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CHE COS’E’ LA MONETA?
(7 Settembre 2017)

Che cos’è la moneta? Cos’è quest’oggetto che ci portiamo dietro e che talvolta scatena l’avidità per cui vorremmo possederne sempre di più e magari siamo invidiosi di chi ne ha a palate?

Nel libro BitGlobal di Pietro Caliceti (Baldini&Castoldi, 2017) ho trovato questa lunga esposizione in cui non solo viene definito che cos’è la moneta, il denaro, la grana, ma anche qual è la sua storia, si può dire dall’alba dell’umanità ai nostri giorni.

PLG
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«Ma cos’è, in realtà, una moneta?»

«Ecco, vedete? Quando noi pensiamo a una moneta, istintivamente pensiamo a un pezzo di metallo, o a una banconota, con stampata su qualche faccia o qualche monumento famoso. Queste facce, questi monumenti, rappresentano l’autorità che emette la nostra moneta. E dunque, tutti noi siamo istintivamente portati a pensare che la moneta, qualsiasi moneta, non possa esistere se non in quanto vi sia un’autorità che la emette. O, il che è lo stesso, che la moneta non possa esistere se non in quanto sia emessa da un’autorità. Dove per autorità noi pensiamo, altrettanto istintivamente, a qualcosa che trascende gli individui che quella moneta usano: un ente ideale, superiore, sia esso lo Stato o una Banca Centrale.

Però, che la moneta sia necessariamente legata a un’autorità può essere vero adesso, ed è stato vero in altre epoche; ma non è vero in assoluto. Se ripercorriamo il corso della storia, vediamo che ci sono stati lunghissimi periodi in cui l’utilizzo di monete prescindeva completamente dall’intervento di qualsiasi autorità; anzi, in una prospettiva storica, i periodi in cui questo è avvenuto sono stati molto più lunghi di quelli in cui la moneta è stata legata ad un potere centrale. Quindi, l’esistenza o meno di un potere centrale è tutto sommato una variabile neutra rispetto al problema che ci eravamo posti, vale a dire di stabilire che cos’è una moneta. Il potere centrale può esserci o non esserci, ma la moneta funziona in entrambi i casi. E dunque? Che cos’è che veramente non può mancare, perché si possa parlare di moneta? Forse conviene analizzare il problema da un’altra prospettiva: e chiederci a cosa serve, la moneta. Ossia, in altre parole, perché la moneta è nata.

«È ormai assodato che la moneta appare, all’interno di una comunità, quando essa comincia a organizzarsi in modo da rendere più efficiente l’allocazione del lavoro. È un processo che si registra pressoché sempre, in qualsiasi epoca e in qualsiasi civiltà, e avviene quasi in modo spontaneo: ci si rende conto che qualcuno sa far meglio certe cose e qualcuno altre, e piano piano si capisce che è nell’interesse di tutti che ognuno si concentri sulle attività per le quali è più portato, senza doversi preoccupare di fare anche tutte le altre cose che pure gli sono necessarie per vivere. Ovviamente, questo può funzionare solo se poi i vari membri della comunità si scambiano il frutto dei rispettivi lavori, in modo tale da assicurare che i bisogni di ognuno siano soddisfatti; e dunque si pone il problema di come disciplinare questi scambi.»

«Entro certi limiti, il problema può essere risolto con il baratto. Chi si è specializzato nella fabbricazione di archi ha bisogno di mangiare, e chi si è specializzato nella caccia ha bisogno di armi. Dunque, il primo dà all’altro un arco, e in cambio il secondo gli dà una delle lepri che ha cacciato.»

