BALCANI. NERVI TESI A SARAJEVO E PRISTINA
(21 Gennaio 2023)
SARAJEVO-PRISTINA. «I Balcani – diceva Winston Churchill – producono più storia di quanta riescano a consumarne», così, a più di trent’anni dalla dissoluzione della Iugoslavia, la tensione nella regione dei Balcani occidentali va pericolosamente aumentando con due epicentri: la Bosnia-Erzegovina ed il Kosovo.
BOSNIA-ERZEGOVINA
Il 9 gennaio, Milorad Dodik, che da novembre presiede il Paese e che da tempo ha adottato una linea fortemente etnonazionalista, ventilando in diverse occasioni la secessione delle aree abitate dai serbi bosniaci, ha celebrato la nascita della Republika Srpska, decisa 31 anni fa.
«Nel corso dei festeggiamenti – scrive Sabrina Sergi[1] – Dodik ha dichiarato che “per giustizia di Dio, questa zona appartiene ai serbi che si sono organizzati e hanno fondato la loro Republika Srpska il 9 gennaio 1992”, aggiungendo che la parata “non la facciamo per dispetto, ma per dimostrare che siamo pronti a lottare per la nostra libertà”.»
La parata del 9 gennaio in sé non è una novità: in passato si teneva a banja Luka, capitale della RS, ma stavolta Dodik ha voluto che avesse luogo a Sarajevo Est, un sobborgo a un quarto d’ora di macchina dalla capitale bosniaca, che durante la guerra fu utilizzato come postazione di cecchini dall’esercito serbo-bosniaco.
Per dimostrare, inoltre, d’aver il sostegno di diverse nazioni straniere, hanno presenziato alla cerimonia, delegazioni straniere, come quelle di Russia, Serbia e Cina.
Dodik, in precedenza, l’8 Gennaio, nella parte della cerimonia celebratasi a Banja Luka ha conferito al presidente russo Wladimir V. Putin la medaglia d’onore dell’Ordine della Republika Srpska, per il suo «impegno e amore patriottico verso la Republika Srpska”, e ha ringraziato il presidente russo e il suo Paese per aver fatto sì che “la voce e la posizione della Republika Srpska (siano) ascoltate e rispettate e la sua posizione preservata sotto l’assalto dell’interventismo internazionale».
«La premiazione – conclude Sergi – è avvenuta naturalmente in absentia, ma Dodik si è ripromesso di consegnargli la medaglia di persona. Non è raro, infatti, che Dodik e Putin si incontrino, anzi l’ultimo viaggio del leader serbo a Mosca risale allo scorso settembre. La sinergia dei due politici desta una forte preoccupazione da parte occidentale. Putin strumentalizza il secessionismo di Dodik quale fattore di destabilizzazione della Bosnia e dell’intera area balcanica, che cerca in tutti i modi di influenzare. Non a caso, dopo l’annuncio della candidatura della Bosnia come membro dell’UE, la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha dichiarato che tale decisione è legata allo scopo, da parte occidentale, di conquistare completamente la regione dei Balcani.»
KOSOVO
L’ultimo Stato europeo, nato dalla disintegrazione della Iugoslavia e riconosciuto da un centinaio di Paesi, ma non ancora membro dell’ONU, è un permanente focolaio di tensione che poteva sfociare in un conflitto aperto tra la fine del ’22 e l’inizio del ’23.
Il Kosovo, incastonato tra Serbia e Albania, senza sbocco al mare, è un protettorato NATO e UE: autoproclamatosi indipendente, la sua sicurezza, non disponendo d’un esercito, è garantita da 3.500 soldati dei paesi membri dell’Alleanza atlantica.
Le crisi in questo territorio seguono, scrive Tim Judah[2], «uno schema preciso.
