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ARABIA SAUDITA. VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI
(10 ottobre 2015).

RIYAD. Oggi è venerdì ed in tutto il mondo musulmano, è festa: non si lavora e chi è credente in Allah va alla moschea per la preghiera. E’ un po’ come per i cristiani andare alla messa domenicale: è un momento gioioso e per questo s’indossa il vestito della festa. In Arabia Saudita c’è un di più: allo stadio di Jeddah, dopo la preghiera, ci sono le esecuzioni capitali di coloro, sauditi o stranieri, che hanno violato le leggi del Paese, soprattutto quelle ispirate dalla Shaariya, l’insieme di norme inserite nel Corano nel VII secolo d.C.

Lo Stato. L’Arabia Saudita, così come lo conosciamo oggi è nato nel 1932 con l’unificazione fra il regno del Hijaz e il Sultanato del Najd. La dottrina ufficiale del Paese è il wahhabismo, una corrente dell’Islam fiorita nel XVIII secolo. Il wahhabismo è una forma estremamente rigida di Islam sunnita, che insiste su un’interpretazione letterale del Corano. I wahhabiti credono che tutti coloro che non praticano l’Islam secondo le modalità  da essi indicate siano pagani. Lo Stato, perciò, è una monarchia assoluta teocratica che trasmette il proprio potere in linea fratrilineare: il re, alla morte, tramanda il trono al fratello e così via.
La famiglia reale saudita è composta da diverse migliaia di persone, se ne calcolano circa 10 mila.
Non esiste nel Paese un Parlamento e solo negli ultimi anni sono stati creati dei consigli locali ed un’assemblea consultiva senza nessun potere.
Le ricchezze principali del Paese sono il petrolio ed il gas naturale.
fino a poco tempo fa costituivano il 95% degl’introiti delle esportazioni, ora però stanno diminuendo, anche a causa del progressivo, anche se lento, esaurimento delle scorte.

I diritti umani. In Arabia Saudita non è consentita alcuna libertà individuale, vi sono continue violazioni dei diritti umani e da alcuni anni esplodono proteste per l’ottenimento di standard di vita dignitosi.
Le manifestazioni per la liberazione dei dissidenti sono pacifiche e attuate per mezzo di scioperi, marce, cortei e l’uso dei social network, utilizzati per evitare la repressione delle autorità saudite diffondendo notizie e informazioni
e creando un’ampia rete di contatti. Il pretesto di cui si è servito il Governo Saudita per mettere a tacere le critiche e le proteste è sempre la religione,
una strategia usata fin dalla nascita del Regno nel 1932, che permette di delegittimare facilmente qualsiasi tipo di opposizione alla Dinastia Saudita.
La Legge Saudita deriva dai principi della Shaariya, che non sono codificati e non seguono un sistema giurisprudenziale, come l’english common law, quindi, i giudici sono liberi di interpretare il Corano e le tradizioni profetiche arbitrariamente. Le accuse sono spesso vaghe nei confronti dei dissidenti, come ad esempio l’accusa
di “andare oltre il regno dell’obbedienza”.
In Arabia Saudita la situazione dei diritti umani ha toccato soglie preoccupanti. Il Governo, dal canto suo, continua ovviamente a negare che avvengano tali violazioni.
Nel rapporto del 1997 sui diritti umani nell’Arabia Saudita, il Dipartimento di Stato americano ha affermato che “La libertà religiosa non esiste”.