«In realtà però, anche le economie più rudimentali non hanno mai potuto basarsi esclusivamente sul baratto. Perché il baratto possa risolvere tutti i problemi, infatti, sarebbero necessarie un po’ troppe coincidenze – per tornare all’esempio di prima, che il fabbricante d’armi abbia bisogno di una sola lepre, e che il cacciatore abbia bisogno di un solo arco: se anche uno solo dei soggetti dello scambio ha bisogno di qualcosa di più di quello che l’altro può offrirgli, il baratto lascia qualcuno scontento, e quindi di per sé solo non basta. Certo, in parte il problema si può risolvere mediante un supplemento di baratto: magari il cacciatore ha poco bisogno di un arco, ma ha molto bisogno di un pugnale, e dunque, se un arco da solo non basterebbe a fargli cedere la sua lepre, l’abbinata arco più pugnale potrebbe convincerlo. Ma, appunto, si tratterebbe pur sempre di baratto, e il problema prima o poi si ripresenterebbe: finché si opera solo col baratto si arriva sempre a una situazione in cui la parte in difetto non ha nient’altro che serve direttamente alla controparte, e dunque la differenza non può essere colmata con un supplemento di baratto. Come si può in tal caso ristabilire la parità tra i piatti della bilancia? Si può se la parte in difetto dispone di qualcosa che il suo interlocutore, pur non avendone direttamente bisogno, sa che potrebbe interessare a qualcun altro: qualcosa che lui confida di poter in futuro cedere a terzi, per ottenerne in cambio altri beni di cui la sua controparte di quel momento non dispone. È questo qualcosa in più che, nel momento in cui si aggiunge all’oggetto del baratto, muta radicalmente la funzione dello scambio. Questo qualcosa in più, è la moneta.

«Storicamente, in tutte le civiltà c’è una fase in cui il baratto e la moneta convivono e restano difficilmente distinguibili. È la fase in cui la moneta è costituita da beni commestibili, o più in genere da beni di consumo: che in parte servono per soddisfare le necessità proprie di chi li riceve, e solo per l’eccedenza rilevano in quanto merce di ulteriore scambio. Esempi di questa fase si trovano in tutta la storia e a tutte le latitudini. Gli antichi Babilonesi e Assiri usavano l’orzo; gli Aztechi il cacao; in Cina, in Nord Africa e nel Mediterraneo si usava il sale, da cui tra l’altro viene la parola salario; in India le mandorle; nelle Filippine, in Giappone, in Birmania e nel Sud Est Asiatico il riso; in Guatemala il granoturco; in Norvegia il burro, e poi, più tardi, il pesce essiccato; in Mongolia il tè; nelle Isole Nicobare le noci di cocco. Non parliamo poi degli animali: in Siberia si usavano le renne; in Borneo i bufali; gli Ittiti usavano le pecore; i Greci e i Romani, pecore e bovini in genere; la parola romana per denaro – pecunia – viene da pecus, ossia pecora; e la stessa parola capitale viene dal latino caput, ossia capo, che in origine non significava altro che capo di bestiame. Anche gli esseri umani sono stati spesso utilizzati come moneta: dagli antichi Vichinghi, che usavano i maschi adulti, alle tribù dell’Africa Equatoriale, che invece apprezzavano di più i bambini e le femmine, solo per fare due esempi. E badate che non sto parlando solo di preistoria: subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, le monete più apprezzate in Europa erano le sigarette, il cioccolato ed il chewing gum; e ancora più di recente, nella Romania di Ceausescu la vera valuta nazionale erano le sigarette Kent.

«Altrettanto inevitabilmente, però, a questa fase ne subentra un’altra, in cui si inizia a capire che usare beni di consumo come moneta presenta degli inconvenienti seri. In generale, c’erano i problemi legati alla deperibilità intrinseca di questi beni. Sementi, sale, spezie, alimenti secchi erano tutte cose che, per quanto potessero essere evolute le tecniche di conservazione, prima o poi inevitabilmente andavano a male. Il bestiame vivo poteva morire, e comunque finché non veniva scambiato aveva dei costi di mantenimento che, più passava il tempo, più ne riducevano il valore. Il bestiame, poi, era anche scomodo da trasportare, e aveva anche lo svantaggio che non si poteva dividere: se si trovava qualcuno con cui scambiare una mucca intera, bene: ma se no?

«È stato così che, in tutte le civiltà, la funzione della moneta è gradualmente passata a beni durevoli. Anche di questi abbiamo centinaia di esempi. In Siberia e nel Nord America si usavano pelli di animali, soprattutto castori e cervi – queste ultime venivano chiamate bucks, da cui il nome colloquiale del dollaro. Gli abitanti delle Isole Fiji utilizzavano denti di balena, mentre quelli delle Isole dell’Ammiragliato, al largo dell’Alaska, si servivano di denti di cane. Tra gli Indiani d’America la moneta era rappresentata dai wampum, piccoli cilindri intagliati e infilati a mo’ di rosario, che perfino i coloni europei utilizzarono fino al 1670. In tutta l’Asia e l’Africa si usavano le conchiglie, soprattutto quelle della famiglia delle Cipree. Naturalmente, poi, un po’ dovunque si adoperavano le pietre. Il caso più famoso è quello dell’Isola di Yap, una minuscola isoletta della Micronesia, tra le Filippine e le Hawaii, dove la moneta corrente era costituita dai cosiddetti Rai, pietre di forma circolare con un buco in mezzo, che in alcuni casi raggiungevano dimensioni enormi, talmente pesanti che spesso non si potevano neanche spostare.»