Cominciano con uno scontro tra i leader serbi e kosovari, con i secondi che danno un ultimatum ai primi per fare qualcosa, oppure si alzano barricate nel nord, una regione abitata da serbi. I diplomatici s’indignano, volano parole grosse e l’esercito di Belgrado avanza fin al confine tra i due paesi, assicurandosi che le immagini dei convogli militari si diffondano online. Subito dopo i nazionalisti serbi cominciano a fantasticare sulla possibilità d’entrare in azione e i tabloid del paese sostengono che i kosovari-albanesi stanno per scatenare una guerra contro il popolo serbo. A quel punto alcune testate occidentali si rendono conto di quello che sta succedendo e qualche giornalista, evidentemente all’oscuro del fatto che in Kosovo ci sono migliaia di soldati della Nato proprio per proteggere il paese dalla Serbia, si convince che Belgrado stia per invadere. Ed è così che finisce tutto, con le barricate che sono messe da parte fino al prossimo appuntamento.»
Per il nazionalismo serbo, il territorio è parte integrante della Serbia: «Per chi vive nel conflitto – scrive Gianluca Carini[3] – la storia non è solo materia scolastica ma dà forma al quotidiano. Anche fatti lontanissimi nel tempo sono raccontati come fossero accaduti l’altro ieri. Non esiste un serbo che non conosca la battaglia di Kosovo Polje: nel 1389, sulla Piana dei Merli, i cristiani guidati dal serbo Lazar Hrebeljanović si scontrarono con gli ottomani del sultano Murād I. Morirono entrambi i condottieri: Lazar Hrebeljanović è stato proclamato santo dalla Chiesa ortodossa, la sua tomba posta nella chiesa di San Sava (la più grande chiesa ortodossa nei Balcani) e nelle bancarelle di Belgrado si trovano ancor oggi le magliette con la sua effige. La stessa chiesa di San Sava, peraltro, è un piccolo trattato politico sulla Serbia odierna: la sua costruzione è terminata solo di recente (grazie al contributo economico della Russia) e molti mosaici raffigurano monasteri ortodossi in territorio kosovaro. Una enorme statua di Knez (principe) Lazar è stata costruita anche nella metà serba di Kosovska Mitrovica, rivolta in direzione della parte albanese.»
Per il nazionalismo kosovaro, quello è un paese che, a prezzo di sangue, si è conquistata l’indipendenza, proclamata unilateralmente il 17 Febbraio 2008, dopo decenni di scontri con le forze di Belgrado, subito dopo la scomparsa di Josip Broz Tito (7 Maggio 1980).
Per i politici di Belgrado e Pristina alimentare il conflitto è pur sempre una valvola di sfogo per scaricare sul vicino le tensioni accumulate sul piano interno: così ha destato preoccupazione la dichiarazione della premier serba Ana Brnabić rilasciata il 21 dicembre 2022: «Siamo davvero sull’orlo di un conflitto armato».
La diplomazia si è allora mobilitata per evitare che scoppiasse un nuovo conflitto nel cuore dell’Europa, ma ogni vertenza può facilmente trasformarsi in un casus belli.
LA QUESTIONE DELLE TARGHE
Nell’Agosto 2022, Pristina vara un divieto di circolazione nel Paese per le auto con targa serba, imponendo ai cittadini serbo-kosovari di utilizzare targhe con l’indicazione “Repubblica del Kosovo”. Il passo compiuto dal Premier kosovaro Albin Kurti scatena le reazioni dei serbi, spalleggiati da Belgrado: in breve nei comuni serbofoni sorgono barricate nei pressi del confine fra i due Paesi.
La tensione rientra dopo un vertice a Bruxelles tra i due leader: Aleksandar Vućić (Serbia) e Albin Kurti (Kosovo).
Pristina rinvia l’applicazione della nuova legge attraverso tappe prestabilite. Da novembre ’22 una multa per i trasgressori,mentre da aprile ’23 scatterà il sequesto del mezzo per i trasgressori.
