CRISI POLITICA IN EUROPA
(11 marzo 2016).
BRUXELLES. Al momento in cui scriviamo, nell’Unione Europea, anzi nella zona Euro, ci sono tre Paesi in piena crisi politica: Irlanda, Slovacchia e spagna.
Le tre situazioni presentano alcune comuni connotazioni:
1. l’incapacità dei partiti politici in campo, specialmente dei maggiori, di raggiungere dei compromessi che tengan conto della necessità delle popolazioni d’esser governate.
2. La presenza sulla scena di schieramenti politici populisti poco interessati ad assumersi responsabilità di governo, inclini, invece, a porre veti, a tracciare “linee rosse” invalicabili, a far ostruzionismo;
Le settimane passano invano senza che si veda una prospettiva d’uscita dalla crisi, anzi tutti gli attori in scena ripetono instancabilmente gli stessi slogan usati in campagna elettorale, proclamando che non faranno accordi, ponendo veti insormontabili. Ciò rischia d’avere un effetto collaterale a breve ed uno a lungo termine.
L’effetto immediato è la probabile riconvocazione in pochi mesi di nuove elezioni generali; quello a lungo termine è quello di emarginare le istituzioni democratiche e renderle sempre meno importanti nei processi decisionali, per esempio in campo sociale ed economico.
C’è già parecchia gente che crede fermamente che le società moderne possano andare avanti anche senza politica, e politici, tanto chi decide sono altri, magari nel segreto di stanze ben appartate, lontano da occhi indiscreti.
Vediamo, comunque, di tracciare un quadro della situazione politica nei tre Paesi indicati.
IRLANDA. Ieri, 10 marzo, si è riunito il 32esimo Dáil éireann (Assemblea d’Irlanda) eletto lo scorso 26 febbraio.
Come ampiamente previsto dai media locali, la camera non è riuscita ad eleggere il nuovo Taoiseach (Primo ministro). La conseguenza è stata che l’uscente enda Kenny ha presentato al Presidente della repubblica Michael d. Higgins le sue dimissioni, dichiarando che il governo da lui attualmente presieduto rimarrà in funzione fino a quando non si riuscirà ad eleggere un nuovo Premier.
Data la notevole frammentazione del Dáil l’unica possibilità d’accordo per la formazione d’un nuovo governo è quella tra i due maggiori partiti Fine Gael (la famiglia irlandese) e fianna Fáil (soldati del destino).
gli osservatori notano che le differenze ideologiche e programmatiche fra i due partiti sono minime, ma in entrambi gli schieramenti vi è un’inveterata avversione verso l’altro, oltre che la paura di lasciar troppo spazio allo Sinn Féin, già molto cresciuto nelle ultime elezioni, che in un futuro potrebbe divenire forza dominante nel Paese.
così, tra timori, rancori e reciproche sfiducie, l’Irlanda rischia di entrare in una spirale d’ingovernabilità non necessaria in questo difficile momento storico in cui il Paese sembra in ripresa dopo la disastrosa crisi economica degli anni 2008-2011.
SLOVACCHIA. Nonostante la campagna antimmigrati condotta dal Primo ministro uscente Robert Fico (pr. ficio) le elezioni legislative dello scorso fine settimana (4-5 marzo) hanno prodotto un Parlamento molto frammentato.
I socialdemocratici dello Smer-Sd, fino ad oggi al Governo, sono crollati dal 44 al 28,3% dei voti ed hanno perso la maggioranza assoluta che detenevano in Parlamento.
Nella nuova assemblea di Bratislava entrano ben nove partiti, malgrado lo sbarramento del 5% previsto dalla legge elettorale.
Tra i risultati più eclatanti, spicca l’8,1%, ottenuto dall’estrema destra di «Kotleba-Partito popolare Slovacchia nostra», organizzatore di manifestazioni antimigranti.
Nel nuovo legislativo i socialdemocratici hanno 49 seggi su 150, mentre in precedenza ne detenevano 83;
i liberali di SeS ne hanno ottenuto 21; i conservatori di Olano-Nova, 19; i nazionalisti di SNS 15; l’estrema destra Nostra Slovacchia già citata disporrà di 14; la minoranza ungherese 11; i conservatori di Sme-Rodina, 11 posti; i centristi di Siet hanno 10 deputati.
«Questo voto è un terremoto — ha commentato Igor Matovic, il leader del partito conservatore Olano-Nova all’agenzia slovacca Tasr. Secondo gli osservatori Fico avrà bisogno d’almeno due o tre partner per formare una coalizione di governo oppure servirà un’alleanza di sei partiti di centro e di destra perché l’opposizione formi un esecutivo.
Non bisogna dimenticare che il tempo a disposizione per il Primo ministro uscente per formare il governo non è molto: a luglio Bratislava assumerà la presidenza semestrale degli organismi comunitari e per quel momento dovrà esserci in carica un nuovo esecutivo.
SPAGNA. Dopo la mancata investitura di Pedro Sánchez alla Presidenza del governo – la sua candidatura è stata respinta la scorsa settimana due volte dal congresso di Madrid – la situazione politica spagnola sembra entrata in una fase di stallo.
I partiti si scomunicano l’un l’altro e paiono già avviate le macchine elettorali per lo scrutinio del 26 giugno prossimo. Il voto sarà inevitabile se entro il 2 maggio prossimo il Parlamento non sarà in grado d’investire un nuovo Premier.
Tuttavia in Podemos, lo schieramento d’estrema sinistra che col proprio voto contrario la scorsa settimana ha fatto naufragare il tentativo del socialista Sánchez Castejon, con cui a parole vorrebbe collaborare per un “gobierno de cambio” stanno esplodendo le contraddizioni interne tra un’ala dura, poco incline al dialogo ed una più disponibile a sostenere il tentativo del leader socialista di creare una coalizione riformista che tenga all’opposizione il Partido Popular ed avvii una stagione di cambiamenti.
Cosa questo possa produrre è ancora presto per dirlo, ma forse la stagione delle intese sboccerà dopo che si sarà chiamato nuovamente gli spagnoli al voto e se ne scopriranno gli effetti.
A meno che la ragionevolezza ed il buon senso che al momento latitano non abbiano il sopravvento sull’avventurismo politico di certi leader improvvisati.
PIERLUIGI GIACOMONI