«Questo è un punto su cui vale la pena soffermarsi un attimo, perché è di importanza cruciale per il nostro discorso. Quello che cambia radicalmente, nel passaggio dal baratto alla moneta, è il peso che le parti dello scambio danno a come quello stesso scambio sarà valutato dalla comunità che le circonda. Nel baratto, la valutazione della comunità è irrilevante. Uno accetta qualcosa in cambio della propria merce perché ne ha bisogno personalmente: quand’anche per chiunque altro quella cosa fosse inutile, a lui non interessa. Con la moneta, il discorso cambia completamente. Uno la accetta solo ed in quanto crede che essa possa rivestire interesse per gli altri. La valutazione della comunità diviene essenziale.

«Nel sistema dell’Isola di Yap, questo principio trova la sua applicazione più piena. Proprio perché le loro monete – questi pietroni enormi – erano così difficili da trasportare, la loro circolazione si basava esclusivamente sulla memoria della comunità, senza alcun movimento fisico della moneta stessa. Era la comunità che, nella propria coscienza collettiva, registrava ogni scambio intervenuto tra i suoi membri, e sapeva bene a chi apparteneva ogni singola pietra, senza alcun bisogno di annotazioni di sorta. La circolazione della moneta era ritenuta così irrilevante che, quando un giorno una barca che trasportava uno di questi grossi pietroni affondò, la pietra continuò a essere usata come moneta nonostante fosse ormai in fondo al mare, e nessuno la potesse neanche più vedere.

«Non è un caso, dunque, che uno dei più famosi economisti del ventesimo secolo, John Maynard Keynes, abbia dichiarato che a suo avviso il sistema dell’Isola di Yap era perfettamente logico, addirittura più di quello basato sul gold standard in voga ai suoi tempi. Quel sistema, in effetti, si basa sull’unica cosa che conta per una moneta, ossia sulla fiducia: fiducia nel comportamento della collettività, fiducia che quello che noi accettiamo da un terzo, come mezzo di pagamento, potremo a nostra volta utilizzarlo per pagare qualcun altro. D’altronde, i vostri antenati Romani l’avevano capito già perfettamente: la parola credito, la parola creditore, da altro non vengono se non dal verbo credere. Credere, appunto: ossia, avere fiducia. Una volta che ci sia questa fiducia, qualsiasi cosa può servire da moneta: denti di balena, conchiglie, sigarette, pietre. Persino algoritmi, come vedremo a breve.»

«A un certo stadio dell’evoluzione, nella maggior parte delle civiltà conosciute la scelta dei materiali da utilizzare per le monete è andata indirizzandosi verso i metalli, in particolare verso l’argento e l’oro. Questo avvenne in parte perché si pensava che questi metalli avessero proprietà magiche; ma in parte, e soprattutto, per considerazioni estremamente pratiche. I metalli preziosi, specie l’oro, sono indistruttibili e inalterabili, e dunque davano maggiori garanzie di stabilità di qualsiasi altro materiale. Inoltre sono malleabili, divisibili e ricomponibili; e anche sotto questo profilo è facile capire perché l’oro abbia avuto il primato quasi ovunque. A differenza dell’argento, l’oro non si ossida; e per quanto fonda a una temperatura leggermente superiore, si salda a se stesso per riscaldamento ben al di sotto del punto di fusione: il che, ovviamente, lo rende molto più facile da lavorare.

«Naturalmente, quando si iniziarono a usare i metalli, divenne necessario affrontare dei problemi che, per monete fatte di altri materiali, non si presentavano o comunque erano meno importanti: primo fra tutti, il problema di verificare che il peso e la qualità del metallo di cui le monete erano composte fossero effettivamente quelli dichiarati. Ma anche qui, quello che muta sono solo i termini tecnici del problema – ossia verificare la qualità di un pezzo di metallo, anziché la specie di una conchiglia – non la natura del problema stesso: è sempre un problema di fiducia, di sapere che quella moneta sarà riconosciuta come tale anche dagli altri membri della comunità.