BLOCCO DI POLIZIA E TRIBUNALI
Non finisce qui: il 5 novembre 2022, oltre 500 serbi impiegati nelle istituzioni kosovare, tra cui polizia e tribunali, si dimettono dai loro incarichi, per protestare contro il governo Kurti: «Un’azione – scrive Marco Siragusa[4] – studiata a tavolino e sostenuta dalla Srpska Lista (Lista serba), il partito maggioritario tra i serbo-kosovari guidato da Goran Rakić e diretta espressione di Belgrado.»
Di fronte a questa prova di forza, l’Unione europea tenta una nuova mediazione: il 23 novembre vien comunicato che le tre parti han raggiunto un accordo che però va in frantumi quando Dejan Pantić, un ex poliziotto serbofono è arrestato dai suoi colleghi albanofoni.
La reazione dei serbi kosovari non si fa attendere: le barricate appena smantellate riappaiono sulle strade che portano al confine tra i due Paesi.
Come se non bastasse, ad alimentare la tensione, Pristina presenta domanda d’adesione all’UE: un’iniziativa vista come un’ennesima provocazione da Belgrado.
Conseguenza: la Serbia, come da schema sopraindicato, chiede di poter inviare proprie truppe a protezione dei serbo-kosovari: la NATO respinge la richiesta.
Sembra che si sia alla vigilia dello scoppio d’un nuovo conflitto, ma il 29 dicembre, colpo di scena: Vučić comunica lo smantellamento di tutte le barricate in seguito al rilascio di Pantić, posto agli arresti domiciliari.
Stando a quanto riportato da alcuni giornali serbi, il leader di Belgrado si sarebbe incontrato segretamente con rappresentanti di Bruxelles e Washington da cui avrebbe avuto la garanzia che nessuno di coloro che han preso parte ai posti di blocco collocati nei pressi della frontiera tra i due paesi sarebbe stato indagato o arrestato.
I serbi rientrano allora nelle istituzioni statali? Per nulla: «La condizione per il loro rientro – spiega il Presidente – è la creazione della Comunità delle municipalità serbe in Kosovo, nel rispetto dell’accordo di Bruxelles del 2013[5], che il premier kosovaro Albin Kurti continua a calpestare». I problemi che hanno scatenato la crisi restano dunque insoluti e la rappresentante Onu in Kosovo, Caroline Ziadeh, lancia un appello, chiedendo alle parti di tornare quanto prima al tavolo del dialogo.
PERICOLOSO GIOCO DELLE PARTI
IL PUNTO DI VISTA SERBO
«Nonostante gli sforzi compiuti in questi anni dall’Unione europea – narra Siragusa – le relazioni tra Serbia e Kosovo sono ancora ben lontane dall’essere “normalizzate”. A beneficiare maggiormente di questo infinito stallo sembrerebbe proprio il presidente Vučić. Vero deus ex machina della politica serba, deve fare i conti con un’opposizione reazionaria e radicale che sul Kosovo non è disposta a fare sconti di nessun tipo. Continuare a minacciare l’intervento armato e, contemporaneamente, presentarsi in Europa come un leader lucido capace di comprendere la necessità del dialogo è la strategia adottata dal presidente serbo. In questo modo può dimostrare ai propri cittadini di essere disposto a tutto pur di difendere i propri compatrioti al di là del confine senza però dover cedere a un riconoscimento formale dell’indipendenza del Kosovo. A questo si aggiunge un dato che potrebbe far suonare più di un campanello d’allarme. Tra il 2015 e il 2021 il budget per la difesa della Serbia è aumentato di circa il 70%, fino a 1,4 miliardi di dollari all’anno. Un aumento che ha permesso di acquistare droni militari cinesi, elicotteri russi e il sistema missilistico terra-aria francese Mistral, con l’intenzione espressa di acquistare anche i famosi droni turchi Barjaktar.»
Dal canto loro, i serbi del Kosovo, riferisce Carini, sono al 90% pro Putin, mentre Vučić è visto come il fumo negli occhi perché L’accusano d’averli abbandonati.
