici, viene messo in piedi un sistema organizzato di scuole primarie e secondarie: in breve tempo una fetta importante della popolazione è istruita e può esser inserita nell’amministrazione dell’AOF: funzionari dahomeesi vengono trasferiti anche in altre parti del territorio coloniale per migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione.
Il dahomey è allora definito il “quartiere latino” dell’Africa.
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LA CONFERENZA DI BRAZZAVILLE.
L’8 Febbraio 1944 termina a Brazzaville una conferenza alla quale partecipano 18 governatori e governatori generali dell’Africa occidentale francese, dell’africa Equatoriale e della Costa francese dei Somali, del Madagascar e della Réunion: insomma, tutti i massimi funzionari dell’apparato amministrativo francese in Africa.
Prima de Gaulle e i suoi hanno fatto in modo di sostituire gli emissari di vichy con personale fedele alla Resistenza che nella Metropoli si sta battendo per liberarla dalla dominazione nazista e dal Governo collaborazionista.
Sotto la presidenza di René Pleven, commissario alle Colonie del Comitato francese della Liberazione nazionale (CNLF): viene stilato un progetto di massima di statuto dell’Africa francese da mettere in atto dopo la guerra.
L’idea di fondo è quella d’agganciare i possedimenti africani alla Metropoli e permettere agli africani d’eleggere propri rappresentanti al futuro parlamento di Parigi: in altri termini di trasformarli in veri e propri francesi.
Inoltre, passa l’idea d’abbandonare il regime d’eccezione cui i territori son sottoposti ed abolire il codice dell’indigenato che separa l’autoctono dal colono francese.
«L’assimilation – scrive la storica Anna Maria Gentili – venne ribadita come cardine della politica francese dal generale de Gaulle […] nel quadro della solenne promessa di trasformare le relazioni di dipendenza coloniale in legami preferenziali di cooperazione politica, economica, culturale all’interno della “famiglia francese”. La promessa si concretizzò con la creazione dell’Union Française, con a capo il presidente della Repubblica francese. Strutturata in Haut Conseil de l’Union e Assemblea composta di 204 membri, di cui la metà rappresentanti la Francia e 40 scelti dalle Assemblee territoriali delle due confederazioni africane (AOF e AEF [NDR]), l’Assemblea aveva poteri consultivi. Venne inoltre allargata la rappresentanza di deputati africani nell’Assemblea nazionale francese: degli ottantatré deputati d’oltremare, trenta venivano dall’Algeria, dieci dai dipartimenti d’oltremare e quaranta da AOF e AEF. I territori erano anche rappresentati nel Conseil de la Republique. In ciascun territorio vennero istituite Assemblee territoriali (Assemblee rappresentative nell’AEF), con poteri consultivi, eletti da un corpo elettorale allargato, ma non ancora a tutti i sudditi coloniali.»[1]
Finita la guerra, instaurato a Parigi il governo provvisorio presieduto dal Generale Charles de Gaulle (1890 – 1970) tre decreti pubblicati tra agosto e settembre ’45, mettono in pratica le decisioni di Brazzaville e fissano le norme per la partecipazione degli africani alle elezioni per l’Assemblea costituente che sarà presto convocata.
I deputati saranno eletti con un sistema a doppio turno. Al Dahomey, che dal 1936 è fuso col vicino Togo, spettano due seggi: uno eletto dagli africani e l’altro dai bianchi.
Il 21 ottobre ’45 Sourou Migan Apithy, uno dei protagonisti della transizione all’indipendenza, leader dei comitati elettorali dahomeesi, vince senza difficoltà il seggio spettante agli africani, mentre per quello riservato ai bianchi occorrerà attendere il ballottaggio del 4 novembre.
Anche stavolta vince un candidato dei comitati elettorali, il Reverendo Francis Aupiais.
Fatte le elezioni, presto nei Comitati elettorali emergono le divisioni ideologiche: a Parigi Apithy s’iscrive al gruppo della Section Française de l’Internationale ouvrière (SFIO), i socialisti, mentre Aupiais aderisce al Mouvement républicain populaire (MRP), i democristiani.
La Costituente abolisce il lavoro forzato in Africa l’11 aprile 1946 (Legge Houphouët-Boigny), estende il codice penale metropolitano alle colonie (30 aprile) ed accorda il 7 maggio la cittadinanza francese «a tutti gli abitanti dei territori d’oltremare, indipendentemente dal loro statuto personale» (Legge Lamine Guèye).