«E qui arriviamo a un punto cruciale. Se la moneta deriva la sua legittimazione solo dalla comunità, non esiste alcuna ragione perché quel problema, ossia il problema di dare fiducia alla moneta, non possa essere risolto in via autonoma dalla comunità stessa: se la comunità la accetta, ha fiducia in lei, la moneta è buona; se non la accetta, non è moneta. In altre parole, non c’è alcun bisogno di un’autorità esterna alla comunità, per dare o negare valore a una moneta. E, storicamente, è esattamente così che sono andate le cose per moltissimo tempo, anche dopo che per la costruzione delle monete si era passati ai metalli preziosi e dunque la verifica della moneta poneva problemi tecnici più complessi che in origine. Le monete continuavano a essere auto-prodotte dalla comunità; ed era un membro della stessa comunità (spesso un sordo o un cieco, come il libripens romano) che ne verificava la purezza e il peso, ossia la loro credibilità. Il che significa, detto in altri termini, che non c’è alcun bisogno dello Stato, o di una qualsiasi altra autorità, perché una moneta esista e funzioni.

«Lo Stato, infatti, interviene solo molto dopo che le monete, anche quelle metalliche, erano comparse.»

«Ormai tutti concordano che la moneta come la intendiamo noi, la moneta coniata, ossia la moneta creata da un’autorità, sia nata in Lidia, la parte occidentale dell’odierna Turchia, tra il sesto e il settimo secolo prima di Cristo. Secondo la tesi prevalente, l’introduzione del conio va attribuita all’ultimo e più famoso re della Lidia, il mitico Creso; e proprio per questo, si ritiene, nacque la leggenda per cui egli tramutava in oro tutto quello che toccava. Altri ritengono che la coniazione si debba far risalire invece al predecessore di Creso, un certo Aliatte, ma poco cambia: chiunque sia stato il sovrano che per primo vi ha messo il suo sigillo, certo è che, quando lo ha fatto, le monete metalliche erano già ampiamente note e utilizzate.

«Il punto è, quindi, un altro: perché, a un certo punto, il sovrano interviene? Non certo perché fosse necessario: la moneta circolava e svolgeva perfettamente la sua funzione già da secoli senza alcun sigillo statale, e senza che nessuno ne avesse sentito il bisogno. Il sovrano, lo Stato, interviene perché capisce che gestire la moneta gli può essere utile.

«In che senso, gli è utile? In tanti sensi.

«In primo luogo, perché così si assicura una rendita. Lo Stato dice: io vi assicuro la qualità della moneta; ma in cambio pretendo un prezzo, il cosiddetto signoraggio, sostanzialmente la differenza tra la quantità di metallo prezioso che gli veniva data per produrre le monete da coniare e quella effettivamente trasfusa nelle monete coniate.

«In secondo luogo, era una questione di immagine. Proporsi come l’unico soggetto in grado di assicurare la stabilità e la certezza dei commerci, era un importante modo per legittimare il proprio potere, e suscitare così un senso di sudditanza negli altri membri della comunità.

«Ma queste, con ogni probabilità, sono solo ragioni di contorno. I motivi più profondi dell’interesse dello Stato a battere moneta sono, più verosimilmente, altri due.

«Anzitutto, gestire la moneta significa poter schedare i sudditi, sapere chi ne ha e quanta ne ha, in altre parole poterli censire. E censire i sudditi significa poterli tassare. Già Aristotele, nell’Etica Nicomachea, riconosce che la coniazione è strettamente legata all’imposizione fiscale.

«Infine, avere il monopolio della produzione della moneta significa anche gestire il circolante, e gestire il circolante vuol dire stabilire qual è il potere d’acquisto della moneta. E se uno ha questo potere, è lui stesso che stabilisce quali sono le spese che può permettersi: se non se le può permettere, semplicemente diminuisce il potere di acquisto. Anche qui, già Aristotele aveva visto lungo: lo Stato ha interesse a batter moneta, diceva, perché deve pagare i mercenari; e all’epoca i mercenari erano di gran lunga la voce più pesante della spesa pubblica, basti pensare che Alessandro il Grande doveva pagare alle sue truppe mezza tonnellata di argento al giorno. Bene, dunque da un certo momento in poi è lo Stato che batte moneta. E che cosa se ne fa? Fa quello che, probabilmente, è la cosa più umana possibile: la spende. E la spende senza guardare come, senza preoccuparsi che la moneta sia impegnata in attività produttive: in fondo, cosa gli interessa? È lui che la crea, e se gliene serve di più non ha altro da fare che crearne di più. E così avanti con le guerre, avanti con gli sprechi, avanti con le inefficienze.

