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ARGENTINA. MASSA O MILEI?
(3 Novembre 2023)

BUENOS AIRES. Massa o Milei? Questo è il dilemma: mandare alla Casa Rosada Sergio Massa, l’uomo che in qualità di superministro dell’Economia sta conducendo il paese all’iperinflazione (140% su base annua) o Javier Milei, colui che sogna di smantellare il Paese per rifarlo da capo?

Il 22 ottobre, in occasione del primo turno delle presidenziali, il primo ha prevalso nettamente sul secondo, ma il 19 novembre, giorno del ballottaggio, sarà tutta un’altra storia.

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I RISULTATI

LA PASO

Il 13 agosto, in occasione della PASO,le primarie obbligatorie che dal 2009 precedono le consultazioni generali, Milei prevale sia sui peronisti che sui conservatori.

La Libertad Avanza, il suo partito, è preferita dal 35% dei votanti, mentre il 28% si pronuncia per Juntos por el Cambio, la coalizione di centrodestra che fa capo all’ex presidente Mauricio Macri ed il 27% vota per Unión por la Patria, il rassemblement sostenuto dai peronisti ufficiali.

Nelle settimane che precedono il voto del 22 ottobre, primo turno delle presidenziali e delle legislative parziali, molti scommettono che il crollo del valore del Peso argentino, che sui mercati tocca livelli sempre più bassi, fin a superare la barriera psicologica dei mille Pesos per un dollaro
catapulterà Milei alla Casa Rosada senza bisogno del ballottaggio.

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LE PRESIDENZIALI

IL PRIMO TURNO

Le cose van diversamente: a spoglio completato, Sergio Tomás Massa, peronista, sopravanza Milei di due milioni di voti conquistando il 36,68%.

L’altro fa un magro 29,86%, mentre Patricia Bullrich, della destra tradizionale, arriva terza col 23,88%.

Seguon altri candidati che raccolgono il 9,58%, percentuale che può far comodo soprattutto a Massa perché viene da elettori di sinistra che certo non voteran per il “loco”.

Malgrado il voto in Argentina sia obbligatorio, si esprime solo il 74% del totale.

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LE LEGISLATIVE

Come sempre, parallelamente alla gara per la Casa Rosada, si eleggono anche le camere federali e diversi poteri locali.

La Camera dei Deputati è rinnovata per metà dei suoi componenti (130 su 257), il senato per un terzo (24 su 72).

Nessuna delle coalizioni in campo ottiene la maggioranza assoluta, così il nuovo Presidente dovrà negoziare per far accettare i propri progetti di legge.

Alla Camera, l’UP avrà 108 seggi, JxC 93, LLA, 38, altre forze, 19;

Al Senato, UP avrà 34 mandati, JxC 24 e LLA 8, altre forze 6.

Fra due anni, altro rinnovo parziale.

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PERCHE’ QUESTO RISULTATO?

All’indomani del voto, serpeggia tra i commentatori lo stupore: come mai Milei non ha vinto? Perché i peronisti non son distrutti dalle urne? Com’è che un governo così screditato, come quello di cui Massa fa parte, ha quasi quasi sfiorato la vittoria?

Secondo Martín Caparrós[1], scrittore argentino e commentatore di punta di El País, «davanti alla minaccia di perdere tutto, [i peronisti] hanno messo sul tavolo la loro esperienza decennale e i trucchi di sempre – prebende, soldi, riscossione di vecchi debiti, sfruttamento di vecchie alleanze», ma anche Milei ha di fatto giocato a favore di Massa perché «ha diviso la destra» ed «ha spaventato milioni di persone» con la minaccia di smantellare quel po’ di stato sociale che vige tuttora nel Paese.

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I PROTAGONISTI

SERGIO TOMAS MASSA

Esponente di punta del peronismo da quasi due decenni, Sergio Tomás Massa è attualmente titolare d’un superministero che aggrega Economia, Produzione e Agricoltura. Non è un economista, ma un avvocato, anzi più esattamente un politico di carriera che non ha mai nascosto le sue ambizioni presidenziali.