Ma il referendum costituzionale del 5 maggio ’46 vede la prevalenza dei no: il primo progetto di costituzione della quarta Repubblica francese è respinto.
Alla votazione non sono ammessi gli africani, ma solo i bianchi.
Si deve quindi convocare una nuova costituente: il 2 giugno si torna alle urne e il Dahomey manda a Palais Bourbon gli stessi due deputati di prima.
In pochi mesi la nuova legge fondamentale è pronta ed il 13 ottobre è sottoposta all’approvazione del popolo.
Stavolta la maggioranza dei francesi dice sì, ma anche in quest’occasione non possono esprimersi gli africani.
«La Costituzione francese del 1946 – comenta Gentili – fu un compromesso fra tendenze assimilazioniste, poiché sancì l’eguaglianza individuale di tutti i cittadini francesi metropolitani e coloniali, e associazioniste, poiché promosse non la fine, ma la riformulazione del dominio coloniale che si concretizzò nel progetto federale del 1956 (legge quadro Defferre).»
In Africa, anche per effetto delle nuove leggi adottate nella madrepatria le strutture politiche s’organizzano ed emergono le prime separazioni ideologiche, frutto anche della nascente guerra fredda.
a livello generale, il 1946 è contrassegnato dal congresso costitutivo del Rassemblement Démocratique Africain (RDA) a Bamako (Sudan francese, oggi Mali).
Sourou Migan Apithy, Emile Derlin Zinsou e Louis Ignacio-Pinto formano la delegazione del Dahomey.
Apithy è eletto vice-presidente del nuovo partito e firma il manifesto, mentre Pinto è designato Presidente della Commissione di politica generale, ma Zinsou rifiuta d’assumere la carica di Segretario Generale, perché l’RDA ha invitato ai propri lavori congressuali il Partito Comunista Francese (PCF), unico tra i partiti metropolitani.
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Zinsou sa che la sua posizione è sostenuta dalla maggioranza dei membri del direttivo dei Comitati elettorali del Dahomey, ma l’importanza politica assunta da Apithy, in seguito alla sua rielezione all’Assemblea nazionale francese, impedisce a Zinsou d’avere la meglio.
Conseguenza: i Comitati elettorali perdono progressivamente il monopolio della scena politica dahomeese e nascono diversi partiti politici.
Il 7 dicembre nasce il Bloc populaire africain (BPA) guidato da Émile Poisson e Justin Ahomadegbé, mentre prima delle elezioni per il Consiglio generale, l’organo che dovrà gestire il Paese, i Comitati elettorali si trasformano in partito che prende il nome d’Unione progressista dahomeese (UPD).
Le elezioni sono vinte dall’UPD che ottiene la maggioranza dei seggi in palio.
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VERSO L’INDIPENDENZA (1946 – 1960).
gli anni successivi segnano un pericoloso aumento della frammentazione della scena politica dahomeese con la comparsa di diversi partiti, spesso frutto di scissioni e l’emersione di rivendicazioni regionaliste nel Nord che si sente discriminato dal Sud, dove hanno sede i centri di potere.
La Francia, uscita sconfitta dalla guerra d’Indocina è impegnata in Algeria dove si confrontano i coloni bianchi (detti “pieds noirs”) ed il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) che mira all’emancipazione della più antica colonia francese, occupata addirittura nel 1830 e inserita come parte integrante della Métropole.
La legge quadro, promossa dal ministro della Francia d’oltremare, il socialista Gaston Defferre, alla cui elaborazione aveva partecipato il leader politico più influente della Côte d’Ivoire, Felix Houphouët Boigny, deputato all’Assemblea nazionale di Parigi e fondatore del principale partito interterritoriale dell’AOF, il Rassemblement démocratique africain (RDA), mutò l’intera struttura coloniale, nel senso che smantellò il sistema centralizzato riconoscendo l’autonomia ai diversi territori che costituivano aof e aef. I legami che univano le colonie alla Francia si spostavano dalle grandi entità AOF e AEF, alle diverse unità territoriali.»
Non tutti apprezzano questa parcellizzazione dell’impero africano francese in diversi territori: alcuni avrebbero voluto che nascesse un superstato,altri che si tenesse in maggior conto la storia e la cultura dell’Africa (Négritude).
«La classe politica del Dahomey – commenta Gentili – con l’attuazione della legge quadro si divise su basi regionali, ciascuna delle quali andò a collegarsi a interessi francesi in competizione, col risultato che mancò una visione e un progetto di nazionalismo statuale.»