«Naturalmente, qual è il risultato? Che, più passa il tempo, più la moneta perde potere d’acquisto.

«Se si ripercorre la storia della moneta dall’introduzione del conio a oggi, è facile rendersi conto che, salvo pochissimi e brevi episodi, è contrassegnata da una continua ma inesorabile tendenza alla svalutazione, dovuta alla altrettanto inesorabile tendenza del debito pubblico a divenire insostenibile. Cambiano gli strumenti tecnici della svalutazione – che all’inizio si fa semplicemente abbattendo il peso della moneta o coniandola in metalli meno pregiati, e via via assume forme più sofisticate – ma la sostanza è sempre quella.

«Iniziano già gli stessi Greci, con Solone, nel 594 avanti Cristo: il peso della dracma passa da 6,27 a 4,36 grammi.

«Continuano i Romani: già il loro primo embrione di moneta, l’aes signatum, che era nato circa nel 500 avanti Cristo con un peso di 1440 scrupoli (pari a circa 1620 grammi), nel 269 circa avanti Cristo si era già ridotto a 288 scrupoli, meno di un quarto del suo peso originario.»

«Ma la stessa sorte colpisce il nuovo sistema introdotto verso il 211 avanti Cristo con il denario e il suo taglio minore, il sesterzio. Anche l’età imperiale è contrassegnata da una svalutazione costante: da Ottaviano, a Nerone, a Caracalla, tutti manipolano le monete, chi coniandole in metalli o leghe più vili di quelli con cui erano originariamente nate, chi introducendo monete nuove con un valore facciale superiore a quello del metallo di cui erano composte. E, dopo il crollo dell’Impero Romano, ovviamente l’inflazione dilaga.»

«La tendenza prosegue anche quando, dopo la disgregazione politica del Medioevo (in cui, per l’assenza di forti poteri centrali, era proliferata una multitudine di zecche più o meno private), si cominciano a formare i grandi Stati nazionali europei. Questi Stati hanno letteralmente fame di denaro: prima per le Crociate, poi per organizzare la propria struttura interna, poi per farsi guerra l’un l’altro. Quindi si riappropriano del monopolio del conio, e ricominciano a spendere più di quello che possono.

«I risultati, naturalmente, sono quelli che si erano già visti ai tempi dei Greci e dei Romani: debito insostenibile e, quindi, una svalutazione dietro l’altra.

«In Francia, il monopolio sul conio è imposto poco dopo la metà del Duecento da Luigi IX. Passa solo una cinquantina d’anni, e Filippo il Bello inizia già a svalutare, non riuscendo a trovare altro modo per far fronte al debito accumulato per le guerre con l’Inghilterra, le Fiandre e in Sicilia: e i suoi interventi sono talmente smaccati che nella Divina Commedia lo stesso Dante lo colloca all’Inferno, con l’accusa di aver creato “falsa moneta”. Il suo successore, Giovanni il Buono, continua sulla stessa strada: tra il 1350 e il 1364 effettua ben otto svalutazioni e un consolidamento del debito pubblico. Ma l’Inghilterra non è da meno. Per finanziare la guerra coi Francesi, alla fine del Duecento Edoardo I spende 750 mila sterline: una cifra enorme, se si pensa che all’epoca la circolazione monetaria dell’intera Inghilterra ammontava a 400 mila sterline. E pone le basi per quello che avverrà con Edoardo III (che, proseguendo nel conflitto coi Francesi, nel 1337 iniziò la Guerra dei Cent’Anni): il debito sovrano era diventato talmente insostenibile che il Re, molto semplicemente, si limitò a dire che non l’avrebbe pagato. Fece, come si dice oggi, default.

«Senonché, nel frattempo, era intervenuta un’altra svolta essenziale.