Nato a San Martín nel 1972, entra nel peronismo a metà degli anni Novanta, quando il partito conservatore Unión del Centro Democrático (UCeDé) ritira l’appoggio a Carlos Saúl Menem ritenuto troppo liberista.

Leader della militanza giovanile liberale della periferia di Buenos Aires, entra nel giro dei sindacalisti Luis Barrionuevo e Graciela Camaño nella sua città natale. Mentre i suoi padrini politici raggiungon incarichi nel 2000, comincia la sua ascesa nella pubblica amministrazione.

A 27 anni è eletto deputato provinciale a Buenos Aires. Due anni più tardi, dopo il collasso del governo De La Rúa e il succedersi di cinque presidenti in undici giorni, Eduardo Duhalde (2001-03) lo nomina capo dell’amministrazione della Previdenza Sociale (ANSES), posizione in cui rimane anche sotto la presidenza di Néstor Kirchner (2003-07). Responsabile dei sussidi e degli stanziamenti durante il periodo di boom del kirchnerismo, Massa promuove il pensionamento anticipato dei disoccupati e ottiene aumenti delle pensioni quando ce n’è più bisogno: dopo il Corralito (2001), la disoccupazione tocca il 20%.

Fedele a Kirchner, Massa lascia la direzione della previdenza sociale nel 2007 per diventare sindaco di Tigre, comune alla periferia nord di Buenos Aires, costruito sulle zone umide che collegano il fiume La Plata col Paraná.

Un anno dopo, Cristina Fernández de Kirchner, Presidente dal 2007 al ’15 lo nomina capo del suo staff: il Paese è scosso da oltre 100 giorni di scioperi nel settore agricolo per le trattenute sulle importazioni che stan logorando la popolarità d’un governo appena eletto, Massa sembra l’uomo giusto al posto giusto. Il suo nome è garanzia di moderazione e consenso, ma i buoni rapporti con la leader duran poco: un anno più tardi lascia l’esecutivo e diviene un avversario della “Presidenta”.

Nel 2013, come peronista dissidente, è eletto al parlamento e si oppone ad una riforma costituzionale sponsorizzata dalla Casa Rosada. I giovani peronisti lo chiamano “traditore”.

Nel 2015, fonda insieme ad un gruppo di governatori provinciali il Frente Renovador: si presenta alle presidenziali ed arriva terzo alle spalle di Macri, conservatore, e Scioli, candidato ufficiale di Kirchner.

«Non voglio che vinca Daniel Scioli», dichiara Massa durante la campagna per il ballottaggio, ben consapevole che i suoi oltre cinque milioni di voti (il 21,4% dell’elettorato) lo rendon arbitro del duello che vede vincitore di stretta misura Mauricio Macri (2015-19) sul peronista.

Massa non sostiene direttamente Macri, ma flirta con lui: nel gennaio 2016, accompagna il Presidente al forum economico mondiale di Davos, un conclave dell’élite politica ed imprenditoriale, cui un leader argentino non partecipa dall’inizio del kirchnerismo. Macri vuol vicino a sé Massa perché sa creare
consenso, ma quando questi gli suggerisce di costruire un accordo economico e sociale con tutte le forze disponibili, rifiuta.

Massa si allontana da lui e si riavvicina a Cristina: nasce il Frente de Todos che propone per le elezioni del ’19 il binomio Fernández-Kirchner.

Gli argentini ormai detestano Macri e la sua politica economica, quindi eleggon la coppia: Massa li appoggia, venendo successivamente ricompensato con l’elezione alla presidenza della camera.

Nel ‘luglio 2022, dopo le dimissioni del Ministro dell’Economia Martín Guzmán, è nominato al suo posto ed ora corre per la presidenza della Repubblica.