Uno degli effetti della «Loi quadre» è la convocazione il 28 settembre 1958 dei plebisciti per stabilire quale dev’essere il futuro delle colonie africane francesi: tutti, tranne la guinea scelgono di far parte della Comunauté Française.
Così, il 4 dicembre successivo è proclamata la Repubblica del Dahomey: Sourou Migan Apithy (1913 – 1989), leader del PRD, partito sostenuto soprattutto al Sud, diviene Presidente del Consiglio di governo (Primo Ministro).
Egli dispone d’una larga maggioranza nell’assemblea territoriale, grazie ad una coalizione di diversi schieramenti, ma quando il 17 gennaio ’59, a Bamako si decide di creare una Federazione del Mali, che dovrebbe comprendere tutti i territori dell’AOF (alla riunione son presenti diversi parlamentari dahomeesi), la coalizione di governo crolla, anche perché per aprile sono previste elezioni legislative che mandano in fibrillazione le forze politiche.
Hubert Maga (1916 – 2000) e Apithy si oppongono al progetto federativo, ricostituiscono i rispettivi partiti l’RDD e il PRD: tra i due turni di votazione per la nuova assemblea territoriale (2-23 aprile 1959) diversi ministri pro-federazione si dimettono per manifestare il loro dissenso dalla linea nazionalista di Maga ed Apithy.
Lo stesso progetto di costituire un governo d’unione nazionale dopo il voto fa naufragio: difatti, l’RDD rompe i rapporti col PRD di Apithy e si coalizza con l’UDD DI Justin Ahomadegbé.
Coalizione anche questa effimera perché quando Maga propone ad Ahomadegbé di fondere i loro due partiti,questi lascia il governo, privandolo della maggioranza.
Comunque, Maga, personalità di punta del popolo Bariba, riesce a farsi eleggere Presidente della Repubblica nel marzo e ad assumere la carica il 26 luglio: tocca a lui proclamare l’indipendenza, alla presenza di de gaulle pochi giorni dopo.
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GLI ANNI DELL’INSTABILITA’ (1960-1972).
Il 1° Agosto 1960, dunque, il Dahomey è uno stato sovrano, ma come molti altri nella regione del Golfo di Guinea, a causa della sua fragilità interna, vivrà anni di forti tensioni ed instabilità, a causa dei continui conflitti regionali e dell’inesperienza delle élites politiche.
La nuova costituzione, adottata subito dopo la festa dell’indipendenza, assegna ampi poteri al Capo dello Stato: questi promette di mantenere buoni rapporti con l’ex potenza coloniale e per alcuni anni Parigi farà affluire nel territorio consistenti aiuti economici.
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Per evitare i nefasti effetti della frammentazione politica precedentemente sperimentata, Maga crea un partito unico (Parti dahoméen de l’Unité PDU).
Quando, però, Parigi riduce gli aiuti al Paese e il vicino Niger licenzia i funzionari dahomeesi che lavorano a Niamey, scoppiano proteste popolari.
Centinaia di migliaia di rifugiati invadono il paese in un quadro di forti tensioni regionaliste tra Nord e Sud.
La situazione rapidamente sfugge di mano: il 28 ottobre ’63 il colonnello Christophe Soglo, (1909 – 1983), zio del futuro presidente Nicéphore, attua il suo primo colpo di Stato militare.
Hubert Maga è rovesciato e posto agli arresti domiciliari: Soglo, che ritroveremo più avanti, il 5 gennaio ’64, promulga una nuova Costituzione e il 19 gennaio Sourou Migan Apithy è Presidente e Justin Ahomadegbé Primo Ministro.
Ma la tensione giunge all’apice quando nel novembre 1965 Apithy rifiuta di nominare il presidente della Corte suprema: il premier lo fa destituire e per breve tempo assume i poteri presidenziali.
Il Colonnello Christophe Soglo, per scongiurare una guerra civile, attua il suo secondo colpo di Stato (22 dicembre), assumendo la presidenza.
«in paesi – commenta Gentili – in cui il percorso della decolonizzazione era stato caratterizzato dalla divisione del movimento nazionalista e da forte fazionalismo con basi regionali e intrecci di interesse economico con l’ex potenza coloniale, l’esercito intervenne in funzione di arbitro fra gruppi politici in competizione.»
Tra gli obiettivi che si pone la nuova giunta militare, il rilancio dell’economia ed il superamento del dissesto finanziario del Paese.