Su 1,8 milioni d’abitanti, vi sono complessivamente 120 mila serbi, prevalentemente di religione ortodossa: più della metà abita nella regione centrale e meridionale del Paese,
il resto nel nord, un’area più circoscritta e confinante con la Serbia.
IL PUNTO DI VISTA ALBANESE
Il premier Albin Kurti, vincitore delle ultime elezioni legislative, ha costruito la sua fortuna politica anche grazie all’intransigenza nei confronti di Belgrado. Certo del sostegno statunitense, in questi anni, ha provato più volte a forzare la mano in direzione di una più compiuta e riconosciuta statualità kosovara. Una politica arrembante che ha creato qualche malumore anche con l’Europa.
Per il Kosovo, l’unica trattativa possibile è quella che parte dalla cosiddetta “proposta franco-tedesca” presentata lo scorso 3 novembre durante il Summit del processo di Berlino.
Il piano prevede tra l’altro:
- il rispetto della giurisdizione e dell’integrità territoriale dei due Paesi;
- relazioni di buon vicinato;
- risoluzione delle controversie con mezzi pacifici;
- rinuncia a bloccare le reciproche aspirazioni di adesione all’Ue (già contenuta nell’Accordo di Bruxelles del 2013);
- inviolabilità, presente e futura, della frontiera esistente tra i due Paesi.
Quanto alla Comunità delle municipalità serbe in Kosovo, richiesta ancor una volta da Vučić, essa è osteggiata da Kurti che teme la creazione anche in Kosovo di una Republika Srpska come in Bosnia-Erzegovina.
Al presente, comunque, l’accoglimento della proposta franco-tedesca da parte di Belgrado appare remota perché verrebbe vista dai serbi-kosovari come un cedimento nei confronti della leadership di Pristina e un implicito riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.
Tuttavia se un giorno i due Stati balcanici vorranno entrar di diritto nell’UE dovranno trovar un accordo di compromesso in modo da sbloccare negoziati che al momento son paralizzati.
PIER LUIGI GIACOMONI
NOTE:
[1] S. Sergi, Balcani senza pace: Putin soffia sul fuoco del nazionalismo in Bosnia ed Erzegovina, in geopolitica.info, 18 Gennaio 2023;
[2] T. Judah, Kosovo Ancora troppi ostacoli sulla strada della pace, in internazionale N. 1494, 13 Gennaio 2023;
[3] G. Carini, Kosovo. Kosovska Mitrovica, città di serbi e albanesi divisi dal fiume. Anche a Natale, in avvenire.it, 9 Gennaio 2023;
[4] M. Siragusa, SERBIA E KOSOVO AI FERRI CORTI, in Rivista Il Mulino, 4 gennaio 2023
[5] Gli accordi di Bruxelles firmati nel 2013 furono un tentativo messo in atto dall’UE nell’ambito d’un processo di normalizzazione delle relazioni” tra Serbia e Kosovo.
A cinque anni esatti dalla proclamazione dell’indipendenza dell’ex regione autonoma all’interno della Repubblica serba, si stabilì:
- la creazione di un’Associazione delle municipalità a maggioranza serba nel nord del Kosovo (Mitrovica Nord, Zvecan, Zubin Potok e Leposavici);
- Belgrado s’impegnava a non bloccare il percorso d’adesione all’Unione di Pristina.
- al Kosovo veniva riconosciuta una propria autonomia decisionale in campo internazionale;
- la Serbia poteva invece rivendicare la tutela dei serbo-kosovari presenti nel nord del Paese senza l’obbligo di riconoscere il nuovo Stato.
Purtroppo, i patti del 2013 son rimasti lettera morta: Pristina ha sempre boicottato la costituzione della comunità delle municipalità serbe del Kosovo settentrionale; i serbi han sempre bloccato qualunque tentativo d’un riconoscimento della repubblica kosovara.
Del resto, anche all’interno dell’UE vi sono cinque Stati che non riconoscono Pristina: tra essi Spagna e Romania.