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ASIA BIBI E’ INNOCENTE
(2 Febbraio 2019)

ISLAMABAD. Asia Bibi è innocente: la Corte Suprema pakistana l’ha assolta lo scorso 31 ottobre dal gravissimo reato di blasfemìa. Dopo tre mesi, nei giorni scorsi, la stessa istanza ha ribadito il concetto in un’altra sentenza, respingendo il ricorso degli estremisti islamici che volevano assolutamente che la donna tornasse in carcere, in attesa d’esser messa a morte. Ora asia potrà lasciare il paese, assieme al marito ed ai figli, per non correre il rischio d’essere assassinata.
La donna, ultracinquantenne, sposata e madre di cinque figli, era in carcere dal 2009, quando alcune sue colleghe di lavoro la denunciarono d’aver offeso il Profeta Maometto durante un diverbio.

Sia il tribunale di prima istanza che l’Alta Corte del Punjab, la provincia d’origine d’Asia, l’avevano riconosciuta colpevole e condannata all’impiccagione, ma la massima istanza giudiziaria del Paese ha sovvertito due volte i loro verdetti.

La vicenda però è tutt’altro che conclusa, almeno nel Paese: i fondamentalisti infatti non si rassegnano d’aver ripetutamente perso la loro causa ed Asia Bibi, divenuta ormai simbolo della lotta per l’eliminazione dal Pakistan di tutte le minoranze non verrà presto lasciata in pace, ma anche il governo, guidato dall’ex eroe del cricket, Imran Khan, in carica da fine agosto 2018, è inquieto.

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LA VICENDA.

Asia Bibi era stata arrestata nel giugno 2009, dopo un litigio con alcune sue colleghe di lavoro, braccianti agricole musulmane in Punjab: era stata insultata per aver attinto a una fonte d’acqua ed averla così «contaminata», secondo le colleghe  perché cristiana. Da quell’avvenimento è nata una querelle religiosa, dapprima locale, poi nazionale, che ha fatto emergere tutti i foschi risvolti della legge sulla blasfemìa ed il mai sopito conflitto tra la maggioranza musulmana e la minuscola comunità cristiana.

Le compagne di lavoro d’Asia, assistite da un Imam radicale, l’hanno denunciata alle autorità, provocandone l’arresto, il processo di primo e secondo grado ed infine la condanna alla pena capitale.

In più occasioni, le udienze sono state rinviate perché molti magistrati, intimiditi dalle minacce di morte pronunciate dai gruppi estremisti islamici, hanno chiesto ed ottenuto di non occuparsi del caso: a favore della donna, si espressero l’allora governatore del Punjab, il musulmano Salman Taseer ed il ministro federale per le minoranze Shahbaz Bhatti, che pagarono con la vita i loro pronunciamenti.

Nel processo d’appello, dopo tre anni di continui rinvii, l’Alta Corte del Punjab, nel 2014, confermò la pena di morte per impiccagione, suscitando lo sdegno dell’opinione pubblica internazionale.

Nel ricorso davanti alla Corte Suprema, la difesa di Asia è stata affidata alle cure dell’avvocato musulmano Saiful Malook che, fin dal principio, si era detto convinto dell’innocenza della donna e fiducioso nella piena assoluzione: alla fine, fortunatamente,  i tre giudici hanno confermato con un verdetto d’assoluzione che le ragioni sostenute dal difensore avevano un fondamento.

L’avvocato, per sfuggire all’ira dei fondamentalisti islamici, è, dopo la sentenza della corte di Islamabad, riparato all’estero.

Asia Bibi, però, a causa di quanto accaduto nel 2009 ha trascorso nove anni in prigione, lontana da marito e figli, col timore d’essere messa a morte da un momento all’altro.

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LA LEGGE SULLA BLASFEMìA.

Nella Repubblica Islamica del Pakistan, secondo l’art. 2 della Costituzione del 1956, l’Islam è la religione di Stato: il successivo art. 31 affida allo Stato l’onere di scoraggiare la diffusione di pregiudizi relativi all’Islam e d’ostacolare la diffusione d’altri culti a qualunque livello.

L’articolo 295C del Codice Penale introdotto nel 1986, recita che chiunque, attraverso la parola, lo scritto offenda il nome del Profeta Maometto o altri profeti, direttamente o indirettamente, sia condannato a morte e multato: chi accusa, sempre secondo questa disposizione, non ha l’onere di provare ciò che afferma.

Il processo per blasfemìa deve tenersi davanti ad una corte presieduta da un giudice di religione musulmana.

Le norme, adottate durante la spietata dittatura militare del generale Muhammad Zia-ul-Haq (1977-1988), colui che fece impiccare l’ex Premier laico Zulfikar Ali Bhutto, sono, secondo le Nazioni Unite, tra le più dure che esistano al mondo. In precedenza, durante il governo Bhutto, laico e democratico, il Parlamento aveva esaminato norme simili, proposte per limitare l’espansione di confessioni non islamiche, come il cristianesimo.

Secondo i dati forniti dalla Commissione nazionale di Giustizia e Pace (Ncjp), un organismo della Chiesa cattolica pakistana, dal 1986 al 2014, almeno 1300 persone sono state accusate di blasfemìa: di esse 60 sono state assassinate prima del processo e 72 dopo l’assoluzione.

Spesso accade, infatti, che chi viene rilasciato o prosciolto dalle accuse venga presto eliminato in un agguato da estremisti islamici, la stessa sorte tocca a chi pubblicamente prende posizione contro le norme in vigore giudicandole un modo per regolare certi conti o per tener inpiedi un regime oppressivo verso i non islamici, come i cristiani o gli ahmadi, ma anche per colpire fedeli in allah non allineati con le posizioni ufficiali dei Mullah.

Questa fu la sorte toccata, come già detto, al Governatore del Punjab Salmaan Taseer, musulmano, che definì le norme sulla blasfemìa una «legge nera» perché si presta alle più diverse strumentalizzazioni ed al Ministro federale per le minoranze religiose, Shahbaz Bhatti, cattolico, che disse: «La legge sulla blasfemìa è spesso utilizzata come uno strumento per risolvere questioni personali; l’85% dei casi sono falsi. Molti innocenti sono stati vittima di casi di blasfemìa. I tribunali emettono verdetti, ma poi i crimini non vengono provati dalle alte corti.»

Attualmente, secondo gli ultimi dati disponibili, il 96% della popolazione pakistana è di fede islamica, mentre solo il restante 4% professa altre fedi. Nel Parlamento, rinnovato a Luglio vi sono 10 seggi su 342 riservati alle minoranze religiose: le confessioni non islamiche più diffuse sono gli Ahmadi, culto di derivazione musulmana, non riconosciuto dagli islamici, gli indù ed i cristiani, 1,6 milioni d’aderenti su una popolazione che complessivamente tocca i 200 milioni d’unità.

PIER LUIGI GIACOMONI

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