Tuttavia, le misure adottate, fanno scoppiare scioperi: i militari escono dalle caserme e rovesciano Soglo (17 dicembre 1967), dimostrando che anche all’interno dell’esercito vi sono divisioni ideologiche e territoriali.
Il comandante Iropa Maurice Kouandété forma un “comitato rivoluzionario incaricato di supervisionare l’azione dell’esecutivo provvisorio.
Si stende una nuova costituzione, approvata il 31 marzo 1968, s’instaura un regime presidenziale.
Emile Derlin Henri Zinsou è eletto Capo dello Stato, ma il deterioramento della situazione economica provoca un nuovo golpe: il 10 dicembre 1969 una nuova giunta militare, presieduta da Paul Emile de Souza prende il potere.
Il 7 maggio 1970, nuova formula: viene creato un “consiglio presidenziale” formato da tre personalità politiche di spicco. I tre, Hubert Maga, Justin Ahomadegbé e Paul emile de Souza devono guidare insieme il Dahomey: ogni due anni uno di loro diventa Presidente.
Nel 1972 Maga lascia la guida della nazione a Ahomadegbé che, però viene detronizzato dal quinto golpe della storia dahomeese.
Il 26 Ottobre 1972, il maggiore Mathieu Kérékou prende il potere giudicando inetto il consiglio presidenziale e molto rapidamente impone la propria dittatura.
Se all’inizio degli anni Settanta l’intervento militare in politica si caratterizza ancora come risolutore dei conflitti politici, il golpe del 26 ottobre segna una svolta nella complicata storia del Dahomey: l’epoca dell’instabilità cronica è finita ed il paese intraprende una strada che all’inizio è vaga, ma poiassume contorni sempre più chiari.
Sotto l’influsso di giovani studenti affascinati dal maggio francese, il 30 novembre 1974 Kérékou annuncia ad una stupefatta assemblea di capi locali e politici che il Paese abbraccia la dottrina marxista-leninista. L’anno dopo, il Dahomey cambia nome per assumere quello di République Populaire du Bénin.
Viene creato un nuovo partito unico il Parti Révolutionaire du Peuple Béninois (PRPB) ed un’assemblea nazionale rivoluzionaria che rieleggerà più volte Kérékou capo dello Stato.
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LA DITTATURA DI KEREKOU (1972 – 1991)
Ahmed Mathieu Kérékou ((Kouarfa, 2 settembre 1933 – Cotonou, 14 ottobre 2015), di etnia Bariba guida il dahomey-Benin per 19 anni consecutivamente.
Militare di carriera, studia nelle accademie di Mali e Senegal, poi è impiegato nell’esercito francese fin al 1961, quando rientra in patria. qui diventa aiutante di campo del Presidente Maga.
Dopo il colpo di stato del 17 dicembre 1967 attuato da suo cugino Iropa Maurice Kouandété, è nominato alla presidenza del comitato rivoluzionario che deve gestire il Paese.
Tra il 1968 ed il ’70 frequenta la scuola militare francese, ma Hubert maga, tornato alla presidenza lo promuove al grado di maggiore, nominandolo vicecapo di stato maggiore e comandante dell’Ouidah, unità paramilitare.
Nel ’72, come detto, prende il potere con laforza e si proclama colonnello e presidente.
Tra i primi atti del suo regime Kérékou, uomo del Nord, tenta d’incorporare tutte le componenti etniche del Paese, superando le divisioni regionalistiche create dai governi precedenti, ma col passar degli anni proprio i Nordisti prendono il sopravvento nel suo entourage.
Sono almeno tre le fasi in cui si divide il lungo regime di Kérékou:
– un breve periodo nazionalista (1972-1974);
– una fase “socialista” (1974-1982);
– un periodo d’apertura verso i Paesi occidentali ed il liberalismo economico (1982-1990).
Vasti programmi economici di sviluppo sociale sono messi in piedi dal governo,ma i risultati complessivamente sono modesti.
Nel ’74, sotto l’influsso di giovani rivoluzionari, i cosiddetti «Ligueurs», sono nazionalizzati i settori strategici dell’economia, avviate riforme del sistema educativo, create cooperative agricole e nuove strutture d’amministrazione locale.
E’ intrapresa una serrata lotta contro il tribalismo e i residui di feudalesimo, perciò è attuata una riforma agraria.
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Il regime impedisce l’attività delle forze d’opposizione: verrà a lungo imposto l’ateismo di stato, anche se personalmente Kérékou s’incontra spesso col marabù del suo villaggio.