Il governo infatti proibisce la pratica pubblica di altre religioni: può cercare nelle case e deportare chiunque sia trovato in possesso di simboli religiosi (come, ad esempio,
la Bibbia o il rosario); i non musulmani non possono diventare cittadini Sauditi; la presenza degli operai cristiani è accettata finché rimane occulta; le donne straniere subiscono pressioni perché coprano braccia e gambe; a volte la polizia religiosa chiede addirittura alle donne delle Forze Armate Americane di rivedere la loro acconciatura. Le dure misure imposte dal Wahhabismo di Stato, che hanno lo scopo di garantire l’osservanza delle prescrizioni islamiche, sono fatte rispettare dai “Commissari per la pubblica morale” che prendono provvedimenti nei confronti di tutti i cittadini, musulmani e non.
Ma le anomalie rispetto agli standard occidentali non si riscontrano solo nel campo della religione.
L’Arabia Saudita è uno degli ultimi paesi che ha reso illegale la schiavitù e il traffico di esseri umani, proibizione giunta solo nel 1962. La situazione è ancora preoccupante, infatti nel 2005 il regno saudita è stato descritto come il terzo paese al mondo con più traffico di schiavi.
L’ordinamento giuridico prevede punizioni corporali (amputazione delle mani e dei piedi per i ladri, e fustigazione, il cui numero di frustate è deciso dal giudice e non dalla legge e può arrivare fino ad alcune migliaia). Quando, nel 2002, il Comitato delle Nazioni Unite contro la Tortura ha ammonito l’Arabia Saudita per queste pratiche che adotta in osservanza del Corano, la delegazione saudita ha risposto che loro difendono la “tradizione legale”
risalente all’inizio dell’Islam, 1400 anni fa.
Inoltre le esecuzioni per la pena di morte avvengono per decapitazione pubblica, fucilazione e a volte anche tramite lapidazione e crocifissione.
La condizione delle donne è altrettanto allarmante e può essere riassunta in questo proverbio arabo: «Una ragazza non possiede altro che il suo velo e la sua tomba». Infatti, nonostante l’Arabia Saudita abbia ratificato la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne
(CEDAW) del 1979, il comitato delle Nazioni Unite, che vigila sulla sua attuazione, ha appurato che la legislazione nazionale saudita non ha ancora attuato
il principio di uguaglianza di genere e la definizione di discriminazione sessuale. Tra i vari divieti imposti alle donne, vi è quello di guidare autoveicoli, contenuto in un fatwa (editto religioso) del 1990 e non in una legge, giustificato dalla convinzione che “comporterebbe danni a ovaie e utero”.
Il 26 ottobre 2013 è stata organizzata da un gruppo di attiviste un’intera giornata di lotta contro questo aberrante costume sociale.
A completamento del quadro, fin qui già disastroso, le libertà di parola e di stampa sono limitate e la rete è censurata dal governo.
Nel 2011 il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, con il Commento Generale N. 34, si è espresso riguardo i limiti consentiti alla libertà
di espressione: “Il semplice fatto che una forma di espressione sia considerato un insulto ad una figura pubblica non è sufficiente a giustificare l’applicazione
di sanzioni”.
Invece, già nel 1993, con il Commento Generale N. 22 sulla libertà di religione, il Consiglio si era pronunciato sulle restrizioni per la tutela della morale pubblica: affermando che “il concetto di morale deriva da molte tradizioni sociali, filosofiche e religiose, di conseguenza, limitazioni allo scopo di proteggere la morale devono essere basati su principi non derivanti esclusivamente da una sola tradizione”. Questi due Commenti Generali dell’UNHRC sono stati ricordati da Human Rights Watch nei suoi rapporti.
Amnesty International ha anche fatto presente una palese violazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la quale sancisce il diritto alla libertà di espressione e alla libertà di associazione, ovvero che “L’adozione di provvedimenti penali per aver criticato pacificamente funzionari e istituzioni pubbliche e per aver difeso pacificamente i diritti umani viola le norme internazionali sui diritti umani”.
Del tutto ignorato dall’Arabia Saudita anche il divieto di tortura, punizioni o trattamenti crudeli, inumani o degradanti stabilito dal diritto internazionale.
La cosa che indigna maggiormente l’opinione pubblica internazionale è che l’Arabia Saudita vanti uno dei 47 seggi presenti all’interno del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, organo più volte criticato proprio per la presenza al suo interno di stati che violano in maniera conclamata i diritti umani, solo per fare un esempio, la Cina).
Il Consiglio, che coopera con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ha sostituito la Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite del 1946. La sua risoluzione costitutiva, N. 60/251, emanata dall’Assemblea Generale il 15 marzo 2006, prevede, al punto “9”, che “i membri eletti al Consiglio debbano affermare i più alti livelli nella promozione e protezione dei diritti umani”.
Un controsenso per l’Arabia Saudita, che si guadagna di diritto l’epiteto di “giudice, giuria e carnefice”.

