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ARGENTINA. UN PAESE SOTTO SHOCK.
(17 novembre 1998)

BUENOS AIRES. «Dio è dappertutto, ma ha i suoi uffici a Buenos Aires.»
E’ uno dei tormentoni che ci si sente ripetere spesso in argentina: un paese con una grossa e pesante testa e molte
piccole gambe; un Paese che crede di essere una cosa e invece è un’altra; un paese che ancora vive di miti del
passato e guarda con tristezza al suo presente.
I tre grandi shock. Negli anni 40-50 l’Argentina era un Paese in marcia verso il club dei Paesi più fortunati:
l’economia tirava, le esportazioni facevano uscire dal territorio nazionale vagoni di carne, latte e lana e
facevano affluire montagne di denaro.
Dall’Europa distrutta dalla guerra una nuova ondata di immigrati forniva manod’opera e con essi giunsero anche
vecchi gerarchi nazifascisti che trovarono ospitalità.
L’incantesimo, però, ad un tratto si interruppe, le cose cambiarono bruscamente e l’Argentina fu colpita da una
crisi di lungo periodo sia di tipo economico che istituzionale.
Conseguenza: fragilità dei governi, frequente intervento delle forze armate, accentuato populismo dei politici.
Il fondo fu toccato negli anni settanta quando divampò lo scontro tra una destra massonico-affaristica e una
sinistra che aveva elaborato in chiave marxista il pensiero di Peròn.
Ne seguirono anni di violenze inaudite e quindi la brutale dittatura di Videla, Massera e compagni.
Da quella esperienza l’argentina ne ha tratto ferite che ancora stentano a rimarginarsi.
Oltre al triste fenomeno delle sparizioni, e delle torture, peraltro piuttosto noto, si devono aggiungere le amare
rivelazioni sui casi di bambini cui è stata mutata l’identità, le truculente rivelazioni sui metodi impiegati per
la liquidazione definitiva dei desaparecidos e sulle complicità nazionali e internazionali.
A questo shock, i cui fischi effetti si riflettono ancora oggi sulla vita civile, si devono aggiungere le batoste
subite nella guerra delle Falkland-Malvine ed il retaggio dell’iperinflazione degli anni Ottanta.

Tutti insoddisfatti. Le istituzioni democratiche che hanno ereditato il potere dopo il disastro delle Falklands
(1983) hanno solo in parte dimostrato la loro adeguatezza.
Il presidente Alfonsin tentò di riequilibrare il rapporto tra le classi procedendo ad una redistribuzione del
reddito nazionale.
La risposta da parte dell’oligarchia dominante fu terribile: diversi tentativi di golpe, smobilitazione dei
capitali, demolizione dell’immagine pubblica del Capo dello Stato.
In breve, nel 1989 l’esponente radicale dovette cedere il potere al suo successore il peronista Carlos Saul Menem.
Il nuovo leader del Paese si prefisse l’obiettivo di debellare l’inflazione (circa il 10.000 percento all’anno) e
ciò avvenne mediante una terapia d’urto che portò ad una traumatica liberalizzazione delle risorse, ad una
selvaggia serie di privatizzazioni e all’aggancio del peso al dollaro (il cambio è fissato a 1 contro 1).
Questa politica è oggi criticata sia dalla sinistra tradizionale, sia dai peronisti che ritengono tradite le idee

fondamentali del’ex dittatore.

La realtà quotidiana. Oggi la vita di un argentino è molto dura: gli stipendi sono molto bassi, i costi alti.
La separazione sociale si è accentuata determinando una classe medio-alta numericamente ristretta e una consistente
massa di poveri e diseredati.
I furti, le rapine e le violenze private sono in costante crescita, così come i suicidi, le malattie nervose e le
patologie psichiatriche.
Ogni qualvolta si deve far ricorso al credito, e ciò avviene spesso perché gli stipendi dei pubblici dipendenti v
vengono pagati con parecchio ritardo, ci si deve accollare pesanti tassi di interesse.
Sulla famiglia gravano anche i pesanti costi dei servizi privatizzati: la salute, i trasporti, le comunicazioni
hanno costi notevolmente elevati per il reddito di cui si dispone.
In questo clima di recriminazione e sfiducia, ma anche di speranze per un futuro migliore, sta decollando la
campagna per le presidenziali del ’99.
Le opposizioni, vincitrici delle legislative del ’97, punteranno sull’alleanza tra UCR-FREPASO, mentre i peronisti
dovranno scegliere un successore al Presidente Menem.
Per ora, non pare che ci siano le condizioni per un ritorno sulla scena politica dei militari ed una riapparizione
di vecchie soluzioni autoritarie, ma le strutture democratiche dovranno saper dar risposta ai mali strutturali del
Paese e far superare le frustrazioni indotte dai tremendi traumi subiti nell’ultimo cinquantennio.

PIER LUIGI GIACOMONI

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