«A partire dalla metà del Duecento, parallelamente allo sviluppo delle fiere commerciali, si era sviluppata in tutta Europa anche una professione nuova, quella dei cambiavalute, che rispondeva all’esigenza dei commercianti di poter fare affari ovunque, senza essere limitati dal raggio di diffusione della propria moneta. All’inizio, il cambio avveniva in modo fisico: i cambiavalute si portavano dietro una scorta delle valute più diffuse, mettevano giù il loro banco in mezzo al mercato, e scambiavano pezzo contro pezzo. Ma via via che i traffici si sviluppavano, e le transazioni commerciali assumevano dimensioni sempre più grandi, i cambiavalute capirono che operare in quel modo non era più materialmente possibile e comunque non era sicuro, dato che ci si sarebbe dovuti portare dietro quantità enormi di monete: occorreva inventarsi qualcosa di nuovo.»

«La inventarono gli italiani. Abbandonarono il sistema basato sulla movimentazione fisica, e ne idearono uno basato sulla circolazione del credito. Il commerciante che voleva disporre di una data somma in un Paese straniero, nella valuta locale, non doveva più portarsi dietro il denaro per tutta Europa: andava da un cambiavalute della propria città, depositava il controvalore della moneta straniera di cui aveva bisogno, e il cambiavalute gli dava un semplice documento, sostanzialmente una ricevuta, la lettera di cambio. Con questa lettera, trasportabile molto più facilmente del contante, il commerciante andava nel Paese straniero, si recava da un corrispondente del cambiavalute presso cui aveva depositato il denaro, e il corrispondente gli consegnava il controvalore in moneta locale. Successivamente, i due cambiavalute regolavano le proprie partite di dare e avere; ma poiché i movimenti di valute erano normalmente sia in un senso che nell’altro, la regolazione avveniva spesso in massima parte tramite compensazioni, e solo per il residuo in contante, la cui circolazione – con tutti i rischi che comportava – era dunque limitata al minimo indispensabile.

«Ben presto, però, i cambiavalute si accorsero che questo sistema, basato sui depositi, racchiudeva in sé potenzialità ben più ampie. Tre furono gli snodi essenziali della loro riflessione.

«Primo: capirono che, anche solo per i tempi tecnici delle transazioni commerciali, dal momento in cui il denaro veniva depositato nelle proprie casse a quando il loro corrispondente estero gliel’avrebbe richiesto trascorreva inevitabilmente un periodo più o meno lungo. Dunque, si chiesero se in questo periodo potevano in qualche modo far fruttare questo denaro a loro vantaggio.

«Secondo: si accorsero che le lettere di cambio, che essi emettevano a fronte dei depositi, avevano iniziato a essere apprezzate in tutta Europa come se fossero denaro esse stesse.

«Terzo, e fondamentale: si resero conto che era statisticamente impossibile che tutti i loro depositanti, e/o i corrispondenti esteri con cui i depositanti avevano trattato, chiedessero loro la restituzione dei depositi simultaneamente. Statisticamente, era dunque sufficiente che i banchieri tenessero in cassa solo una frazione dei depositi ricevuti, quella che poi sarà chiamata riserva frazionaria.

«La conseguenza che trassero da queste riflessioni può apparire oggi scontata, ma all’epoca era rivoluzionaria. I cambiavalute capirono che potevano emettere lettere di cambio per più soldi di quanti ne avessero in deposito, e guadagnare sull’interesse di emissione. Era nata la moneta bancaria.

«Perché dagli Stati indebitati siamo arrivati a parlare dei cambiavalute? Perché, a partire dalla fine del Duecento, le due storie si incrociano. Quando i cambiavalute iniziano a trasformarsi in banchieri, ci mettono poco a capire che i loro migliori clienti possibili sono proprio gli Stati. Da un lato, attraverso l’imposizione fiscale, gli Stati sono in grado di autodeterminare le proprie entrate, e dunque offrono – almeno sulla carta – le migliori garanzie di poter sempre ripagare i loro debiti; e dall’altro, attraverso il monopolio del conio, sono in grado di stabilire il valore della moneta: dunque conviene tenerseli buoni, per non correre il rischio di essere colti alla sprovvista dalle loro possibili mosse di politica monetaria, e magari anche per saperle in anticipo e trarne ulteriore fonte di guadagno. Così, i banchieri iniziano a finanziare i nascenti Stati nazionali; e lo fanno in maniera massiccia, metodica, al punto che per alcuni di essi il credito “politico” diventa il principale degli impieghi, il core business, come si direbbe oggi.