Raif e gli altri. il 1° settembre 2014 una Corte d’appello dell’Arabia Saudita ha confermato la condanna a 10 anni di carcere e 1000 frustate per il blogger Raif Badawi,
attivista per i diritti umani. L’accusa è di insulto alla religione islamica e di aver “creato un sito web dannoso per la sicurezza”. La sentenza si colloca in un clima già abbastanza teso in Arabia Saudita, a seguito delle proteste iniziate nel 2011 per la ripetuta violazione dei diritti umani e la mancanza di libertà individuali che si riscontrano nel Regno.
Gli articoli del blog “incriminati” sono parecchi. Un esempio è quello pubblicato per San Valentino, festa vietata in Arabia Saudita, in cui il blogger aveva manifestato dei dubbi sul divieto per i cittadini sauditi di festeggiare questa ricorrenza, aveva inoltre ridicolizzato la Commissione sulla promozione della virtù (detta anche polizia religiosa) e i funzionari che avevano sostenuto il divieto di includere le donne nel Consiglio della Shura, l’assemblea consultiva creata alcuni anni fa nel regno. Il suo blog, “Free Saudi Liberals”, era stato fondato nel 2006 come luogo di dibattito politico e sociale, per discutere di idee liberali e dell’influenza della religione in Arabia Saudita. Nel 2008 era stato arrestato per apostasia e subito dopo liberato. Raif aveva allora lasciato il paese per poi farvi ritorno nel momento in cui erano cadute tutte le accuse. Ma, pochissimo tempo dopo il suo ritorno, il 17 giugno 2012, è stato nuovamente arrestato ed è iniziato il suo processo dinanzi al Tribunale di Jeddah. Il 17 dicembre 2012 il Tribunale ha rinviato la causa alla Corte di appello di Jeddah con l’accusa di apostasia. Il 29 luglio 2013 è arrivata la condanna a sette anni di carcere, 600 frustate e la chiusura del blog. Il 25 dicembre 2013 la condanna era passata di nuovo alla pena di morte e Raif, detenuto dal giugno 2012 nel carcere di Briman a Jeddah, rischiava di essere ucciso dal proprio Governo. Nel maggio 2014 la sentenza per il blogger saudita era stata infine rivista, 10 anni di carcere, 1000 frustate e una multa di un milione di riya.
Il blogger non ha mai contestato la dinastia Saudita ed era un convinto sostenitore di una riforma del Regno. Le sue critiche erano rivolte alle rigide regole del Wahhabismo, al controllo della società esercitato usando metodi medievali e alla polizia religiosa che seminava paura fra i cittadini.
La moglie, Ensaf Haidar sta portando avanti una campagna per la liberazione del marito e, insieme ai tre figli, è andata a vivere in Libano. Mentre il co-fondatore del “Saudi Liberal Network”, Suad al-Shamari, spera a questo punto in un’amnistia da parte del nuovo re Salman salito al trono di recente.
In favore di Raif Badawi si sono attivate anche due famose ONG. La prima, Amnesty International, lo ha definito “prigioniero di coscienza” e invita a firmare un appello per liberarlo, il cui destinatario è il sovrano;
la seconda, Human Rights Watch, il cui vice direttore per il Medio Oriente, Eric Goldstein, ha affermato che “L’Arabia Saudita deve smettere di considerare il dibattito pacifico come un reato capitale”, ha invece pubblicato vari rapporti che analizzano la situazione in Arabia Saudita e l’accusano di gravi violazioni dei diritti dell’Uomo.
L’arresto di Raif Badawi non è il primo, e molti altri intellettuali liberali come lui sono stati arrestati per aver espresso la propria opinione. Solo nel giugno 2013 undici attivisti sono stati condannati. Questi arresti si collocano all’interno della situazione particolarmente delicata che si è creata
in Arabia Saudita a causa delle proteste che si sono verificate a partire dal 2011.

Un altro caso angosciante è quello di Ali al-Nimr oggi, 21 anni,
da tre è richiuso in un carcere saudita per aver preso parte alle proteste della “Primavera araba saudita”, iniziata ma mai finita, rivoluzione stroncata come tante altre di cui in occidente non si parla.
Allora Alì aveva 17 anni, e quelli trascorsi in carcere sono probabilmente gli ultimi della sua vita, dal momento che, se non interverranno fatti nuovi, sarà decapitato e crocifisso.
A pesare sulla sua condanna probabilmente vi è stata anche la confessione d’esser sciita, come suo padre e il padre di suo padre, quasi una bestemmia in Arabia Saudita, tra l’altro impegnata in un conflitto a bassa intensità con l’Iran degli Ayatollah. Suo padre Mohammed ha implorato il re saudita Salman affinché risparmi la vita del figlio, ma anche in occidente è in corso una catena di solidarietà che ha interessato
il presidente francese François Hollande e che è arrivata alle Nazioni Unite.

Al momento in cui scriviamo, l’atroce esecuzione di Alì non è avvenuta, delle mille frustate solo, si fa per dire, 50 sono state inflitte a Raif Badawi, ma su questi giovani e su molti altri pende la scure del boia che da un momento all’altro potrebbe entrare in azione, come accade di frequente di venerdì, dopo la preghiera, allo stadio di Jeddah.

PIERLUIGI GIACOMONI

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