Sfugge a diversi tentati colpi di Stato (1977, ’87 e ’88) ed evita in più occasioni d’esser assassinato.
Come per altri Stati della regione l’incantesimo economico degli anni ’70 va in frantumi con gli ’80: il PIL crolla, come i prezzi dei prodotti d’esportazione e lo Stato, che ha il monopolio della produzione e del commercio, rischia la bancarotta.
Nel 1984, la Nigeria chiude improvvisamente le proprie frontiere col Benin, di conseguenza, crollano le entrate fiscali e doganali e Cotonou non è più in grado di pagare gli stipendi dei propri pubblici funzionari: nell’87, perciò, il Governo è costretto a chiedere un prestito al Fondo Monetario Internazionale: il FMI è disposto a concederlo, ma pone condizioni draconiane.
Prima di tutto, è imposta un’addizionale del 10% sui salari;
Poi è decretato un blocco delle assunzioni nella Pubblica amministrazione.
Infine, son mandati in pensione dipendenti pubblici assunti in eccesso.
Nondimeno, la crisi si aggrava e nel 1989 è varato un nuobo pacchetto d’austerità: la protesta popolare dilaga e il regime ha il fiato corto. Contemporaneamente, A fine ’89, François Mitterrand fa pressione sui leader dell’Africa francofona affinché aboliscano lo Stato a partito unico ed aprano la scena politica a più forze.
Kérékou abiura al marxismo-leninismo e convoca la Conferenza Nazionale sovrana, cui partecipano movimenti della società civile e partiti politici.
Essa si riunisce sotto la presidenza di Mons. Isidore de Souza, Arcivescovo di Cotonou e in un anno di lavori ridisegna l’assetto istituzionale del Benin.
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LA DEMOCRATIZZAZIONE.
La CNS abroga la Costituzione del ’77 e crea un regime transitorio: Kérékou rimane presidente, ma Nicéphore Soglo è nominato Primo Ministro.
Lo Stato è ribattezzato République du Bénin, i Presidenti saranno eletti ogni cinque anni a suffragio universale e potranno occupare la carica per due mandati consecutivi al massimo. Inoltre al momento della candidatura non dovranno avere 70 anni, per evitare che alcuni politici del periodo dell’instabilità possano tornare alla ribalta.
Nel marzo ’91, Nicéphore Soglo prende democraticamente il posto di Kérékou: negli anni successivi si saprà che questi ha abbandonato l’ateismo ed è ridiventato cristiano.
Nel 1996, si ripresenta e stavolta è eletto con oltre il 52% dei voti, ottenuti sia al Nord, sua roccaforte che al sud. rieletto nel 2001 in elezioni contestate, lascia definitivamente il potere nel 2006.
Nel marzo di quello stesso anno, Thomas Yayi Boni, ex direttore della BOAD (banca di Sviluppo dell’Africa Occidentale), assume la presidenza, carica che mantiene fino al 2016.
Boni Yayi, alla fine del doppio mandato, tenta d’imporre come proprio “delfino”, il banchiere Franco-Beninese, Lionel Zinsou.
La candidatura di Zinsou è, però, osteggiata anche dal partito di Yayi l’FCBE (Forces Cauris pour un Bénin Emergent), per cui viene battuto alle urne da Patrice Talon, ricco uomo d’affari.
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DERIVA AUTORITARIA.
Talon, divenuto presidente, concentra nelle proprie mani sempre più potere, accusando la società civile di creare instabilità, mentre infiltrazioni jihadiste fanno sentire la loro presenza.
Tra il 2018 ed il ’19, militari francesi devono intervenire per liberare degli ostaggi nelle mani di alcuni qaedisti, le cui cellule vengono debellate.
Nella primavera del ’19, in occasione delle elezioni legislative, la commissione incaricata di sovraintendere al voto, blocca le liste avverse al presidente. Conseguenza: la nuova assemblea nazionale è monopolizzata dai partiti favorevoli a Talon.
Da più d’un anno sono in corso negoziati per la soluzione della vertenza, ma senza apparenti risultati: nel 2021 sono previste elezioni presidenziali. Si vedrà se saranno pluralistiche, eque e pulite o se di nuovo il Paese rischierà di precipitare nel baratro dell’autocrazia e della violenza politica.
PIER LUIGI GIACOMONI
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NOTA:
[1] A. M. GENTILI, Il leone e il cacciatore, Storia dell’Africa subsahariana, Carocci, Roma, 2008.