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JAVIER GERARDO MILEI

Nato nel 1970 a Buenos Aires, da madre casalinga e padre gestore d’un’azienda di trasporti, Javier Milei si dedica al calcio e poi al rock, ma ha la passione per l’economia.

Cresciuto in una famiglia dove alcolismo e violenza segnano molte giornate, sviluppa un’aggressività che oggi è il marchio più caratteristico del suo personaggio.

Laureatosi presso l’università privata di Belgrano, che non è tra le più prestigiose del Paese, diventa professore: scrive articoli, tiene conferenze e nel 2016 partecipa ad un talk show in TV divenendo presto una star perché il suo linguaggio spesso volgare fa crescere l’audience.

Forte della sua popolarità mediatica, entra in politica alla fine del 2020 e in parlamento l’anno dopo: le vittime dei suoi attacchi sono la “casta” che ha governato l’Argentina per decenni, ma anche coloro che vivono di assistenzialismo.

Dieci anni fa, dicono alcuni suoi colleghi che lo conoscono, il suo pensiero economico era “convenzionale, favorevole alla riduzione della spesa pubblica, poi la radicalizzazione: diventa apostolo della scuola austriaca, nata a Vienna alla fine del XIX secolo: i principali pensatori di questo gruppo sono Ludwig von Mises, Friedrich Hayek e soprattutto Murray Rothbard, padre del pensiero “paleolibertario”, un misto di libertarismo economico e conservatorismo reazionario.

I viennesi sognano uno Stato che intervenga il meno possibile in economia, lasciando piena libertà alla “mano invisibile del mercato”: qualcosa di simile pensano anche i Chicago Boys che Milei ammira e che furono i consiglieri delle dittature latinoamericane degli anni Settanta e Ottanta del Novecento.

Perciò Milei è contrario alla spesa pubblica, vuol privatizzare tutti i servizi, cancellare ogni forma di stato sociale.

Ammiratore di Jair Bolsonaro e Donald J. Trump ed anche del decennio neoliberista di Carlos Saúl Menem, durante la campagna elettorale porta con sé nei suoi comizi due motoseghe per indicare cosa farà se diverrà presidente: eliminerà otto ministeri tra cui quelli della sanità e dell’istruzione, dollarizzerà l’economia, introdurrà dei voucher per finanziare gli studi.

E’ contro l’aborto e l’educazione sessuale nelle scuole, mentre è per la vendita dei bambini e degli organi da trapiantare; è favorevole al libero consumo di stupefacenti e al cambio di genere.

Ritiene giusto che la gente possa armarsi per difendersi dalle aggressioni.

Se queste eran parole dette prima del voto del 22 ottobre, dopo il linguaggio è cambiato: il 24 l’ex presidente Mauricio Macri organizza una cena cui son invitati Milei e Bullrich. Obiettivo: stipulare un patto in vista del ballottaggio tra la vecchia e la nuova destra per battere i kirchneristi.

La stampa argentina riferisce che Milei pare particolarmente conciliante con entrambi, che pure aveva selvaggiamente attaccato in precedenza.

L’accordo fra i tre fa esplodere Juntos por el Cambio: l’Unión Cívica Radical, il partito che fu di Alfonsin, dichiara che non sosterrà Milei e lo stesso dicono altre forze minori.

Anche il capo del governo di Buenos Aires, area elettorale più importante, Horacio Rodríguez de Larreta lascia intendere che “el loco” non è il Presidente che preferisce.

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IL PERONISMO

Prima del voto molti commentatori davan per morto il peronismo che, dicevano, sarebbe uscito con le ossa rotte dal confronto elettorale.

In realtà, come abbiam visto, le cose son andate diversamente: cos’è allora questo peronismo che da quasi ottant’anni condiziona la vita politica ed economica argentina, nel bene e nel male?

Per Juan Domingo Perón, il movimento da lui fondato, non è un partito come gli altri, perché ha una capacità d’adattamento maggiore di tutti al comune sentire degli argentini, specialmente dei più poveri, i descamisados.