«Certo, alcuni rimangono scottati. Quando Edoardo III fa default, manda in bancarotta due tra le più grandi famiglie di banchieri di Firenze, i Bardi e i Peruzzi; e ciò innesca una serie di reazioni a catena che porteranno tra l’altro i banchieri fiorentini ad essere scalzati dai genovesi dal ruolo di primattori della finanza europea. Ma nel complesso, il nuovo ceto bancario non cambia mai strategia.

«Così, quando Carlo V d’Asburgo manifesta le sue mire alla corona del Sacro Romano Impero, nel 1519, sono i banchieri tedeschi Fugger a rendere possibile la sua elezione, mettendo un milione di fiorini d’oro nelle tasche dei sette Principi Elettori da cui dipende la nomina; ma è solo grazie alle lettere di cambio messe in campo dai banchieri genovesi, che i Fugger riescono a raccogliere in poco tempo una così enorme massa di contante.

«Per tutto il Cinquecento e il Seicento, ovunque in Europa, il supporto dei banchieri agli Stati continua. Ma, periodicamente, gli Stati si rendono conto di non essere in grado di ripagare i debiti. E dunque continuano, ovunque, anche le svalutazioni.»

«All’inizio del Settecento, il debito pubblico dei due maggiori Stati europei, Inghilterra e Francia, è fuori controllo. E i banchieri riscuotono la cambiale che avevano alimentato in secoli di erogazioni: consentono agli Stati di consolidare il debito, ma in cambio chiedono e ottengono di sostituirsi agli Stati nel controllo del conio e della politica monetaria.

«Questo ultimo fondamentale processo si svolge lentamente, nell’arco di quasi due secoli; ma, a leggere bene tra gli anni, è di una chiarezza e di una consequenzialità sorprendente.

«Si parte dal problema del debito pubblico, e lo si risolve con un meccanismo significativamente analogo a quello usato a Genova all’inizio del Quattrocento per costituire la prima banca al mondo, il Banco di San Giorgio, e parallelamente farle acquisire il controllo sulla Repubblica Genovese: il Tesoro dello Stato, per ristrutturare il debito accumulato, chiede un prestito a una banca di nuova creazione, destinata a essere dichiarata Banca Centrale, e in cambio le conferisce in via esclusiva il diritto di stampare cartamoneta, alla sola condizione di impegnarsi a pagare in oro il suo valore nominale a chiunque ne faccia richiesta. Dunque, un sistema basato su due pilastri fondamentali: Banca Centrale da un lato, e convertibilità in oro, quello che poi sarà chiamato gold standard, dall’altro.

«I primi a percorrere questa strada sono gli Inglesi, con la creazione della Bank of England nel 1694, ma a questo meccanismo si uniformano poi, nella sostanza, tutti gli altri sistemi monetari del mondo.

«Senonché, a fianco delle varie Banche Centrali che via via si formano, restano in vita, in tutto il mondo, anche le altre banche che si erano sviluppate nel corso del tempo, e che per distinguersi da quelle Centrali sono ora chiamate banche “commerciali”: banche che non possono emettere cartamoneta (prerogativa, appunto, ora riservata alla Banca Centrale), ma continuano, invece, a poter raccogliere depositi da parte dei risparmiatori (cosa che viene invece vietata alla Banca Centrale). E, ovviamente, questi depositi le banche commerciali continuano a gestirli in base al principio della riserva frazionaria, che già i cambiavalute italiani avevano scoperto nel Duecento: col risultato che, oltre alla moneta rappresentata dalle banconote emesse dalla Banca Centrale (di cui si dichiara garantita la conversione in oro), continua a circolare sul mercato una quantità enorme di moneta bancaria, per la quale non c’è alcuna garanzia di conversione, e che anzi per definizione, proprio per effetto del principio della riserva frazionaria, è molto superiore ai depositi in essere presso le banche che l’hanno messa in circolazione. Il che significa, di fatto, che il principio della convertibilità in oro, nel cui nome era nato questo sistema, non era in realtà che una chimera: una volta ammessa la possibilità della riserva frazionaria, non può più esservi piena convertibilità, è una questione puramente matematica.

«E il sistema, alla fine, lo ammette; e implode. Quando nel 1971 si diffonde la voce che la Francia e la Gran Bretagna stanno per chiedere la conversione in oro di tutti i dollari in loro possesso, il presidente americano, Nixon, fa né più né meno quello che aveva fatto secoli prima Edoardo III. Si limita a dire, molto semplicemente, “Scusate, ragazzi, ci ho ripensato”; e dichiara che la convertibilità del dollaro è sospesa. Il gold standard era finito per sempre.