Come scrive Martín Caparrós: «Dalla sua creazione, ormai 78 anni fa, è stato nazionalista mussoliniano, operaio e resistente, guevarista, socialdemocratico, democristiano, neoliberista e tanto altro. In ogni contesto ha saputo adattarsi alle rivendicazioni della gente, perché in realtà la sua essenza è rimasta intatta, quella di una macchina per ottenere e mantenere il potere. I Kirchner l’hanno fatto per decenni. Dopo anni di governo neoliberista nella loro provincia, [Santa fé, NDR] si sono trasformati in statalisti falsamente di sinistra perché la situazione lo richiedeva.»

«Questa “plasticità” – nota ancora Federico Rivas Molina[2] – è l’essenza del peronismo. Ecco perché gli storici parlano di fasi diverse e ben differenziate.»

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LE CINQUE FASI DEL PERONISMO

1. L’ETA’ D’ORO

Il primo peronismo è quello delle origini che si fa negli anni 40 bandiera della giustizia sociale e intraprende il più grande processo di redistribuzione della ricchezza nella storia argentina.

Il Paese può contare sugl’introiti delle esportazioni di carne e grano in europa, allora gravemente impoverita dalla guerra e bisognosa d’importare derrate alimentari.

L’impatto è così profondo che per molta gente quella è rimasta a lungo l’età dell’oro del movimento.

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2. IL PERONISMO DELL’ESILIO

Il colpo di stato del 1955, che richiede per riuscire il bombardamento di Plaza de Mayo, dà inizio alla fase dell’esilio di Perón e dei successivi esperimenti civili-militari, per cancellare il peronismo dalla mappa politica argentina.

Per anni, i militari impediscono al generale di rimetter piede nel Paese, ma non riescono ad estirparlo dalla mente della gente.

Peraltro, dall’estero Perón non esita a fomentare la protesta della “gioventù meravigliosa” che più tardi avrebbe dato vita ai Montoneros.

E’ il secondo peronismo: quello di lotta contro le diverse amministrazioni che si succedono tra il ’55 e il ’73: a fine ’72, le forze armate annunciano che ci saranno nel marzo successivo le presidenziali.

Perón non può candidarsi, ma i giustizialisti propongono Héctor Cámpora che, insediatosi alla Casa Rosada il 25 Maggio ’73, prepara il rientro del vecchio generale: lo slogan allora è “Cámpora al gobierno, perón al poder”.

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3. IL RIENTRO E L’EPURAZIONE

Nel giugno ’73 Perón torna in Argentina ed a settembre si fa elegger per l’ultima volta Presidente de la Nación.

Al suo fianco c’è l’ultima moglie María Estela Isabel Martínez, più nota come Isabelita, che corre come vice: la coppia vince col 61,81%.

E’ la terza fase del peronismo: «Quello che sbarca a Buenos Aires – spiega la storica Camila Perochena – è il Perón della “Guerra Fredda”, che deve fare i conti con nuovi attori all’interno del suo movimento: la sinistra armata, i Montoneros, e la gioventù peronista.

Perón sceglie la destra, avviando così un vasto piano d’epurazione che mira ad emarginare la sinistra: il regime usa il pugno di ferro contro i Montoneros. Nasce la Triple A (Alianza Anticomunista Argentina) che elimina quanti più attivisti di sinistra riesce.

Dall’altra parte, la stessa cosa fanno sia i Montoneros che l’ERP, guerriglieri che agiscono nel Paese.

Per anni, non passa giorno senza che i giornali non annuncino che qualcuno è caduto sotto i colpi dei diversi killer in azione.

Nel luglio ’74 Perón muore: gli succede Isabelita che si avvale di López Rega che fin al 1975 è l’uomo forte del governo e regista occulto della Triple A.

Il 24 Marzo 1976, per ristabilire l’ordine, le forze armate prendono il potere senza sparare un colpo: la “presidenta” è mandata in esilio, mentre il Paese piomba nel terrore della tortura e delle sparizioni, erette a metodo di governo.

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4. TORNA LA DEMOCRAZIA

Dopo la sconfitta patita dal regime militare nella guerra delle Falklands-Malvine (1982) contro la Gran Bretagna, gli uomini in divisa rientrano malvolentieri nelle caserme.

Per i peronisti, l’83 segna però un periodo “buio”: le elezioni sono vinte dal radicale Raúl ricardo Alfonsin e fra i giustizialisti prende quota l’area neoliberista che ha in Carlos Saól Menem il suo leader.

Il seiennio Alfonsin è caratterizzato dall’iperinflazione: i prezzi salgono a vista d’occhio e il Peso è una moneta ormai senza alcun valore. Ovviamente il malcontento cresce e Alfonsin rischia più d’una volta d’esser rovesciato dai militari che non voglion esser processati per i crimini commessi durante la dittatura.

Menem nel maggio ’89 è eletto e a luglio assume la carica.

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5. LA FASE NEOLIBERISTA

«Il menemismo è quando il peronismo si allontana dalle sue fonti ideologiche, che sono lo Stato come benefattore» dice Felipe Pigna, un altro storico.

«Menem vira verso il neoliberismo», spiega Perochena, «ma non solo. Promuove anche una riconciliazione col passato peronista, abbraccia l’ammiraglio Isaac Rojas, colui che aveva rovesciato Perón nel ’55.

Menem, grazie al suo ministro dell’Economia Domingo Felipe Cavallo, àncora il Peso al dollaro e privatizza poste, ferrovie, telefoni… tutto è in vendita a Buenos aires e per qualche tempo sembra che in Argentina siano tornati i tempi d’oro.

Poi l’incantesimo si rompe: nel ’99, quando Fernando de la Rúa, radicale, diventa Presidente è già chiaro che l’Argentina non può reggere il rapporto di uno a uno col dollaro americano, perché la sua rivalutazione sta rendendo vieppiù care le esportazioni agricole e fa aumentare i prezzi dei beni d’importazione e i tassi d’interesse.

Il governo svaluta e due anni dopo dichiara default: De la Rúa si dimette e fugge all’estero, altri cinque presidenti si succedono in poche settimane, mentre la gente sbatte le pentole vuote per strada e grida “Que se vayan todos”.

E’ l’apocalisse: i peronisti ne approfittano per tornare al potere, dapprima con Eduardo Duhalde poi coi Kirchner.

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6. LA FASE PROGRESSISTA

La quinta tappa del peronismo, dicono gli storici, inserisce nel lessico del movimento termini come “democrazia” o “diritti umani”, che non c’erano nel linguaggio di Perón.

Con l’elezione di Néstor Kirchner nel 2003 e poi della moglie Cristina quattro anni dopo fan imboccare al Paese un’epoca di ritorno dello stato nell’economia e di battaglia contro il FMI per ottenere prestiti a condizioni meno onerose.

La crisi economica e i conflitti tra kirchneristi ed avversari decretano però il tramonto del kirchnerismo: nel 2015,come già detto è eletto alla Casa rosada Mauricio Macri che tenta la strada della svalutazione monetaria per dar fiato all’economia di esportazione. A fine mandato deve accettare un enorme rialzo dei tassi d’interesse e un prestito da 57 miliardi di dollari per evitare un nuovo default.

Ora è in campo Sergio Tomás Massa, uomo moderato, pragmatico chepropone dopo le elezioni di formare un governo d’unità nazionale per affrontare i molti problemi che affliggono l’Argentina: se sarà eletto alla Casa Rosada introdurrà la sesta fase del peronismo o avvierà il suo definitivo tramonto?

PIER LUIGI GIACOMONI

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NOTE:

[1] M. Caparrós, In Argentina il favorito ora è Sergio Massa, Internazionale N. 1535, 27 ottobre 2023;
[2] F. rivas Molina, El peronismo se reinventa, una vez más, elpais.com, 29 de octubre 2023.

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