«E cosa succede? Che la funzione di punto di riferimento del sistema monetario mondiale, che prima si era attribuita all’oro, viene assunta dal dollaro. Ossia da quella che è, a sua volta, una moneta. Il sistema diventa autoreferenziale, sganciato da qualsiasi appiglio con una realtà esterna.

«C’è qualcuno che controlla che tutto ciò non degeneri? Teoricamente, questo compito dovrebbe spettare alla Banca Centrale del cuore del sistema, la Federal Reserve americana. Ma qui sta l’inghippo. Nonostante quello che il suo nome potrebbe far pensare, nonostante quello che la stragrande maggioranza della gente pensa, la Federal Reserve non è affatto una banca “federale”, non è affatto posseduta dallo Stato. I suoi azionisti sono banche private: la Rothschild, la Warburg, la Lazard, la Chase Manhattan Bank, la Goldman Sachs. Dunque, sono loro che controllano il controllore. Il processo è ormai compiuto. Le banche hanno preso il controllo del sistema.

«E che ci fanno? Fanno quello che hanno sempre fatto: credito. Perché è da lì che, sin dal Duecento, nasce il loro profitto: dagli interessi e dalle commissioni che ogni operazione di credito genera. E dunque invadono il mondo di credito, in forme sempre più sofisticate. Si inventano nuove applicazioni del principio della riserva frazionaria, nuovi moltiplicatori della moneta: e nascono così i derivati, una specie di moneta della moneta, una moneta al quadrato. La moneta diventa sempre più bancaria, sempre più virtuale: secondo le stime della Banca dei Regolamenti Internazionali, nel 2010 i prodotti derivati hanno raggiunto i 600 mila miliardi di dollari, circa dieci volte il prodotto interno lordo mondiale.

«Senonché, il contraltare di ogni credito è un debito. E dunque, man mano che aumentano i crediti, il mondo si riempie di debiti. Debiti, debiti e ancora debiti, sino ad arrivare ai debiti sui debiti, che sono l’altra faccia dei derivati. Gli Stati, i privati, tutti: tutti si indebitano fino al collo. Solo negli Stati Uniti, il rapporto tra l’indebitamento complessivo (tra privati, imprese, e Stato) e il prodotto interno lordo è salito, tra il 1974 e il 2010, dal 160 per cento al 370 per cento.»

«A livello mondiale, il rapporto fra il debito totale e il prodotto interno lordo in soli cinque anni, dal 2008 al 2013, è salito da poco più del 160 per cento al 210 per cento.»

«Nel 2020, il debito pubblico americano sorpasserà i 23 trilioni di dollari. Trilioni, cioè migliaia di miliardi.»

«Fa impressione, vero?» «È chiaro che sono cifre insostenibili. Ma il passato ci insegna che, ogni qual volta il debito diventa insostenibile, il sistema collassa. Ne abbiamo già avuto un’avvisaglia nel 2007, con la crisi dei subprime. Certo, quella crisi ha ispirato una serie importante di contromisure da parte di tutte le Banche Centrali; ma se guardiamo bene, a che cosa sono state mirate tutte queste contromisure? Essenzialmente, a salvare le banche in difficoltà, tranne solo qualcuna che è stata lasciata come vittima sacrificale. Ma non hanno neppure sfiorato il nocciolo del problema, l’esplosione dell’indebitamento e della moneta bancaria. È solo questione di tempo perché il sistema collassi di nuovo, e questa volta in maniera definitiva. E ai piani alti della comunità finanziaria mondiale lo sanno benissimo: basta leggere i rapporti dell’ICMB, l’International Center for Monetary and Banking Studies di Ginevra, per rendersene conto.»

«Che lezione possiamo trarre, da questa storia? Che l’aver imposto alla moneta la necessità di una legittimazione da parte dell’autorità – cosa di cui tecnicamente non aveva alcun bisogno, e di cui infatti aveva fatto perfettamente a meno per secoli – ha portato il sistema monetario mondiale sull’orlo del collasso, e, ora come ora, ad essere governato nemmeno più dagli Stati, com’era all’origine di quella imposizione, ma da centri di potere molto più difficili da individuare, come le banche private e gli azionisti che ne hanno il controllo.

 

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